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Autore: pirupiru    11/05/2014    4 recensioni
"Tenevamo le mani sugli occhi, per non guardare, non osservare quello che ci veniva ripetutamente sbattuto in faccia dalla realtà; col senno di poi, direi che stavamo semplicemente cercando di proteggerci. Non che lui fosse mai stato un pericolo, non di quelli tradizionali almeno. Era una minaccia a quella pace, quella concordia che tutti amavamo. Lo sapevamo in realtà, ma non l'avevamo mai capito del tutto. Ancora oggi, ripensandoci, qualcosa mi sfugge."
Tematiche forti, linguaggio scurrile in pochi punti.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Rose Weasley, Scorpius Malfoy | Coppie: Rose/Scorpius
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
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princesa

Alcune precisazioni: non conosco benissimo il mondo che ho descritto: ho cercato d'informarmi il più possibile prima di pubblicare la storia. Se qualcuno dovesse sentirsi offeso mi mandi un messaggio privato o me lo scriva in una recensione. Insomma, le critiche sono ben accette. Scrivere questa cosa è stato un vero parto e alla fine non è nemmeno venuta come l'avevo progettata io all'inizio.
I paragrafi sono dal punto di vista di Albus Severus Potter e Scorpius Hyperion Malfoy, alternandosi. Comincia Albus.

A Sara, perchè mi hai lasciato improvvisamente, lasciandomi il sapore di un ultimo "ti voglio bene" che non consideravo tale.
Tua, Rosa.

Castagnola Rossa.

« una storia di dubbi 
e di fughe da casa, 
di vestiti sbagliati 
di qualche inutile attesa 
e di rabbiose ostentazioni 
e le parole delle canzoni, 
mai scritte per me. »
[Enrico Ruggeri]

In realtà, l'avevamo sempre saputo tutti: facevamo soltanto finta di non vedere. 
Tenevamo le mani sugli occhi, per non guardare, non osservare quello che ci veniva ripetutamente sbattuto in faccia dalla realtà; col senno di poi, direi che stavamo semplicemente cercando di proteggerci. Non che lui fosse mai stato un pericolo, non di quelli tradizionali almeno. Era una minaccia a quella pace, quella concordia che tutti amavamo. Lo sapevamo in realtà, ma non l'avevamo mai capito del tutto. Ancora oggi, ripensandoci, qualcosa mi sfugge.
Quando eravamo piccoli, Rose giocava tranquillamente con noi, correndo, urlando, arrampicandosi sugli alberi. Spesso rimaneva a casa nostra, invitandosi all'ultimo momento: mangiava quella roba a cui nostra madre tentava di dare la parvenza di cibo -non è mai stata una brava cuoca- e poi giocavamo ancora per ore. Indossava un vecchio pigiama di James e dormiva su un materasso appositamente messo in camera nostra. Una volta ci lanciammo cuscini addosso fino a tarda notte. Picchiava bene, Rose: era una dura.
Ancora, mi chiedo come nessuno se ne fosse accorto prima dei suoi sette anni. Forse  i grandi pensavano che a quell'età fosse ancora troppo piccola e scambiavamo quelli che erano piccoli segnali -all'età di 4 anni era scoppiata a piangere perché voleva indossare un cravattino al matrimonio di Zio Percy- con la vivacità e la curiosità dei bambini. Mi sono informato, tempo dopo. Ho letto tante testimonianze, tanti libri, troppi articoli di giornale. Sono qui a parlare con voi ora non perché questa storia sia particolare -non lo è per niente, lo credevo una volta, ma non è così- e nemmeno per fare da insegnante. Parlo con voi per riordinare ciò che accadde in quegli anni, di cui non c'è più traccia in casa Weasley, neanche una foto. Lei non l'ha mai raccontato chiaramente a nessuno, ma credo dopo anni, tanti anni, di poter dire di aver capito: quando ormai lei non era più lei.
Sono consapevole di non essermi ancora spiegato bene, ma permettetemi di arrivare con calma al punto della situazione, sono sempre stato tremendamente melodrammatico, sapete.
Tutto era cominciato tempo prima, ma quello che fu considerato il primo segnale avvenne solo dopo anni. Rose aveva sette anni, boccoli rossi, grandi occhi cielo e lentiggini sul viso e sulla schiena. Facevamo ancora il bagno assieme a quel tempo: mamma riempiva un grosso catino di acqua in giardino e entrambi ci stringevamo per entrarci dentro. Era la nostra piscina privata quella.
Era estate quando accade. Zia Andromeda, che poi non è nostra zia, aveva deciso di farci visita. Eravamo alla Tana: io, mio fratello James e Rose sedevamo con i grandi, comportandoci educatamente e trattando con sufficienza Lily e Hugo che piagnucolavano attaccati alle gonne delle loro mamme, fieri del nostro posto a tavola. Non ricordo se ci fosse qualcun altro, la mia memoria ormai ha perso colpi. Probabilmente c'erano anche gli altri cugini, dato che c'erano tutti gli zii attorno a quel tavolo. Ricordo che a un certo punto James era esploso dicendo «Io farò l'Auror come papà. Papà è come un supereroe che ai babbani piace tanto: io sarò come lui, più forte di lui». Ai miei occhi, nessuno poteva essere più forte di mio padre, Harry Potter, così mi trattenevo dal ridere con la mano sulla bocca e le guance gonfie.
I grandi sorridevano con occhi divertiti, papà Harry era addirittura commosso.
Zia Andromeda a quel punto si era chinata su Rose, la piccola rossa Rose e le aveva chiesto, continuando a tenere gli angoli della bocca in su: «E tu cosa vorresti fare da grande, signorinella?».
Lei aveva alzato lo sguardo sicura, pronunciando quelle che poi furono le parole che per tanti anni aleggiarono in quella casa e in tutta la famiglia, a lungo. «Il ragazzo, zia, da grande farò il ragazzo.»

 

 

Non è mai stato semplice essere un Malfoy: la storia del nome e dell'onore che ti inculcano da bambino, il brand della famiglia felice bionda e bella, i giornalisti che ogni anno, ogni santissimo anno, volevano scrivere un articolo su come uno dei personaggi più controversi della storia del Mondo Magico viveva, tutte cose insopportabili. Ho sempre avuto una pazienza pari a zero.
Non ricordo di essere mai stato un bambino spensierato, felice e gioioso. Uno dei miei primi ricordi sono i miei genitori che urlano in casa, il suono di un piatto rotto e dei singhiozzi. Mio padre non ha mai alzato un dito su mia madre: mi ritengo fortunato, molto fortunato. E' sempre stato un tipo freddo che reagiva alle sue provocazioni con un distacco che rivedo ancora in me, tante volte, e che odio. Lei ce l'ha messa tutta per farsi odiare da quel marito che aveva pensato di volere: si era ritrovata imprigionata in un matrimonio con un uomo spezzato quando dentro di sé era ancora vivo il fuoco della vita. Si erano distrutti, quei due. Astoria  non faceva altro che tornare a casa con profumo maschile addosso, col rossetto sbavato, dimostrando a lui che lei era calda, accogliente, viva per qualcun altro. Draco reagiva con distacco e lei, infuriata, cercava di smuoverlo lanciando oggetti contro la parete. Non che Draco fosse un angelo: non l'aveva mai toccata con un dito, nemmeno in quell'altro senso. Le poche volte che aveva adempiuto ai doveri coniugali era stato quando la necessità di un erede si era fatta forte. Io sono l'erede, se non si fosse capito. Non sono qui per parlare della mia famiglia, di quello stronzo di mio padre e di quella pazza di mia madre. Semplicemente, tutto questo è necessario per capire meglio me.
Ho già accennato alcune delle cose che odio -la lista è molto lunga- ma ciò che davvero mi fa venire il voltastomaco è una sola cosa:  le maschere.
La mia vita non è stata delle migliori, per undici anni ho sopportato costantemente la freddezza di casa -poi preferii passare ad Hogwarts tutto il tempo possibile-, eppure quando uscivamo mio padre e mia madre non facevano altro che abbracciarsi teneramente, girare sottobraccio e tenere per mano il figlioletto, che sarei io. Io stesso sono la più grande menzogna che i miei potessero mai architettare: un figlio nato per necessità, lasciato crescere dai precettori perché tutti erano troppo distratti dai loro problemi per prendersi cura di me. Non faccio una colpa loro, mio padre dopo la guerra non si è più ripreso e ha trascinato mia madre con sé. Eppure, quei momenti che tanto avrei dovuto amare, quando i miei mi portavano fuori e mi dimostravano il loro bene, scatenavano in me disgusto. Odiavo la maschera di famiglia felice.
Qui veniamo ai Weasley: loro sono il vero centro di questo discorso. Per chi non li conoscesse, sono una famigliola felice, sorridente, lentigginosa. L'ideale della famiglia perfetta. Li avevo odiati subito: quell'allegria e quell'amore che trasparivano erano per me la prova tangibile di una corruzione interna. Il passaggio era semplice: più si dimostravano felici, più avevano qualcosa da nascondere.
La mia mente di bambino associava facilmente le due cose, ma mai avrei pensato che ero andato più vicino alla realtà di quanto immaginassi. Mi correggo: mai avrei pensato che quando i miei occhi si posarono su Rose Weasley per la prima volta, guardavo la crepa che avrebbe portato quella famiglia a dividersi ben presto -e che avrebbe portato me a sfiorare la pazzia-.

 

 

 Gli anni di Hogwarts furono per tutti noi anni di cambiamenti, anni in cui il corpo cresce e si ha la consapevolezza che colui che ti era affianco ieri, domani avrebbe potuto essere un'altra persona. L'adolescenza può essere paragonata a una piccola guerra: un rivale può diventare un amico, un amico un nemico, il destino può riservarti sorprese. Fu principalmente così che noi cugini Weasley ci dividemmo. Prendemmo tutti strade diverse e se oggi guardo alle vecchie foto di famiglia -nascoste in soffitta- un sorriso nasce spontaneo: eravamo giovani, ribelli, convinti di essere diversi, convinti di poter esistere per sempre. Le foto dell'infanzia mostrano un clan di teste rosse, bionde, castane e blu giocare in giardino, rincorressi e cadere. Eravamo uniti, spensierati e belli. Le foto successive erano intrise di tensione, di colori di casate, ma pur sempre di sorrisi. Tirati, certo, ma pur sempre sorrisi. In una c'è una Dominique che guarda dispiaciuta Molly. In quel periodo la Grifona aveva visto il suo unico amore -ah, le illusioni che si creano a quell'età- capitolare dietro al lato B della bella Veela, che di colpe ne aveva veramente poche, se non avere il sedere più bello di tutta Hogwarts. Pensandoci ora, litigavamo per cose davvero stupide, salvo poi fare pace dopo mesi, cercando di nascondere le tensioni per amore di nonna Molly.
La mia foto preferita però rimane quella con quell'impiastro di James. Rose è tra noi, ride e si gira prima verso mio fratello, poi verso di me. Sirius e io le teniamo una mano sulla spalla, cingendola in un abbraccio: un gesto di protezione, di amore. Fu scattata l'estate prima che io e Rose cominciassimo il nostro primo anno ad Hogwarts. Eravamo inseparabili, ma riuscimmo lo stesso a separarci: fummo noi stessi la causa della nostra rovina.
Lo Smistamento fu una cerimonia senza eguali e no, le decorazioni continuavano ad essere le stesse, i tavoli pure, le pietanze anche. Fu quello che accadde a renderla unica. Iniziò la fine, quel giorno.
Fu il cappello parlante ad annunciarlo con una singola parola, Serpeverde! aveva urlato sulla mia testa. Non mi dispiaceva poi tanto, in realtà: papà sarebbe stato fiero di me comunque, eppure il Ragazzo che è sopravvissuto non aveva saputo prevedere il più prevedibile degli eventi. In tutti gli angoli di Hogwarts si sussurrava che il figlio del Salvatore del Mondo Magico aveva rotto la tradizione, era a Serpeverde, la casata degli ambiziosi, degli astuti, degli intelligenti, ma anche la casata di Colui che non deve essere nominato, di molti Mangiamorte, di maghi oscuri. Tutti chiacchieravano e io, io ero solo. Rose era finita a Grifondoro, prendendosi le lodi del Cappello -questo gli aveva sussurrato qualcosa prima di essere sfilato e Rose era andata al suo posto più turbata che mai-, così come James, Grifone fiero.
Le tradizioni dovevano essere rispettate: Serpeverde e Grinfondoro dovevano odiarsi, i Tassi dovevano, come al solito, andare in giro a spargere amore e i Corvonero dovevano passare il loro tempo in biblioteca, guardandoti dall'alto in basso. Andava così da sempre e sempre così sarebbe stato, ma quel peso che mi schiacciava non voleva proprio andarsene: ero solo un ragazzino e dovevo affrontare l'ombra di un padre e di una madre famosi, chiacchiere all'angolo e l'appellativo di colui che non è stato all'altezza. Ero messo alla berlina.
Non parlavo con James, un po' risentito per non avere il compagno di una vita al suo fianco, e nemmeno con Rose. Eppure, quando la vidi arrivare in Sala Grande, sorridente e bella come non mai e con qualcosa di rosso in meno, non potei non amarla più del solito. Seppi immediatamente che l'aveva fatto per me, per cancellare il mio nome dalla bocca di tutti.

 

 

 Quella pazza venne un giorno con i capelli, i suoi capelli rossi made in Weasley, completamente tagliati in una corta zazzera. Non che fosse una grave perdita, chiariamo, quei capelli che sembravano spaghetti al pomodoro danneggiavano gravemente la mia retina. Eppure, il gesto mi colpì.
Mentre tutta Hogwarts non faceva che parlare del presunto motivo per cui l'avesse fatto («Ha litigato con la famiglia, mi hanno detto che non è il genio che la madre si aspettava» «Ma come, io sapevo che il padre le ha presentato un cugino che vuole farle sposare, no, non so quale, hai presente quanti ne sono?»), io l'avevo capito, anche meglio di quegli stupidi dei suoi parenti. La piccolina aveva fegato in realtà: tagliarsi i capelli per spostare l'attenzione della scuola dalla Casa del Potter di mezzo alla sua testa rasata non era da tutti. In realtà non era da tutti nemmeno capirlo, ma io sono un Malfoy dopotutto.
In ogni caso, da quel giorno si guadagnò un briciolo del mio rispetto: per carità, non per un qualche motivo legato al coraggio e all'altruismo -lo ripeto: sono un Malfoy!- ma aveva per la prima volta infranto una tacita  legge dei Weasley. Tutte boccolose, tutte rosse, tutte con questi capelli lunghi: Rose li aveva tagliati quasi alla radice, causando una piccola sfumatura, non più rosso pomodoro-Weasley, ma un rosso un tantino più scuro. Quasi impercettibile. Si era distinta: vedevo come quel gesto come la prima crepa nella maschera da ottima famiglia.
Iniziai a trattare meglio anche Albus, oddio, non da diventarci amico intimo, ma avevamo buoni rapporti: il nostro fulcro era Rose, era lei che ci univa oltre, naturalmente, la nostra Casa. Quando se ne andò, io e lui iniziammo ad allontanarci: ad ognuno l'altro ricordava due occhi troppo limpidi e il dolore riviveva di nuovo. A volte arriva ancora un gufo bianco a casa -i Potter sono così megalomani! Seguono le tradizioni- portando gli auguri per qualche festività. Albus sa benissimo che le odio ed io so che lo fa di proposito, ma il gesto è piacevole. Ho cominciato anch'io ad abbandonarmi a quei gesti meccanici, abitudinari, che da giovane tanto odiavo. Mi sto rammollendo, se ci fosse Rose riderebbe e mi direbbe che è vero, che somiglio sempre più a mio padre, ma saprei amare meglio. Forse, non userebbe il condizionale, mi direbbe che lei sa il modo in cui amo e che io amo mille volte meglio. Eppure, l'ho lasciata andar via, spinto dalle mie paure, proprio come mio padre lasciò andare mia madre, ma mentre Astoria continuava a portare quella maschera, tanto da fondersi con essa, diventando tutt'uno (proprio come una pecora che visto il cancello del suo recinto aperto, si gira dall'altro lato), Rose appena visto sciogliersi il mio abbraccio intorno al suo corpo, è fuggita lontano e non ho avuto il coraggio di seguirla. Il cappello parlante me l'aveva predetto, dicendomi che non sarei mai potuto andare tra i Grifondoro, troppo coraggiosi per me. Eppure l'amavo, in quei gesti che tanto conoscevo, nei capelli tagliati a terra, nel sorriso e nelle braccia che reggevano la pluffa. L'ho amata sempre di più, durante le lezioni in comune, le partite, quelle viste dagli spalti e quelle combattute in aria, faccia a faccia, l'ho amata di un amore sincero, eppure era un amore sbagliato. L'avrei dovuto capire prima che non avrebbe mai funzionato, il primo anno, quando ghignando mi ero avvicinato a lei con la mia combriccola e le avevo urlato «Guarda la piccola Rose, sembra proprio un bravo ragazzo, chissà che uomo sarà da grande» e lei, sorridendo come sempre, «Lo so. Lo so, Scorpius».

 

 

Zia Hermione e zio Ron lessero della nuova acconciatura della figlia su un giornale scandalistico, che annunciava a caratteri cubitali che la Weasley responsabile, quella che avrebbe dovuto avere il cervello di sua madre, era una ribelle. Arrivò una strillettera, che Rose ignorò in Sala Grande -brindò anche con del succo di Zucca ai suoi nuovi capelli-, poi una lettera più dolce della madre dove chiedeva se c'era qualche problema. Evidentemente, gli zii erano preoccupati che quelle fantasticherie sull'essere un ragazzo non passassero con l'adolescenza, come avevano predetto tempo addietro con sorrisi tirati.
Il primo Natale da quando eravamo andati ad Hogwarts lo passammo alla Tana, come al solito, sotto lo sguardo di disapprovazione di Lily, che mai avrebbe tagliato i suoi capelli in un modo così barbaro, e quello di nonna, che poteva essere paragonato solo a quello rivolto all'orecchino di zio Billy in gioventù. Sembrava addirittura che i disastri e gli scherzi fatti da James passassero in secondo piano. Anni dopo, quando ormai avevamo entrambi dei figli, mio fratello mi confidò che aveva assunto quell'atteggiamento da presuntuoso e ribelle adolescente per far sì che calmassero la presa su Rose. Più lui portava a casa voti che facevano impallidire i genitori, più Hermione sentiva che sua figlia non era poi così strana. Più io parlavo dei Serpeverde e di come avremmo vinto la Coppa delle Case, più Ron si convinceva che i capelli corti non erano poi tanto male, paragonati alla sciagura di trovarsi tra viscidi alunni dei sotterranei. Ci eravamo sempre protetti, in qualche modo, noi tre: eravamo rimasti sempre uniti come in quella foto che avevo cominciato a tenere sul comodino, anche se fisicamente eravamo sempre più lontani.
James cominciò ad avvicinarsi al mondo delle ragazze, diventando abbastanza famoso tra i Grifondoro più alla moda. Io avevo un gruppo di amici, Serpeverde e Corvonero per la maggior parte, con cui passare il mio tempo. Rose invece strinse amicizia con il figlio dei Malfoy. Non so come fosse cominciato questo strano rapporto tra i due, ma sembravano capirsi al volo. Sedevano in silenzio in biblioteca, o in cortile, poi uno dei due parlava. Seguivano diversi minuti di silenzio, in cui le parole sembravano volteggiare nell'aria, dense e quasi afferrabili. Poi l'altro rispondeva. In un'ora potevano dirsi poche cose, ma si erano detti tutto.
Ero davvero geloso e lei come al solito lo capì. Mi invitò con loro e devo dire che la cosa si ripeté spesso. Scorpius mi era simpatico, ma non sopportavo quel silenzio opprimente. Quando c'ero io, parlavo, parlavo per ore. Loro due ascoltavano e prima ancora che aprissero la bocca, leggevo nei loro sguardi la risposta. Questa cosa mi faceva paura. Sapevo infatti che come io potevo leggere loro, loro leggevano me. Mi era capitato in passato solo con James, ma non c'erano così tante paure, così tante domande nel suo sguardo. Eravamo bambini allora. In quei momenti invece leggevo un baratro incolmabile negli occhi di Rose, come quello di una montagna che è stata portata via improvvisamente e che nessuno ha mai visto, lasciando un'enorme traccia visibile della sua esistenza. Nel rampollo Malfoy vedevo invece la voglia incredibile di ignorare questa mancanza, di superarla, di renderla improvvisamente invisibile: come se la montagna non ci fosse stata mai. Sapevo che si sarebbe schiantato contro un'atroce verità, contro la testardaggine di mia cugina, contro quel suo futuro che ella progettava dall'età di quattro anni.
Ora, penso vogliate sapere cosa leggessero invece nel mio sguardo: me lo sono chiesto tante volte. Penso che nei miei occhi verdi ci fosse la paura data dalla conoscenza: sapevo meglio di chiunque altro e speravo, pregavo, che un domani non arrivasse mai.

 

 Io e Rose ci incrociavamo nei corridoi, avevamo alcune lezioni in comune, ci dividevano due tavoli e una fila di banchi in Sala Grande, eppure ci conoscemmo veramente in biblioteca. Era il periodo in cui si vociferava di una sua presunta omosessualità. Lei si stava allenando per i provini come cacciatrice di Quidditch che voleva sostenere l'anno successivo: aveva una mira favolosa, ma scarseggiava in forza. Così passava le ore libere ad alzare libri in camera sua, «per rafforzare le spalle» diceva. Correva molto, «per tenersi in forma». Tutto quell'allenamento le avevano fatto sviluppare i muscoli delle spalle, di cui andava fiera. Rimaneva però molto longilinea, con gambe lunghe, spesso scoperte dalla gonna della divisa (ci sarebbe voluto ancora tempo affinché riuscisse a convincere la Preside a farle indossare la divisa maschile). Le sue compagne di dormitorio raccontavano che no, non portava il reggiseno, nonostante iniziassero a crescere le sue prime rotondità, che nascondeva sotto maglioni di una taglia più grande -sono convinto che li rubasse al cugino, lasciando al loro posto i suoi piccoli maglioncini-. Comunque, in quel periodo si sussurrava che fosse lesbica.
Fu quella stupida di sua cugina -la scelta del cappello di spedire in Grifondoro la dolce e cara Lily Luna Potter fu presa molto probabilmente sotto effetto di farmaci o minacce, quella era una Serpeverde coi fiocchi- a mettere le voce in giro. Si dà il caso che un Tassorosso avesse iniziato a guardare con malcelato interesse le curve della Weasley e fosse corso dalla tipa di cui sopra per cercare un aiuto in quella che sembrava un'impresa disperata. Sapete cosa disse la piccola di casa Potter? «Tesoro, credo proprio che tu possa riuscire ad entrare nelle mutande di mia cugina solo e unicamente se in possesso di una figa, lì sotto» con voce ben udibile da tutta la tavolata, compresa Rose, che non si ribellò. A nulla servirono le strigliate di capo di Albus a sua sorella, né il caro e figo James Potter che dall'alto della sua posizione cercava di  far tacere le voci minacciando di affatturare chiunque trovasse a parlare dell'omosessualità dell'adorata cugina. Il pettegolezzo si estese a macchia d'olio.
Eravamo in biblioteca quel giorno: io studiavo Trasfigurazione, buttando un occhio a quella che mi era seduta affianco. Rose, aprendo il libro, aveva trovato scritto con inchiostro rosso "Lesbica del cazzo". Con un colpo di bacchetta, aveva pulito, ritornando al suo studio. Ero affascinato dal suo modo di fare così distaccato: non sembrava soffrirne. Volevo andare a fondo, scavare fino a trovare l'origine di quella pace, la verità dietro quella facciata. Le rivolsi per la prima volta la parola da quell'infelice battuta al primo anno.
«Quindi, sei gay?»
«Sei il primo che me lo chiede, in altre circostanze ti avrei dato un ceffone, ma sei stato più educato di altri»
Silenzio. Rumore di pagine girate. La sua voce limpida.
«Comunque, no. Non sono lesbica. E poi, perché dare determinate classificazioni a una così variegata cosa come l'amore?»
Mi spiazzò. Il silenzio stavolta fu il mio. Poi parlai, dicendo la cosa più stupida che potessi mai dire.
«Sembri più matura per la tua età.»
Un sorriso, più rivolto a me che al libro di Trasfigurazione, spero.
«Anche tu.»
Cominciammo ad essere maturi insieme da quel giorno.

 

 
L'allenamento di Quidditch aveva dato i suoi frutti: Rose era diventata la migliore cacciatrice di cui io abbia memoria in quei sette anni di scuola. Era meravigliosa, in sella alla sua scopa: sembrava essere nata per stare a contatto con quel pezzo di legno e diciamocelo, aveva una vista d'aquila. A differenza di Hugo, che inciampava in qualsiasi cosa fosse più piccola del metro e che viveva praticamente in simbiosi con un paio di occhiali in tartaruga spessi quanto fondi di bottiglie, i geni dei Weasley-Granger avevano donato alla primogenita un'eccezionale mira.
Il primo anno in cui Rose fece parte della squadra di Quidditch Grifondoro vinse. Vorrei aggiungere che riuscì a portarsi a casa la Coppa solo per pochi punti, in realtà, e che la squadra Serpeverde quell'anno era davvero fiacca. In ogni caso, Rose divenne una specie di santa, nei dormitori, riuscendo un po' a far tacere la pessima fama che l'uscita di Lily l'anno precedente le aveva portato.
Il volto estasiato di mia cugina quando giocava era forse il miglior balsamo di questo mondo: con la divisa da Quidditch così diversa dalla gonna grigia a pieghe, i capelli che aveva mai fatto ricrescere, le spalle e le braccia forti, sapevo che si piaceva davvero tanto e dava il meglio di sé, perché quello era la parte migliore della sua vita. Io e James ci beavamo di quella visione: vederla così libera e viva come non era stata mai faceva sentire vivi anche noi.
Poco tempo dopo quella vittoria, non so per quale motivo, che rimarrà a me sconosciuto in quanto seppellito nei dormitori di Grifondoro, tutti cominciarono a chiamare Rose con l'appellativo di Robb. Posso solo immaginare che questo sia dovuto al suo aspetto mascolino e forse anche alla sua ferocia in campo, ma non so bene come mai la scelta fosse caduta su questo diminutivo di Robert. Inizialmente lo usavano i suoi compagni di squadra, poi evidentemente si era diffuso in tutta la Sala Grande, arrivando ad essere, per tutto l'anno successivo, il vero nome con cui quelli di prima conoscevano Rose. Tutti gli altri naturalmente sapevano come si chiamava realmente mia cugina, ma quel soprannome era così diffuso da divenire persino il modo con cui io e James e Scorpius ci rivolgevamo a lei.
Ch'io sappia, la cosa le piaceva. Cioè, da quello che mi disse, avrebbe preferito un nome più carino, tipo Alekos, che era un generale babbano greco o qualcosa di simile, o anche Michael, più leggiadro, ma le sarebbe potuto andare anche peggio. Nominò infatti due o tre nomi che mi fecero rabbrividire.
Avevo notato come zio Ron e zia Hermione avessero chiamato i figli con le proprie iniziali, Hugo e Rose, quasi come a sancire quel legame indissolubile che li legava e avevo notato come Rose amasse sottolineare questa cosa con particolare orgoglio. Probabilmente quelle di mia cugina erano tutte bugie: se avesse dovuto scegliere un nome maschile, avrebbe scelto proprio un nome con la lettera 'r', per non spezzare questo piccolo gioco che apparteneva alla sua famiglia.

 

 
Dicembre del penultimo anno fu un mese particolare. Fu il mese in cui nessuno organizzò un festino (nemmeno il primogenito Potter, che era al suo ultimo anno), fu il mese in cui nevicò solo due giorni prima di Natale e pochissimo in modo che nessuna battaglia a palle di neve potesse essere organizzata (Merlino sia lodato), fu il mese in cui non servirono succo di zucca ad Hogwarts (i motivi sono sconosciuti, ma fu una tragedia a livelli epocali, quella), il mese in cui Robb convinse la preside a concedergli di indossare la divisa maschile e fu anche il mese in cui mi dichiarai.
Non so come mai ricordi tutti questi particolari, che comparati alle ultime due vicende sono solo bazzecole. Robb, che ormai aveva acquisito anche pronomi maschili (tranne a casa, lì costringeva i parenti a chiamarlo al massimo Ro, per non destare sospetti nei genitori), aveva fatto passare la sua personale battaglia come una battaglia femminista che coinvolgeva non solo Hogwarts, ma tutti gli istituti, babbani e magici. Non capii bene come fece, ma si presentò a settembre con un plico di articoli che decantavano la libertà di espressione del ragazzo e del bambino e la costrizione in una divisa di uno spirito libero. Il suo scopo non era far abolire la divisa, ma semplicemente permettere che le ragazze non fossero costrette a portare necessariamente la gonna, così come i ragazzi non fossero costretti a portare i pantaloni, se essi avessero voluto. Inoltre, voleva alleggerire le regole che vigevano nella scuola, che costringevano i ragazzi a girare con vestiti della comunità magica che li privavano della libera espressione. Convinse anche le ragazze che essere costrette a stare con la gonna in periodo invernale era scomodo, che spesso non potevano giocare in cortile o magari dovevano stare più attente al contrario dei ragazzi. La preside ricevette una pressione psicologica e sociale così forte da acconsentire non solo che le differenze tra divisa maschile e femminile fossero abolite, ma anche alcune norme che permettevano di vivacizzare in qualche modo i capi d'abbigliamento. Si videro camminare ad Hogwarts scozzesi col kilt, ragazze con un scarpette colorate o ragazzi con cravatte magiche. Né io né Robb cambiammo di molto le nostre divise: io mi concessi di utilizzare un maglioncino dello stesso colore ma che non mi causasse un così stressante prurito e Robb si concesse dei pantaloni. Questa battaglia l'aveva reso in un certo senso un eroe tra gli alunni, ma si era attirato l'astio della preside, che credo però che in cuor suo l'ammirasse per la tenacia.
Io e Robb non avevamo mai parlato in realtà di questo binomio che viveva in lui: da una parte Rose, la bella e vivace rosa rossa, pronta a qualsiasi cosa per un amico, dall'altro Robb, l'uomo che lei desiderava essere, quell'entità in cui si trovava a suo agio e che riusciva a darle sicurezza. Ero io principalmente che non volevo affrontarlo: avevo paura. In realtà, la mia ammirazione per Rose era sfociata in un amore puro e vivo già da qualche anno. Era un amore presso più platonico, salvo qualche sogno che mi aveva fatto risvegliare più accaldato che mai. Inizialmente, pensavo di poter scavalcare il problema, arginarlo e vivere di romanticismo e filosofia. Tuttavia, quando Robb si fece sentire più pressante che mai, non potei più evitare di pensare che forse, era tutto sbagliato. Era così importante costringere il mio sentimento in etichette quali etero o omo?
Era così straziante per Robb nascondersi dentro Rose, me lo scriveva in estate, con gufi che dalla Tana ormai avevano imparato a memoria il tragitto per Malfoy Manor. La persona di cui ero innamorato probabilmente non era mai esistita, eppure la sentivo, affianco a me, la vedevo tutti i giorni. Era in Robb, o forse era Robb, solo che la chiamavo con un nome diverso nei miei sogni, per paura o cos'altro. Un giorno in cui mi sentivo particolarmente coraggioso glielo dissi: «Se ti amassi?». Lui, ridendo con lo stesso sorriso del primo anno, non era mai cambiato quello, «Avresti paura, tanta paura, Scorpius. Non sarebbe facile, lo sai. Ritorna quando quella domanda si sarà trasformata in un'affermazione».

 

 
A casa ormai si erano rassegnati a vedere Rose in quel modo. Spesso mi mordevo le labbra per non farmi uscire un ''Robb» a voce troppo alta oppure per non rivolgermi a lei con epiteti maschili. Penso che tutti fossero rassegnati, credendola lesbica. In realtà, ch'io sapessi, oltre a quella specie di relazione spirituale con Scorpius non c'era mai stato nessuno nella sua vita. A parte una breve parentesi con una tipa di un anno più grande, che quando aveva insistito per andare più in là era stata prontamente lasciata. Non credo dovesse essere facile per lui vedersi in un corpo femminile e rapportarsi con la sessualità in quel periodo. Per me gli anni dell'adolescenza furono un continuo sfogarmi sulla musica intervallato soltanto da qualche uscita con qualche tipetta che trovavo carina. James invece si era divertito parecchio nelle aule in disuso della scuola, o almeno così si vociferava. In ogni caso, avevamo fatto le nostre esperienze e avevamo preso coscienza del nostro corpo. Lui non poteva averne l'occasione e quindi, lo pensavo bloccato a uno stadio di frustrazione. Evidentemente, i buoni risultati nel Quidditch erano dovuti a questo. Come al solito, io e James cercavamo in tutti i modi di rendergli le cose più semplici: uno di questi modi era far tacere Lily. Nostra sorella non è mai stata un angelo, è vero, ma verso Robb provava quasi un'antipatia naturale: era stata lei a mettere le voci sulla sua omosessualità quando era ancora conosciuta come Rose, era lei che ricordava tutti i giorni alla famiglia quella che lei considerava una pecora nera. Io e James arrivammo quasi ad odiarla, quella sorella così smorfiosa. In realtà, non ci rendevamo conto che eravamo proprio noi a spingerla a quei gesti così infantili. Non l'avevamo considerata mai come una vera e propria sorella, più che altro come un prodotto di nostra madre e nostro padre, che con noi aveva in comune solo il sangue. Quando Lily nacque, io James e Robb, Rose, mi correggo, avevamo qualche anno in più, non molto in verità, ma abbastanza perché giocassimo tutti e tre assieme. Quando Lily cominciò a muovere i primi passi, noi cominciammo a correre e quindi, poco sopportavamo quella sorella piagnucolona, che lasciavamo alle prese con il timido Hugo, a cui sorte simile era toccata. Causammo in lei una gelosia profonda che con gli anni andò crescendo. Hugo invece non sembrava toccato dalla situazione, o almeno così abbiamo creduto per anni. E' incredibile come il velo raggiunto un certo momento della vita si squarci e lasci intravedere tutto ciò che c'è sotto.

 

 

Tornai poi, alla fine dell'anno. Lo baciai.
Non so esattamente cosa mi spinse a farlo: forse il desiderio che qualcosa andasse in un certo senso al suo posto e niente mi sembrava così adeguato in quel momento di unire le mie labbra alle sue. Il mio amore per le cose rotte e imperfette mi aveva fatto perdutamente capitolare e in sei anni era cresciuto a dismisura. Era l'ultimo giorno del penultimo anno, eravamo nella sala comune dei Grifondoro ormai vuota e parlavamo di come quell'anno avrebbe sancito la fine dell'innocenza, di come a Settembre avremmo dovuto affrontare una delle grandi prove della nostra vita.. ecco, forse era perché si parlava di prove e di crescita che avevo deciso di saltare il dirupo.
Quindi, lo baciai. Fu un bel bacio dopotutto. Robb non parlò, ma si stese al mio fianco. Stemmo in silenzio tutta la notta, ma sorridevamo.
Durante l'estate ci scrivemmo un sacco di lettere: nessuno di noi pretendeva una risposta dall'altro, erano perlopiù sfoghi senza capo né coda, flussi di coscienza impressa sulla carta. Non ci fu alcun bacio il settimo anno: penso che Robb avesse capito come la cosa mi facesse sentire in un certo senso sbagliato e quindi si adeguava ai miei tempi. Credo che soffrisse molto in quel periodo, ma non lo dava a vedere sopportando tutto con il coraggio di un Grifondoro (una volta mi svelò ciò che gli disse il Cappello Parlante nell'orecchio, in un certo senso, gli aveva predetto il suo futuro, dicendogli che uno come lui avrebbe avuto bisogno di tanto coraggio: la particolarità era che aveva usato il maschile, cosa che rendeva Robb fiero e gongolante).
Quello fu l'anno in cui scegliemmo il nostro futuro: io decisi di intraprendere la carriera di Medimago, Albus, che puntava in alto, voleva una carriera come funzionario nel Ministero della Magia e conoscendolo, non si sarebbe fermato certo a un lavoro come semplice impiegato. Robb era certo solo di una cosa: aveva letto su una diavoleria di nome Internet che esistevano centri babbani che permettevano un cambio di sesso. Aveva poi scoperto e stavolta non chiedetemi come, che in un particolare paese americano questa pratica era associata anche a medicina magica, che permetteva comunque di diminuire il trauma fisico che l'operazione comportava. Mi aveva anche illustrato il procedimento: era stato giorni con disegnini di organi genitali e liste di ormoni dai nomi impronunciabili a ridere ed entusiasmarsi. Dovetti convivere per una settimana con lui che mi sventolava in ogni occasione un foglio con l'illustrazione di un pene. Una domanda sorgeva a me spontanea: l'avrei amato fisicamente? Una relazione sessuale al momento era impossibile con lui, ma io, che avevo avuto solo storie con ragazzine e nemmeno poi tante in verità, avrei provato piacere con un corpo maschile? La sua mente rimaneva sempre quella, ma vivere una vita senza una componente sessuale era a dir poco deprimente per un allora diciassettenne. Oggi, ci rinuncerei volentieri per lui, ma questo è un altro capitolo.
In ogni caso, Robb lasciò Hogwarts con l'idea di affrontare i genitori.

 

 

Fece tutto da solo: non capii come avesse fatto, come avesse potuto sopportare tutto senza qualcuno al suo fianco, ma parlò a zio Hermione e zio Ron. Lo capii subito da come entrarono alla Tana un giorno: i volti tesi, le occhiaie e gli occhi gonfi di pianto di zia non mentivano. Quel mese saremmo stati solo noi Potter e i Weasley-Granger nella vecchia casa (ormai disabitata: i nonni ci avevano lasciato qualche anno prima, a pochi giorni uno dall'altro, «non potevano vivere separati» fu il commento di tutti) causa lavori in corso nella nostra via che non facevano concentrare nessuno. Robb ebbe il coraggio di parlarne anche con quei pochi riuniti lì: fu diretto, parlò a lungo delle esperienze ad Hogwarts e di come non si fosse mai sentito una donna in fondo. Finì dicendo «James e Albus lo sapevano». Pensai di ucciderlo in quel momento, in verità.
I ricordi seguenti sono confusi: ricordo pianti isterici e urla da parte di Hermione,  commenti di Lily, facce sbigottite dei miei genitori, aria di rassegnazione da parte di Ron e la solita faccia apatica sul volto di Hugo. La settimana seguente fu un Inferno. Hermione non usciva dalla sua stanza, assistita solo da mia madre. Ron a volte si soffermava troppo al lungo con uno sguardo su una parete. I pasti erano diventati una battaglia tra i favorevoli e gli scettici. Papà non faceva altro che ripetere «Magari è solo una fase», come se improvvisamente tutto passasse.
Nelle tre settimane successive invece cadde il gelo sulla casa. Al termine di queste, trovai Robb sulle scale. Mi sembrava di non vederlo da una vita: aveva negli occhi un'espressione matura, forte, quella di chi è in una tempesta e lotta per uscirne. Mi raccontò di come avesse parlato con suo padre in privato. Ron, stranamente, dato il suo caratteraccio, l'aveva ascoltato. Aveva sì fatto qualche gaffe, con battute poco carine, ma Robb aveva chiuso un occhio sull'indelicatezza del padre. Gli aveva parlato dell'America e dell'operazione, del suo desiderio. Per due giorni lo zio era andato di nascosto in camera di Robb e aveva letto i suoi libri: non credo che ci avesse capito molto in verità, ma sembrò rassegnato, o almeno, favorevole. Il terzo giorno aveva lasciato in camera dell'ormai figlio una cospicua somma di denaro. Non si erano più visti, ma mentre Robb me lo raccontava aveva gli occhi lucidi. Poi, mio cugino aveva raccontato di zia Hermione. Lì pianse veramente, poggiato con la testa sulla mia spalla. Lei non voleva accettarlo, non faceva altro che disperarsi. In realtà, mi sarei aspettato una reazione diversa da una donna così saggia: ma c'è da dire che Rose era la sua unica figlia, in cui in parte si rispecchiava. Avevano la stessa acuta intelligenza, la stessa saccenza, i tratti del viso simili. Inoltre, si colpevolizzava credendo che l'origine del ''problema'' di Rose fosse lei. Le aveva detto cose che una madre non dovrebbe mai dire al frutto del proprio ventre.
Robb aveva bisogno dell'approvazione della famiglia: il percorso sarebbe stato difficile e spietato sia verso il suo corpo che verso la sua mente, affrontarlo senza qualcuno al suo fianco sarebbe stato un vero girone dell'Inferno.
Vidi l'amico di sempre distrutto quella sera: nonostante avesse per tanto tempo celato il suo dolore, questo si era rovesciato su di noi senza preavviso. Passammo la serata nella sua stanza in silenzio: a un certo punto venne anche James, che non fece domande, nemmeno una. Si sedette sul letto e guardò il muro. Entrambi facemmo finta di non vedere il borsone in un angolo.

 

 
Venne da me una mattina d'estate: era prestissimo, aveva due occhiaie scure e residui di pianto intorno agli occhi. Malfoy Manor ci guardava con le sue finestre come occhi, nella nebbiolina leggera di quell'estate caldissima. Mi raccontò tutto velocemente, mangiando le parole, con la fretta che mai l'aveva caratterizzato. Mi raccontò di una madre ormai distrutta a causa sua, di un padre che si sforzava di capire, di quello che avrebbero detto i familiari. Mi raccontò di due cugini come fratelli e di un fratello ritrovato, di come questi vedendolo andar via, l'aveva abbracciato per la prima volta da quando avevano cominciato la scuola, dicendogli «Ti voglio bene». Mi raccontò di come non potesse chiedere sacrifici a nessuno della sua famiglia, che doveva vedersela da solo. Infine, mi raccontò di come stesse per lasciare tutto ed io, intontito per il sonno e per la notizia, rimasi freddo, immobile.
Non mi chiese di andare con lui, non l'avrebbe mai fatto, ma sulle sue labbra socchiuse c'era una sola domanda. Me la rivelò a voce bassa: «Tornerò diverso, tornerò me stesso. Mi amerai ancora?»
Stavolta, non c'era un anno per pensarci, non c'era un «ritornerai quando-», c'era solo il nostro bisogno disperato di averci e la mia paura. Scorpius Malfoy fu un codardo quel giorno. Frequentare una Weasley era un conto. Frequentare Rose Weasley un altro. Frequentare Robb Weasley, che fu Rose, ora uomo, era praticamente una coltellata al cuore dei Malfoy. Pensai a mio padre, al suo sguardo rotto e a mia madre con il rossetto sbavato. Robb era stato il mio amore: amavo le cose sbagliate, inceppate, che mostravano la loro vera natura, quella di macchine imperfette. Quel giorno scelsi invece l'ipocrisia di un mondo in cui tutto era normale. Fu la paura a spingermi lontano.
Glielo dissi: «Non lo so».
In quel momento uccisi l'ultimo pezzetto di Rose Weasley, l'ultimo suo pezzo di vita. Risorse dalle ceneri, ma mi lasciò da solo nel mio buio. Non vidi mai più quegli occhi azzurri.
Dio, se me ne pento.

 

 

 La notizia aveva fatto scalpore, ma dopo un po' di tempo, ci eravamo rassegnati tutti. Ogni tanto di Robb mi arrivava una cartolina: i primi periodi aveva lavorato tantissimo in locali vari ed eventuali. Gli servivano soldi, quindi risparmiava convivendo con ragazzi babbani e non, della sua età. Nell'ultimo periodo aveva anche trovato un lavoro ben pagato in uno di quei cosi, che la gente non magica chiama supermercato. Direttore delle vendite, ma non vorrei sbagliarmi. Non ho mai saputo nulla di come andò la transizione, né ebbi una sua foto. Lo informai quando a zia Hermione fu diagnosticato l'Alzheimer: non rispose, né io lo forzai. Nel suo silenzio c'erano un centinaio di interrogativi e dubbi. Nel frattempo, quasi tutti ci eravamo accasati: la nuova generazione Weasley era se possibile più rumorosa della prima. Spesso, ci vedevamo noi cugini più stretti alla Tana, come i bei vecchi tempi, portando con noi i nostri genitori e i nostri figli. Zia Hermione aveva tolto da casa sua tutte le foto di Rose: alla Tana però ne era rimasta ancora una, il giorno in cui Grifondoro vinse la Coppa di Quidditch. Sul mio comodino, assieme alla foto di mia moglie e dei miei due figli, c'è quella con James e Rose, all'epoca. So che è anche in camera di mio fratello, assieme alle tante pratiche che porta a casa dal suo lavoro da Auror. Lily è diventata giornalista, Hugo ha preso il posto di bibliotecario a Hogwarts. Scrive lunghe lettere al fratello ritrovato. Avevamo sottovalutato la sua sensibilità, relegandolo a misera comparsa piagnucolona, mentre invece aveva capito tutto tempo prima di noi. I miei genitori raccontano la loro storia ai nipoti, li portano al parco, alle varie manifestazioni per celebrare la fine della guerra. Insomma, fanno i nonni. Zio Ron guarda ancora la moglie con amore, anche se a volte lei dimentica le cose.
Diciassette anni dopo, un giorno d'estate, dopo pranzo, bussarono alla porta della Tana. Placcai giocosamente il mio piccolo Mathias che si era lanciato per riuscire ad aprire la porta e, tenendolo ancora in braccio, la aprii. Finalmente, lo vidi. Lo riconobbi subito: gli occhi erano sempre gli stessi, limpidi, azzurri e capaci di leggerti dentro. Un filo di barba circondava lo stesso sorriso di sempre. Piansi come un bambino, abbracciandolo, davanti ai figli confusi. Dopo di me toccò a James, che si era fiondato sul cugino e sembrava non volesse staccarsi. Hugo aveva gli occhi lucidi, traditi dai grossi goccioloni che rimanevano attaccati agli occhiali. Ron stringeva la mano di Hermione e rideva, estasiato. Seguivano Robb una donna dai lunghi capelli neri e una bambina dai tratti asiatici, attaccata alla gamba di mio cugino, che noi non avevamo notato prima troppo presi dalla gioia del momento.
«Mia moglie e mia figlia» furono le prime parole pronunciate quel giorno. Fu un pomeriggio di chiarimenti, di scuse da parte di tutti noi, compresa Lily, di scherzi di James, di presentazioni. I miei figli tirarono le trecce di Aiko, la figlia adottiva di Robb, e lei tirò una scarpa in testa ad ognuno di loro.
Mi commossi -in realtà non avevo mai smesso di piangere- quando zio Ron prese in braccio la nipotina appena conosciuta e urlò «Anche se non hai i capelli rossi sei proprio una Weasley, guarda che riflessi! Ce l'hai una scopa?» Credo si commosse anche Robb, mentre sua moglie gli teneva la mano. Nessuno di noi pensava che si fosse fatto una famiglia in America. Era finalmente felice.
Zia Hermione era stato in un angolo tutto il tempo con lo sguardo perso nel vuoto. Avevamo tutti trattenuto il respiro quando Robb gli si era avvicinato con le lacrime agli occhi, accarezzandogli i capelli. «Perché piangi?» aveva chiesto lei. «Diciassette anni fa ho perso una figlia, sai? Ho pianto tanto anche io. Hai perso qualcuno?» aveva continuato.
«Avevo perso una madre, oggi sono venuto qui per cercarla».
Nell'abbraccio che era seguito, avevo visto consapevolezza e lucidità degli occhi della zia, come non accadeva da tempo.
Oggi, porto sul comodino la foto della mia famiglia, quella del primo giorno di scuola dei miei figli e quella di Robb, James e me, scattata quel giorno. Robb si gira prima verso di me, poi verso James,  guarda l’obiettivo e sorride.




*La castagnola rossa è un pesce in grado di cambiare sesso, da femmina a maschio. Il rosso dei capelli di Rose sembrava richiamare questa specie.

  
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