Alcune
precisazioni: non conosco benissimo il mondo che ho descritto: ho
cercato d'informarmi il più possibile prima di pubblicare la
storia. Se qualcuno dovesse sentirsi offeso mi mandi un messaggio
privato o me lo scriva in una recensione. Insomma, le critiche sono ben
accette. Scrivere questa cosa è stato un vero parto e alla
fine
non è nemmeno venuta come l'avevo progettata io all'inizio.
I
paragrafi sono dal punto di vista di Albus Severus Potter e Scorpius
Hyperion Malfoy, alternandosi. Comincia Albus.
A
Sara,
perchè mi hai lasciato improvvisamente, lasciandomi il
sapore di
un ultimo "ti voglio bene" che non consideravo tale.
Tua,
Rosa.
Castagnola Rossa.
«
una storia di dubbi
e
di fughe da casa,
di
vestiti sbagliati
di
qualche inutile attesa
e
di rabbiose ostentazioni
e
le parole delle canzoni,
mai
scritte per me. »
[Enrico
Ruggeri]
In realtà, l'avevamo sempre saputo tutti: facevamo soltanto
finta di non vedere.
Tenevamo le mani sugli occhi, per non guardare, non osservare
quello che ci veniva ripetutamente sbattuto in faccia dalla
realtà; col senno
di poi, direi che stavamo semplicemente cercando di proteggerci. Non
che lui
fosse mai stato un pericolo, non di quelli tradizionali almeno. Era una
minaccia a quella pace, quella concordia che tutti amavamo. Lo sapevamo
in
realtà, ma non l'avevamo mai capito del tutto. Ancora oggi,
ripensandoci,
qualcosa mi sfugge.
Quando eravamo piccoli, Rose giocava tranquillamente con
noi, correndo, urlando, arrampicandosi sugli alberi. Spesso rimaneva a
casa
nostra, invitandosi all'ultimo momento: mangiava quella roba a cui
nostra madre
tentava di dare la parvenza di cibo -non è mai stata una
brava cuoca- e poi
giocavamo ancora per ore. Indossava un vecchio pigiama di James e
dormiva su un
materasso appositamente messo in camera nostra. Una volta ci lanciammo
cuscini
addosso fino a tarda notte. Picchiava bene, Rose: era una dura.
Ancora, mi chiedo come nessuno se ne fosse accorto prima dei
suoi sette anni. Forse i
grandi
pensavano che a quell'età fosse ancora troppo piccola e
scambiavamo quelli che
erano piccoli segnali -all'età di 4 anni era scoppiata a
piangere perché voleva
indossare un cravattino al matrimonio di Zio Percy- con la
vivacità e la
curiosità dei bambini. Mi sono informato, tempo dopo. Ho
letto tante
testimonianze, tanti libri, troppi articoli di giornale. Sono qui a
parlare con
voi ora non perché questa storia sia particolare -non lo
è per niente, lo
credevo una volta, ma non è così- e nemmeno per
fare da insegnante. Parlo con
voi per riordinare ciò che accadde in quegli anni, di cui
non c'è più traccia
in casa Weasley, neanche una foto. Lei non l'ha mai raccontato
chiaramente a
nessuno, ma credo dopo anni, tanti anni, di poter dire di aver capito:
quando
ormai lei non era più lei.
Sono consapevole di non essermi ancora spiegato bene, ma
permettetemi di arrivare con calma al punto della situazione, sono
sempre stato
tremendamente melodrammatico, sapete.
Tutto era cominciato tempo prima, ma quello che fu
considerato il primo segnale avvenne solo dopo anni. Rose aveva sette
anni,
boccoli rossi, grandi occhi cielo e lentiggini sul viso e sulla
schiena.
Facevamo ancora il bagno assieme a quel tempo: mamma riempiva un grosso
catino
di acqua in giardino e entrambi ci stringevamo per entrarci dentro. Era
la
nostra piscina privata quella.
Era estate quando accade. Zia Andromeda, che poi non è
nostra zia, aveva deciso di farci visita. Eravamo alla Tana: io, mio
fratello
James e Rose sedevamo con i grandi, comportandoci educatamente e
trattando con
sufficienza Lily e Hugo che piagnucolavano attaccati alle gonne delle
loro
mamme, fieri del nostro posto a tavola. Non ricordo se ci fosse qualcun
altro,
la mia memoria ormai ha perso colpi. Probabilmente c'erano anche gli
altri
cugini, dato che c'erano tutti gli zii attorno a quel tavolo. Ricordo
che a un
certo punto James era esploso dicendo «Io farò
l'Auror come papà. Papà è come
un supereroe che ai babbani piace tanto: io sarò come lui,
più forte di lui».
Ai miei occhi, nessuno poteva essere più forte di mio padre,
Harry Potter, così
mi trattenevo dal ridere con la mano sulla bocca e le guance gonfie.
I grandi sorridevano con occhi divertiti, papà Harry era
addirittura commosso.
Zia Andromeda a quel punto si era chinata su Rose, la piccola
rossa Rose e le aveva chiesto, continuando a tenere gli angoli della
bocca in
su: «E tu cosa vorresti fare da grande,
signorinella?».
Lei aveva alzato lo sguardo sicura, pronunciando quelle che
poi furono le parole che per tanti anni aleggiarono in quella casa e in
tutta
la famiglia, a lungo. «Il ragazzo, zia, da grande
farò il ragazzo.»
Non
è mai stato semplice essere un Malfoy: la storia del
nome e dell'onore che ti inculcano da bambino, il brand della famiglia
felice
bionda e bella, i giornalisti che ogni anno, ogni santissimo anno,
volevano
scrivere un articolo su come uno dei personaggi più
controversi della storia
del Mondo Magico viveva, tutte cose insopportabili. Ho sempre avuto una
pazienza pari a zero.
Non ricordo di essere mai stato un bambino spensierato,
felice e gioioso. Uno dei miei primi ricordi sono i miei genitori che
urlano in
casa, il suono di un piatto rotto e dei singhiozzi. Mio padre non ha
mai alzato
un dito su mia madre: mi ritengo fortunato, molto fortunato. E' sempre
stato un
tipo freddo che reagiva alle sue provocazioni con un distacco che
rivedo ancora
in me, tante volte, e che odio. Lei ce l'ha messa tutta per farsi
odiare da
quel marito che aveva pensato di volere: si era ritrovata imprigionata
in un
matrimonio con un uomo spezzato quando dentro di sé era
ancora vivo il fuoco
della vita. Si erano distrutti, quei due. Astoria
non faceva altro che tornare a casa con
profumo maschile addosso, col rossetto sbavato, dimostrando a lui che
lei era
calda, accogliente, viva per qualcun altro. Draco reagiva con distacco
e lei,
infuriata, cercava di smuoverlo lanciando oggetti contro la parete. Non
che
Draco fosse un angelo: non l'aveva mai toccata con un dito, nemmeno in
quell'altro senso. Le poche volte che aveva adempiuto ai doveri
coniugali era
stato quando la necessità di un erede si era fatta forte. Io
sono l'erede, se
non si fosse capito. Non sono qui per parlare della mia famiglia, di
quello
stronzo di mio padre e di quella pazza di mia madre. Semplicemente,
tutto
questo è necessario per capire meglio me.
Ho già accennato alcune delle cose che odio -la lista
è
molto lunga- ma ciò che davvero mi fa venire il voltastomaco
è una sola
cosa: le maschere.
La mia vita non è stata delle migliori, per undici anni ho
sopportato costantemente la freddezza di casa -poi preferii passare ad
Hogwarts
tutto il tempo possibile-, eppure quando uscivamo mio padre e mia madre
non
facevano altro che abbracciarsi teneramente, girare sottobraccio e
tenere per
mano il figlioletto, che sarei io. Io stesso sono la più
grande menzogna che i
miei potessero mai architettare: un figlio nato per
necessità, lasciato
crescere dai precettori perché tutti erano troppo distratti
dai loro problemi
per prendersi cura di me. Non faccio una colpa loro, mio padre dopo la
guerra
non si è più ripreso e ha trascinato mia madre
con sé. Eppure, quei momenti che
tanto avrei dovuto amare, quando i miei mi portavano fuori e mi
dimostravano il
loro bene, scatenavano in me disgusto. Odiavo la maschera di famiglia
felice.
Qui veniamo ai Weasley: loro sono il vero centro di questo
discorso. Per chi non li conoscesse, sono una famigliola felice,
sorridente,
lentigginosa. L'ideale della famiglia perfetta. Li avevo odiati subito:
quell'allegria e quell'amore che trasparivano erano per me la prova
tangibile
di una corruzione interna. Il passaggio era semplice: più si
dimostravano
felici, più avevano qualcosa da nascondere.
La mia mente di bambino associava facilmente le due cose, ma
mai avrei pensato che ero andato più vicino alla
realtà di quanto immaginassi.
Mi correggo: mai avrei pensato che quando i miei occhi si posarono su
Rose
Weasley per la prima volta, guardavo la crepa che avrebbe portato
quella
famiglia a dividersi ben presto -e che avrebbe portato me a sfiorare la
pazzia-.
La mia foto preferita però rimane quella con quell'impiastro
di James. Rose è tra noi, ride e si gira prima verso mio
fratello, poi verso di
me. Sirius e io le teniamo una mano sulla spalla, cingendola in un
abbraccio:
un gesto di protezione, di amore. Fu scattata l'estate prima che io e
Rose
cominciassimo il nostro primo anno ad Hogwarts. Eravamo inseparabili,
ma
riuscimmo lo stesso a separarci: fummo noi stessi la causa della nostra
rovina.
Lo Smistamento fu una cerimonia senza eguali e no, le
decorazioni continuavano ad essere le stesse, i tavoli pure, le
pietanze anche.
Fu quello che accadde a renderla unica. Iniziò la fine, quel
giorno.
Fu il cappello parlante ad annunciarlo con una singola
parola, Serpeverde! aveva urlato sulla mia testa. Non mi dispiaceva poi
tanto,
in realtà: papà sarebbe stato fiero di me
comunque, eppure il Ragazzo che è sopravvissuto
non aveva saputo prevedere il più prevedibile degli eventi.
In tutti gli angoli
di Hogwarts si sussurrava che il figlio del Salvatore del Mondo Magico
aveva
rotto la tradizione, era a Serpeverde, la casata degli ambiziosi, degli
astuti,
degli intelligenti, ma anche la casata di Colui che non deve essere
nominato,
di molti Mangiamorte, di maghi oscuri. Tutti chiacchieravano e io, io
ero solo.
Rose era finita a Grifondoro, prendendosi le lodi del Cappello -questo
gli
aveva sussurrato qualcosa prima di essere sfilato e Rose era andata al
suo
posto più turbata che mai-, così come James,
Grifone fiero.
Le tradizioni dovevano essere rispettate: Serpeverde e
Grinfondoro dovevano odiarsi, i Tassi dovevano, come al solito, andare
in giro
a spargere amore e i Corvonero dovevano passare il loro tempo in
biblioteca,
guardandoti dall'alto in basso. Andava così da sempre e
sempre così sarebbe
stato, ma quel peso che mi schiacciava non voleva proprio andarsene:
ero solo
un ragazzino e dovevo affrontare l'ombra di un padre e di una madre
famosi,
chiacchiere all'angolo e l'appellativo di colui che non è
stato all'altezza.
Ero messo alla berlina.
Non parlavo con James, un po' risentito per non avere il
compagno di una vita al suo fianco, e nemmeno con Rose. Eppure, quando
la vidi
arrivare in Sala Grande, sorridente e bella come non mai e con qualcosa
di
rosso in meno, non potei non amarla più del solito. Seppi
immediatamente che
l'aveva fatto per me, per cancellare il mio nome dalla bocca di tutti.
Mentre tutta Hogwarts non faceva che parlare del presunto
motivo per cui l'avesse fatto («Ha litigato con la famiglia,
mi hanno detto
che non è il genio che la madre si aspettava»
«Ma come, io sapevo che il
padre le ha presentato un cugino che vuole farle sposare, no, non so
quale, hai
presente quanti ne sono?»), io l'avevo capito, anche meglio
di quegli stupidi
dei suoi parenti. La piccolina aveva fegato in realtà:
tagliarsi i capelli per
spostare l'attenzione della scuola dalla Casa del Potter di mezzo alla
sua
testa rasata non era da tutti. In realtà non era da tutti
nemmeno capirlo, ma
io sono un Malfoy dopotutto.
In ogni caso, da quel giorno si guadagnò un briciolo del mio
rispetto: per carità, non per un qualche motivo legato al
coraggio e
all'altruismo -lo ripeto: sono un Malfoy!- ma aveva per la prima volta
infranto
una tacita legge
dei Weasley. Tutte
boccolose, tutte rosse, tutte con questi capelli lunghi: Rose li aveva
tagliati
quasi alla radice, causando una piccola sfumatura, non più
rosso
pomodoro-Weasley, ma un rosso un tantino più scuro. Quasi
impercettibile. Si
era distinta: vedevo come quel gesto come la prima crepa nella maschera
da
ottima famiglia.
Iniziai a trattare meglio anche Albus, oddio, non da
diventarci amico intimo, ma avevamo buoni rapporti: il nostro fulcro
era Rose,
era lei che ci univa oltre, naturalmente, la nostra Casa. Quando se ne
andò, io
e lui iniziammo ad allontanarci: ad ognuno l'altro ricordava due occhi
troppo
limpidi e il dolore riviveva di nuovo. A volte arriva ancora un gufo
bianco a
casa -i Potter sono così megalomani! Seguono le tradizioni-
portando gli auguri
per qualche festività. Albus sa benissimo che le odio ed io
so che lo fa di
proposito, ma il gesto è piacevole. Ho cominciato anch'io ad
abbandonarmi a
quei gesti meccanici, abitudinari, che da giovane tanto odiavo. Mi sto
rammollendo, se ci fosse Rose riderebbe e mi direbbe che è
vero, che somiglio
sempre più a mio padre, ma saprei amare meglio. Forse, non
userebbe il
condizionale, mi direbbe che lei sa il modo in cui amo e che io amo
mille volte
meglio. Eppure, l'ho lasciata andar via, spinto dalle mie paure,
proprio come
mio padre lasciò andare mia madre, ma mentre Astoria
continuava a portare
quella maschera, tanto da fondersi con essa, diventando tutt'uno
(proprio come
una pecora che visto il cancello del suo recinto aperto, si gira
dall'altro
lato), Rose appena visto sciogliersi il mio abbraccio intorno al suo
corpo, è
fuggita lontano e non ho avuto il coraggio di seguirla. Il cappello
parlante me
l'aveva predetto, dicendomi che non sarei mai potuto andare tra i
Grifondoro,
troppo coraggiosi per me. Eppure l'amavo, in quei gesti che tanto
conoscevo,
nei capelli tagliati a terra, nel sorriso e nelle braccia che reggevano
la
pluffa. L'ho amata sempre di più, durante le lezioni in
comune, le partite,
quelle viste dagli spalti e quelle combattute in aria, faccia a faccia,
l'ho
amata di un amore sincero, eppure era un amore sbagliato. L'avrei
dovuto capire
prima che non avrebbe mai funzionato, il primo anno, quando ghignando
mi ero
avvicinato a lei con la mia combriccola e le avevo urlato
«Guarda la
piccola Rose, sembra proprio un bravo ragazzo, chissà che
uomo sarà da
grande» e lei, sorridendo come sempre, «Lo so. Lo
so, Scorpius».
Zia
Hermione e zio Ron lessero della nuova acconciatura
della figlia su un giornale scandalistico, che annunciava a caratteri
cubitali
che la Weasley responsabile, quella che avrebbe dovuto avere il
cervello di sua
madre, era una ribelle. Arrivò una strillettera, che Rose
ignorò in Sala Grande
-brindò anche con del succo di Zucca ai suoi nuovi capelli-,
poi una lettera
più dolce della madre dove chiedeva se c'era qualche
problema. Evidentemente,
gli zii erano preoccupati che quelle fantasticherie sull'essere un
ragazzo non
passassero con l'adolescenza, come avevano predetto tempo addietro con
sorrisi
tirati.
Il primo Natale da quando eravamo andati ad Hogwarts lo
passammo alla Tana, come al solito, sotto lo sguardo di disapprovazione
di
Lily, che mai avrebbe tagliato i suoi capelli in un modo
così barbaro, e quello
di nonna, che poteva essere paragonato solo a quello rivolto
all'orecchino di
zio Billy in gioventù. Sembrava addirittura che i disastri e
gli scherzi fatti
da James passassero in secondo piano. Anni dopo, quando ormai avevamo
entrambi
dei figli, mio fratello mi confidò che aveva assunto
quell'atteggiamento da
presuntuoso e ribelle adolescente per far sì che calmassero
la presa su Rose.
Più lui portava a casa voti che facevano impallidire i
genitori, più Hermione
sentiva che sua figlia non era poi così strana.
Più io parlavo dei Serpeverde e
di come avremmo vinto la Coppa delle Case, più Ron si
convinceva che i capelli
corti non erano poi tanto male, paragonati alla sciagura di trovarsi
tra
viscidi alunni dei sotterranei. Ci eravamo sempre protetti, in qualche
modo,
noi tre: eravamo rimasti sempre uniti come in quella foto che avevo
cominciato
a tenere sul comodino, anche se fisicamente eravamo sempre
più lontani.
James cominciò ad avvicinarsi al mondo delle ragazze,
diventando abbastanza famoso tra i Grifondoro più alla moda.
Io avevo un gruppo
di amici, Serpeverde e Corvonero per la maggior parte, con cui passare
il mio
tempo. Rose invece strinse amicizia con il figlio dei Malfoy. Non so
come fosse
cominciato questo strano rapporto tra i due, ma sembravano capirsi al
volo.
Sedevano in silenzio in biblioteca, o in cortile, poi uno dei due
parlava.
Seguivano diversi minuti di silenzio, in cui le parole sembravano
volteggiare
nell'aria, dense e quasi afferrabili. Poi l'altro rispondeva. In un'ora
potevano dirsi poche cose, ma si erano detti tutto.
Ero davvero geloso e lei come al solito lo capì. Mi
invitò
con loro e devo dire che la cosa si ripeté spesso. Scorpius
mi era simpatico,
ma non sopportavo quel silenzio opprimente. Quando c'ero io, parlavo,
parlavo
per ore. Loro due ascoltavano e prima ancora che aprissero la bocca,
leggevo
nei loro sguardi la risposta. Questa cosa mi faceva paura. Sapevo
infatti che
come io potevo leggere loro, loro leggevano me. Mi era capitato in
passato solo
con James, ma non c'erano così tante paure, così
tante domande nel suo sguardo.
Eravamo bambini allora. In quei momenti invece leggevo un baratro
incolmabile
negli occhi di Rose, come quello di una montagna che è stata
portata via
improvvisamente e che nessuno ha mai visto, lasciando un'enorme traccia
visibile della sua esistenza. Nel rampollo Malfoy vedevo invece la
voglia
incredibile di ignorare questa mancanza, di superarla, di renderla
improvvisamente invisibile: come se la montagna non ci fosse stata mai.
Sapevo
che si sarebbe schiantato contro un'atroce verità, contro la
testardaggine di
mia cugina, contro quel suo futuro che ella progettava
dall'età di quattro
anni.
Ora, penso vogliate sapere cosa leggessero invece nel mio
sguardo: me lo sono chiesto tante volte. Penso che nei miei occhi verdi
ci
fosse la paura data dalla conoscenza: sapevo meglio di chiunque altro e
speravo, pregavo, che un domani non arrivasse mai.
Fu quella stupida di sua cugina -la scelta del cappello di
spedire in Grifondoro la dolce e cara Lily Luna Potter fu presa molto
probabilmente sotto effetto di farmaci o minacce, quella era una
Serpeverde coi
fiocchi- a mettere le voce in giro. Si dà il caso che un
Tassorosso avesse
iniziato a guardare con malcelato interesse le curve della Weasley e
fosse
corso dalla tipa di cui sopra per cercare un aiuto in quella che
sembrava
un'impresa disperata. Sapete cosa disse la piccola di casa Potter?
«Tesoro,
credo proprio che tu possa riuscire ad entrare nelle mutande di mia
cugina solo
e unicamente se in possesso di una figa, lì sotto»
con voce ben udibile da
tutta la tavolata, compresa Rose, che non si ribellò. A
nulla servirono le
strigliate di capo di Albus a sua sorella, né il caro e figo
James Potter che
dall'alto della sua posizione cercava di
far tacere le voci minacciando di affatturare chiunque
trovasse a
parlare dell'omosessualità dell'adorata cugina. Il
pettegolezzo si estese a
macchia d'olio.
Eravamo in biblioteca quel giorno: io studiavo
Trasfigurazione, buttando un occhio a quella che mi era seduta
affianco. Rose,
aprendo il libro, aveva trovato scritto con inchiostro rosso "Lesbica
del
cazzo". Con un colpo di bacchetta, aveva pulito, ritornando al suo
studio.
Ero affascinato dal suo modo di fare così distaccato: non
sembrava soffrirne.
Volevo andare a fondo, scavare fino a trovare l'origine di quella pace,
la
verità dietro quella facciata. Le rivolsi per la prima volta
la parola da quell'infelice
battuta al primo anno.
«Quindi, sei gay?»
«Sei il primo che me lo chiede, in altre circostanze ti
avrei dato un ceffone, ma sei stato più educato di
altri»
Silenzio. Rumore di pagine girate. La sua voce limpida.
«Comunque, no. Non sono lesbica. E poi, perché
dare
determinate classificazioni a una così variegata cosa come
l'amore?»
Mi spiazzò. Il silenzio stavolta fu il mio. Poi parlai,
dicendo la cosa più stupida che potessi mai dire.
«Sembri più matura per la tua
età.»
Un sorriso, più rivolto a me che al libro di
Trasfigurazione, spero.
«Anche tu.»
Cominciammo ad essere maturi insieme da quel giorno.
L'allenamento di Quidditch aveva dato i suoi frutti: Rose
era diventata la migliore cacciatrice di cui io abbia memoria in quei
sette
anni di scuola. Era meravigliosa, in sella alla sua scopa: sembrava
essere nata
per stare a contatto con quel pezzo di legno e diciamocelo, aveva una
vista d'aquila.
A differenza di Hugo, che inciampava in qualsiasi cosa fosse
più piccola del
metro e che viveva praticamente in simbiosi con un paio di occhiali in
tartaruga spessi quanto fondi di bottiglie, i geni dei Weasley-Granger
avevano
donato alla primogenita un'eccezionale mira.
Il primo anno in cui Rose fece parte della squadra di
Quidditch Grifondoro vinse. Vorrei aggiungere che riuscì a
portarsi a casa la
Coppa solo per pochi punti, in realtà, e che la squadra
Serpeverde quell'anno
era davvero fiacca. In ogni caso, Rose divenne una specie di santa, nei
dormitori, riuscendo un po' a far tacere la pessima fama che l'uscita
di Lily
l'anno precedente le aveva portato.
Il volto estasiato di mia cugina quando giocava era forse il
miglior balsamo di questo mondo: con la divisa da Quidditch
così diversa dalla
gonna grigia a pieghe, i capelli che aveva mai fatto ricrescere, le
spalle e le
braccia forti, sapevo che si piaceva davvero tanto e dava il meglio di
sé, perché
quello era la parte migliore della sua vita. Io e James ci beavamo di
quella
visione: vederla così libera e viva come non era stata mai
faceva sentire vivi
anche noi.
Poco tempo dopo quella vittoria, non so per quale motivo,
che rimarrà a me sconosciuto in quanto seppellito nei
dormitori di Grifondoro,
tutti cominciarono a chiamare Rose con l'appellativo di Robb. Posso
solo
immaginare che questo sia dovuto al suo aspetto mascolino e forse anche
alla
sua ferocia in campo, ma non so bene come mai la scelta fosse caduta su
questo
diminutivo di Robert. Inizialmente lo usavano i suoi compagni di
squadra, poi
evidentemente si era diffuso in tutta la Sala Grande, arrivando ad
essere, per
tutto l'anno successivo, il vero nome con cui quelli di prima
conoscevano Rose.
Tutti gli altri naturalmente sapevano come si chiamava realmente mia
cugina, ma
quel soprannome era così diffuso da divenire persino il modo
con cui io e James
e Scorpius ci rivolgevamo a lei.
Ch'io sappia, la cosa le piaceva. Cioè, da quello che mi
disse, avrebbe preferito un nome più carino, tipo Alekos,
che era un generale
babbano greco o qualcosa di simile, o anche Michael, più
leggiadro, ma le
sarebbe potuto andare anche peggio. Nominò infatti due o tre
nomi che mi fecero
rabbrividire.
Avevo notato come zio Ron e zia Hermione avessero chiamato i
figli con le proprie iniziali, Hugo e Rose, quasi come a sancire quel
legame
indissolubile che li legava e avevo notato come Rose amasse
sottolineare questa
cosa con particolare orgoglio. Probabilmente quelle di mia cugina erano
tutte
bugie: se avesse dovuto scegliere un nome maschile, avrebbe scelto
proprio un
nome con la lettera 'r', per non spezzare questo piccolo gioco che
apparteneva
alla sua famiglia.
Dicembre del penultimo anno fu un mese particolare. Fu il
mese in cui nessuno organizzò un festino (nemmeno il
primogenito Potter, che
era al suo ultimo anno), fu il mese in cui nevicò solo due
giorni prima di
Natale e pochissimo in modo che nessuna battaglia a palle di neve
potesse
essere organizzata (Merlino sia lodato), fu il mese in cui non
servirono succo
di zucca ad Hogwarts (i motivi sono sconosciuti, ma fu una tragedia a
livelli
epocali, quella), il mese in cui Robb convinse la preside a concedergli
di
indossare la divisa maschile e fu anche il mese in cui mi dichiarai.
Non so come mai ricordi tutti questi particolari, che
comparati alle ultime due vicende sono solo bazzecole. Robb, che ormai
aveva
acquisito anche pronomi maschili (tranne a casa, lì
costringeva i parenti a
chiamarlo al massimo Ro, per non destare sospetti nei genitori), aveva
fatto
passare la sua personale battaglia come una battaglia femminista che
coinvolgeva non solo Hogwarts, ma tutti gli istituti, babbani e magici.
Non
capii bene come fece, ma si presentò a settembre con un
plico di articoli che
decantavano la libertà di espressione del ragazzo e del
bambino e la
costrizione in una divisa di uno spirito libero. Il suo scopo non era
far
abolire la divisa, ma semplicemente permettere che le ragazze non
fossero
costrette a portare necessariamente la gonna, così come i
ragazzi non fossero
costretti a portare i pantaloni, se essi avessero voluto. Inoltre,
voleva
alleggerire le regole che vigevano nella scuola, che costringevano i
ragazzi a
girare con vestiti della comunità magica che li privavano
della libera
espressione. Convinse anche le ragazze che essere costrette a stare con
la
gonna in periodo invernale era scomodo, che spesso non potevano giocare
in
cortile o magari dovevano stare più attente al contrario dei
ragazzi. La
preside ricevette una pressione psicologica e sociale così
forte da
acconsentire non solo che le differenze tra divisa maschile e femminile
fossero
abolite, ma anche alcune norme che permettevano di vivacizzare in
qualche modo
i capi d'abbigliamento. Si videro camminare ad Hogwarts scozzesi col
kilt,
ragazze con un scarpette colorate o ragazzi con cravatte magiche.
Né io né Robb
cambiammo di molto le nostre divise: io mi concessi di utilizzare un
maglioncino dello stesso colore ma che non mi causasse un
così stressante
prurito e Robb si concesse dei pantaloni. Questa battaglia l'aveva reso
in un
certo senso un eroe tra gli alunni, ma si era attirato l'astio della
preside,
che credo però che in cuor suo l'ammirasse per la tenacia.
Io e Robb non avevamo mai parlato in realtà di questo
binomio che viveva in lui: da una parte Rose, la bella e vivace rosa
rossa,
pronta a qualsiasi cosa per un amico, dall'altro Robb, l'uomo che lei
desiderava essere, quell'entità in cui si trovava a suo agio
e che riusciva a
darle sicurezza. Ero io principalmente che non volevo affrontarlo:
avevo paura.
In realtà, la mia ammirazione per Rose era sfociata in un
amore puro e vivo già
da qualche anno. Era un amore presso più platonico, salvo
qualche sogno che mi
aveva fatto risvegliare più accaldato che mai. Inizialmente,
pensavo di poter
scavalcare il problema, arginarlo e vivere di romanticismo e filosofia.
Tuttavia, quando Robb si fece sentire più pressante che mai,
non potei più
evitare di pensare che forse, era tutto sbagliato. Era così
importante
costringere il mio sentimento in etichette quali etero o omo?
Era così straziante per Robb nascondersi dentro Rose, me lo
scriveva in estate, con gufi che dalla Tana ormai avevano imparato a
memoria il
tragitto per Malfoy Manor. La persona di cui ero innamorato
probabilmente non
era mai esistita, eppure la sentivo, affianco a me, la vedevo tutti i
giorni.
Era in Robb, o forse era Robb, solo che la chiamavo con un nome diverso
nei
miei sogni, per paura o cos'altro. Un giorno in cui mi sentivo
particolarmente
coraggioso glielo dissi: «Se ti amassi?».
Lui, ridendo con lo stesso
sorriso del primo anno, non era mai cambiato
quello, «Avresti paura, tanta
paura, Scorpius. Non sarebbe facile, lo sai. Ritorna quando quella
domanda si
sarà trasformata in un'affermazione».
A casa ormai si erano rassegnati a vedere Rose in quel modo.
Spesso mi mordevo le labbra per non farmi uscire un ''Robb» a
voce troppo alta
oppure per non rivolgermi a lei con epiteti maschili. Penso che tutti
fossero
rassegnati, credendola lesbica. In realtà, ch'io sapessi,
oltre a quella specie
di relazione spirituale con Scorpius non c'era mai stato nessuno nella
sua
vita. A parte una breve parentesi con una tipa di un anno
più grande, che
quando aveva insistito per andare più in là era
stata prontamente lasciata. Non
credo dovesse essere facile per lui vedersi in un corpo femminile e
rapportarsi
con la sessualità in quel periodo. Per me gli anni
dell'adolescenza furono un
continuo sfogarmi sulla musica intervallato soltanto da qualche uscita
con
qualche tipetta che trovavo carina. James invece si era divertito
parecchio
nelle aule in disuso della scuola, o almeno così si
vociferava. In ogni caso,
avevamo fatto le nostre esperienze e avevamo preso coscienza del nostro
corpo.
Lui non poteva averne l'occasione e quindi, lo pensavo bloccato a uno
stadio di
frustrazione. Evidentemente, i buoni risultati nel Quidditch erano
dovuti a
questo. Come al solito, io e James cercavamo in tutti i modi di
rendergli le
cose più semplici: uno di questi modi era far tacere Lily.
Nostra sorella non è
mai stata un angelo, è vero, ma verso Robb provava quasi
un'antipatia naturale:
era stata lei a mettere le voci sulla sua omosessualità
quando era ancora
conosciuta come Rose, era lei che ricordava tutti i giorni alla
famiglia quella
che lei considerava una pecora nera. Io e James arrivammo quasi ad
odiarla,
quella sorella così smorfiosa. In realtà, non ci
rendevamo conto che eravamo
proprio noi a spingerla a quei gesti così infantili. Non
l'avevamo considerata
mai come una vera e propria sorella, più che altro come un
prodotto di nostra
madre e nostro padre, che con noi aveva in comune solo il sangue.
Quando Lily
nacque, io James e Robb, Rose, mi correggo, avevamo qualche anno in
più, non
molto in verità, ma abbastanza perché giocassimo
tutti e tre assieme. Quando
Lily cominciò a muovere i primi passi, noi cominciammo a
correre e quindi, poco
sopportavamo quella sorella piagnucolona, che lasciavamo alle prese con
il
timido Hugo, a cui sorte simile era toccata. Causammo in lei una
gelosia
profonda che con gli anni andò crescendo. Hugo invece non
sembrava toccato
dalla situazione, o almeno così abbiamo creduto per anni. E'
incredibile come
il velo raggiunto un certo momento della vita si squarci e lasci
intravedere
tutto ciò che c'è sotto.
Tornai
poi, alla fine dell'anno. Lo baciai.
Non so esattamente cosa mi spinse a farlo: forse il desiderio
che qualcosa andasse in un certo senso al suo posto e niente mi
sembrava così
adeguato in quel momento di unire le mie labbra alle sue. Il mio amore
per le
cose rotte e imperfette mi aveva fatto perdutamente capitolare e in sei
anni
era cresciuto a dismisura. Era l'ultimo giorno del penultimo anno,
eravamo
nella sala comune dei Grifondoro ormai vuota e parlavamo di come
quell'anno
avrebbe sancito la fine dell'innocenza, di come a Settembre avremmo
dovuto
affrontare una delle grandi prove della nostra vita.. ecco, forse era
perché si
parlava di prove e di crescita che avevo deciso di saltare il dirupo.
Quindi, lo baciai. Fu un bel bacio dopotutto. Robb non
parlò, ma si stese al mio fianco. Stemmo in silenzio tutta
la notta, ma
sorridevamo.
Durante l'estate ci scrivemmo un sacco di lettere: nessuno
di noi pretendeva una risposta dall'altro, erano perlopiù
sfoghi senza capo né
coda, flussi di coscienza impressa sulla carta. Non ci fu alcun bacio
il
settimo anno: penso che Robb avesse capito come la cosa mi facesse
sentire in
un certo senso sbagliato e quindi si adeguava ai miei tempi. Credo che
soffrisse
molto in quel periodo, ma non lo dava a vedere sopportando tutto con il
coraggio di un Grifondoro (una volta mi svelò ciò
che gli disse il Cappello
Parlante nell'orecchio, in un certo senso, gli aveva predetto il suo
futuro,
dicendogli che uno come lui avrebbe avuto bisogno di tanto coraggio: la
particolarità era che aveva usato il maschile, cosa che
rendeva Robb fiero e
gongolante).
Quello fu l'anno in cui scegliemmo il nostro futuro: io
decisi di intraprendere la carriera di Medimago, Albus, che puntava in
alto,
voleva una carriera come funzionario nel Ministero della Magia e
conoscendolo,
non si sarebbe fermato certo a un lavoro come semplice impiegato. Robb
era
certo solo di una cosa: aveva letto su una diavoleria di nome Internet
che
esistevano centri babbani che permettevano un cambio di sesso. Aveva
poi
scoperto e stavolta non chiedetemi come, che in un particolare paese
americano
questa pratica era associata anche a medicina magica, che permetteva
comunque
di diminuire il trauma fisico che l'operazione comportava. Mi aveva
anche
illustrato il procedimento: era stato giorni con disegnini di organi
genitali e
liste di ormoni dai nomi impronunciabili a ridere ed entusiasmarsi.
Dovetti
convivere per una settimana con lui che mi sventolava in ogni occasione
un
foglio con l'illustrazione di un pene. Una domanda sorgeva a me
spontanea:
l'avrei amato fisicamente? Una relazione sessuale al momento era
impossibile
con lui, ma io, che avevo avuto solo storie con ragazzine e nemmeno poi
tante
in verità, avrei provato piacere con un corpo maschile? La
sua mente rimaneva
sempre quella, ma vivere una vita senza una componente sessuale era a
dir poco
deprimente per un allora diciassettenne. Oggi, ci rinuncerei volentieri
per
lui, ma questo è un altro capitolo.
In ogni caso, Robb lasciò Hogwarts con l'idea di affrontare
i genitori.
Fece
tutto da solo:
non capii come avesse fatto, come avesse
potuto sopportare tutto senza qualcuno al suo fianco, ma
parlò a
zio Hermione e
zio Ron. Lo capii subito da come entrarono alla Tana un giorno: i volti
tesi,
le occhiaie e gli occhi gonfi di pianto di zia non mentivano. Quel mese
saremmo
stati solo noi Potter e i Weasley-Granger nella vecchia casa (ormai
disabitata:
i nonni ci avevano lasciato qualche anno prima, a pochi giorni uno
dall'altro, «non potevano vivere separati»
fu il
commento di tutti) causa lavori
in corso nella nostra via che non facevano concentrare nessuno. Robb
ebbe il
coraggio di parlarne anche con quei pochi riuniti lì: fu
diretto, parlò a lungo
delle esperienze ad Hogwarts e di come non si fosse mai sentito una
donna in
fondo. Finì dicendo «James e Albus lo
sapevano».
Pensai di ucciderlo
in quel momento, in verità.
I ricordi seguenti sono confusi: ricordo pianti isterici e
urla da parte di Hermione, commenti
di
Lily, facce sbigottite dei miei genitori, aria di rassegnazione da
parte di Ron
e la solita faccia apatica sul volto di Hugo. La settimana seguente fu
un
Inferno. Hermione non usciva dalla sua stanza, assistita solo da mia
madre. Ron
a volte si soffermava troppo al lungo con uno sguardo su una parete. I
pasti
erano diventati una battaglia tra i favorevoli e gli scettici.
Papà non faceva
altro che ripetere «Magari è solo una
fase», come se improvvisamente
tutto passasse.
Nelle tre settimane successive invece cadde il gelo sulla
casa. Al termine di queste, trovai Robb sulle scale. Mi sembrava di non
vederlo
da una vita: aveva negli occhi un'espressione matura, forte, quella di
chi è in
una tempesta e lotta per uscirne. Mi raccontò di come avesse
parlato con suo
padre in privato. Ron, stranamente, dato il suo caratteraccio, l'aveva
ascoltato. Aveva sì fatto qualche gaffe, con battute poco
carine, ma Robb aveva
chiuso un occhio sull'indelicatezza del padre. Gli aveva parlato
dell'America e
dell'operazione, del suo desiderio. Per due giorni lo zio era andato di
nascosto in camera di Robb e aveva letto i suoi libri: non credo che ci
avesse
capito molto in verità, ma sembrò rassegnato, o
almeno, favorevole. Il terzo
giorno aveva lasciato in camera dell'ormai figlio una cospicua somma di
denaro.
Non si erano più visti, ma mentre Robb me lo raccontava
aveva gli occhi lucidi.
Poi, mio cugino aveva raccontato di zia Hermione. Lì pianse
veramente, poggiato
con la testa sulla mia spalla. Lei non voleva accettarlo, non faceva
altro che
disperarsi. In realtà, mi sarei aspettato una reazione
diversa da una donna
così saggia: ma c'è da dire che Rose era la sua
unica figlia, in cui in parte
si rispecchiava. Avevano la stessa acuta intelligenza, la stessa
saccenza, i
tratti del viso simili. Inoltre, si colpevolizzava credendo che
l'origine del
''problema'' di Rose fosse lei. Le aveva detto cose che una madre non
dovrebbe mai dire al frutto del proprio ventre.
Robb aveva bisogno dell'approvazione della famiglia: il
percorso sarebbe stato difficile e spietato sia verso il suo corpo che
verso la
sua mente, affrontarlo senza qualcuno al suo fianco sarebbe stato un
vero
girone dell'Inferno.
Vidi l'amico di sempre distrutto quella sera: nonostante
avesse per tanto tempo celato il suo dolore, questo si era rovesciato
su di noi
senza preavviso. Passammo la serata nella sua stanza in silenzio: a un
certo
punto venne anche James, che non fece domande, nemmeno una. Si sedette
sul
letto e guardò il muro. Entrambi facemmo finta di non vedere
il borsone in un
angolo.
Venne da me una mattina d'estate: era prestissimo, aveva due
occhiaie scure e residui di pianto intorno agli occhi. Malfoy Manor ci
guardava
con le sue finestre come occhi, nella nebbiolina leggera di
quell'estate
caldissima. Mi raccontò tutto velocemente, mangiando le
parole, con la fretta
che mai l'aveva caratterizzato. Mi raccontò di una madre
ormai distrutta a
causa sua, di un padre che si sforzava di capire, di quello che
avrebbero detto
i familiari. Mi raccontò di due cugini come fratelli e di un
fratello
ritrovato, di come questi vedendolo andar via, l'aveva abbracciato per
la prima
volta da quando avevano cominciato la scuola,
dicendogli «Ti voglio
bene». Mi raccontò di come non potesse chiedere
sacrifici a nessuno della
sua famiglia, che doveva vedersela da solo. Infine, mi
raccontò di come stesse
per lasciare tutto ed io, intontito per il sonno e per la notizia,
rimasi
freddo, immobile.
Non mi chiese di andare con lui, non l'avrebbe mai fatto, ma
sulle sue labbra socchiuse c'era una sola domanda. Me la
rivelò
a voce bassa: «Tornerò diverso,
tornerò me
stesso. Mi amerai ancora?»
Stavolta, non c'era un anno per pensarci, non c'era
un «ritornerai quando-», c'era solo il
nostro bisogno
disperato di averci e la
mia paura. Scorpius Malfoy fu un codardo quel giorno. Frequentare una
Weasley
era un conto. Frequentare Rose Weasley un altro. Frequentare Robb
Weasley, che
fu Rose, ora uomo, era praticamente una coltellata al cuore dei Malfoy.
Pensai
a mio padre, al suo sguardo rotto e a mia madre con il rossetto
sbavato. Robb
era stato il mio amore: amavo le cose sbagliate, inceppate, che
mostravano la
loro vera natura, quella di macchine imperfette. Quel giorno scelsi
invece
l'ipocrisia di un mondo in cui tutto era normale. Fu la paura a
spingermi
lontano.
Glielo dissi: «Non lo so».
In quel momento uccisi l'ultimo pezzetto di Rose Weasley,
l'ultimo suo pezzo di vita. Risorse dalle ceneri, ma mi
lasciò da solo nel mio
buio. Non vidi mai più quegli occhi azzurri.
Dio, se me ne pento.
Diciassette anni dopo, un giorno d'estate, dopo pranzo,
bussarono alla porta della Tana. Placcai giocosamente il mio piccolo
Mathias
che si era lanciato per riuscire ad aprire la porta e, tenendolo ancora
in
braccio, la aprii. Finalmente, lo vidi. Lo riconobbi subito: gli occhi
erano
sempre gli stessi, limpidi, azzurri e capaci di leggerti dentro. Un
filo di
barba circondava lo stesso sorriso di sempre. Piansi come un bambino,
abbracciandolo, davanti ai figli confusi. Dopo di me toccò a
James, che si era
fiondato sul cugino e sembrava non volesse staccarsi. Hugo aveva gli
occhi
lucidi, traditi dai grossi goccioloni che rimanevano attaccati agli
occhiali.
Ron stringeva la mano di Hermione e rideva, estasiato. Seguivano Robb
una donna
dai lunghi capelli neri e una bambina dai tratti asiatici, attaccata
alla gamba
di mio cugino, che noi non avevamo notato prima troppo presi dalla
gioia del
momento.
«Mia moglie e mia figlia» furono le prime parole
pronunciate quel giorno. Fu un pomeriggio di chiarimenti, di scuse da
parte di
tutti noi, compresa Lily, di scherzi di James, di presentazioni. I miei
figli
tirarono le trecce di Aiko, la figlia adottiva di Robb, e lei
tirò una scarpa
in testa ad ognuno di loro.
Mi commossi -in realtà non avevo mai smesso di piangere-
quando zio Ron prese in braccio la nipotina appena conosciuta e
urlò «Anche se non hai i capelli rossi sei proprio
una
Weasley, guarda che
riflessi! Ce l'hai una scopa?» Credo si commosse anche Robb,
mentre sua
moglie gli teneva la mano. Nessuno di noi pensava che si fosse fatto
una
famiglia in America. Era finalmente felice.
Zia Hermione era stato in un angolo tutto il tempo con lo
sguardo perso nel vuoto. Avevamo tutti trattenuto il respiro quando
Robb gli si
era avvicinato con le lacrime agli occhi, accarezzandogli i
capelli. «Perché
piangi?» aveva chiesto lei. «Diciassette
anni fa ho perso una figlia,
sai? Ho pianto tanto anche io. Hai perso qualcuno?» aveva
continuato.
«Avevo perso una madre, oggi sono venuto qui per
cercarla».
Nell'abbraccio che era seguito, avevo visto consapevolezza e
lucidità degli occhi della zia, come non accadeva da tempo.
Oggi, porto sul comodino la foto della mia famiglia, quella
del primo giorno di scuola dei miei figli e quella di Robb, James e me,
scattata quel giorno. Robb si
gira prima verso di me, poi verso James, guarda
l’obiettivo e sorride.
*La
castagnola
rossa è un pesce in grado di cambiare sesso, da femmina a
maschio. Il rosso dei capelli di Rose sembrava richiamare questa specie.