Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: Vella    14/05/2014    1 recensioni
La follia. La follia mia, tua, nostra. La follia di un essere umano, la follia di un essere inumano.
Augustus è folle. La donna che trafigge le sue allucinazioni è folle.
Augustus ama come un bambino.
La sua follia è pari al suo amore.
In una Londra del '700, dove ormai le condanne per eresia sono più uniche che rare, Augustus sfida il suo destino, sfida il sole che regala la vita ad un fiore, ed accoglie la luna che invece dona morte con il suo dolce tocco.
Su uno sfondo storico, creduto insensato, giovani donne lasciano la terra pugnalate dal bacio casto dell'omicidio.
E quando si parla di amore, non dimentichiamoci che tra esso e la follia, c'è un esile filo pronto a spezzarsi.
“Non dubitare mai, Ἀφροδίτη..., non dubitare mai della luna. Salvo te per salvare me. E sì, sono completamente sbagliato. Io che affermo di esser modesto, non sono altro che un grande egoista. Perché? Perché sto per spegnere il fiore più bello del mio campo di grano.”
Questo brano partecipa al concorso indetto dal gruppo su facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio ⌠EFPfanfic⌡
Genere: Malinconico, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago, Antichità
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Amaranto.

Benvenuto in mia casa.
Entrate e lasciate un po' della felicità che recate.
(Dracula)


Malsana la luna, eterna nemica.


“Ἀφροδίτη!Ἀφροδίτη!” esclamò senza ritegno il giovane uomo dalla barba incolta e il portamento sprezzante, esclamò ancora quelle parole finte e represse che riecheggiarono nell'atrio di quell'immenso ed esasperante castello.
“Ἀφροδίτη!” sussurrò con la sua voce viscida, più di un serpente in agonia che si crogiola tra l'erba umidiccia di un campo di grano. Lo scricchiolio dei suoi passi era udibile appena, la sua enorme testa era nascosta da un ammasso di capelli aggrovigliati così come gli occhi spiritati e le lacrime sporche che cadevano sul suo viso, sciupato dal tempo e dalla vita stessa. Tutto ciò che lo circondava era la copia del suo animo intricato e morboso, l'intero castello era la sua malattia più grande, una follia che lo lasciava senza fiato. Senza vie di fuga.
Poggiò la mano, consumata dal lavoro e dalla sua esistenza infernale, sul muro freddo e sentì i palmi che si adattavano alla temperatura così come una volta lui stesso si era adattato al mondo.
“Dove sei Ἀφροδίτη...” quel nome che continuava a pronunciare con insistenza inaudita mentre il suo passo si faceva più rumoreggiante, mentre la sua fine iniziava ad avvicinarsi con più certezza.
Ricordava di essere nato un giorno invernale di molti, forse troppi, anni prima. Ricordava che quel giorno la sua generatrice era morta, ricordava e paragonava quel giorno allo stesso che stava vivendo, ma ora sarebbe stato lui il generatore della vita e la causa della morte. Perché era quello il suo compito, pensava nei meandri più profondi della sua mente. Perché il sangue innocente era semplicemente il prezzo più virtuoso che un uomo avrebbe dovuto pagare per raggiungere il divino.
“...Ἀφροδίτη sto arrivando. State attenta mia dolce rosa, state attenta alla vita e a cosa vi aspetta, non abbiate paura di me e di quello che vi succederà, voi siete forte... forte come la perduta verità che si cela in ogni bugia, voi lo siete: una menzogna che mi crocifigge con lo sguardo, la perla più luccicante, l'unica che non vorrei spezzare. Abbiate pietà di me ed io avrò pietà di voi.”
L'immediato scatto della serratura fece scendere un brivido lungo la schiena al giovane uomo la cui generatrice morta aveva chiamato Augustus.
La cella era buia; nulla, nemmeno un fiammifero, illuminava quella piccola stanza senza fessure. L'unico punto di riferimento era il bianco candido e puro, più della neve poggiatasi su petali di rose rosse, di un corpicino smunto e stanco, sporcato da quel luogo. L'innocenza incarnava quella creatura rannicchiata in un angolo, con la bocca semiaperta e le braccia circondate attorno alle gambe tremanti e deboli.
“Oh Ἀφροδίτη...” sospirò lui, evitando di guardare tutto ciò che lo circondasse, evitando la coscienza che continuava ad appellarlo come unassassino. Ma no! NO! Lui non lo era, non lo sarebbe mai stato se non avesse avuto assoluta certezza del mondo. Lui doveva salvare, era il salvatore della gente, era il salvatore dell'acqua pura, della rugiada di mattina, dei primi raggi del sole, dei fiori appena sbocciati e del tepore che il freddo non poteva lasciare sulla pelle nuda.
La donna all'angolo alzò il suo docile viso e dei grossi occhi celesti si puntarono su quelli nascosti di Augustus, lo sconosciuto. Colei che veniva chiamata Afrodite poggiò le mani sulla parete e si fece leva, con quella forza che non le apparteneva da tempo, per tirarsi su. Il vestito candido le arrivava fin sopra le morbide caviglie, le labbra screpolate assomigliavano a piccoli lembi di pelle rimasti aperti.
Augustus lasciò che i piedi si posizionassero l'uno avanti all'altro e barcollante, più di un ubriaco o di un sonnambulo svegliato erroneamente, le si avvicinò. Aveva paura, paura di toccare la pelle diafana della giovane, aveva paura di stringere quel corpo caldo al suo martoriato. Quella bella fanciulla, dai lineamenti orientali e il tremolio di una formica in inverno, gli appariva come l'abisso, un mare in tempesta, una luce infuocata che se solo avesse avuto il coraggio di toccare, ne sarebbe rimasto ustionato e permanentemente afflitto.
Afrodite era la sua musa, il suo angelo più antico, la forma basilare per la sua sopravvivenza. E quella donna, ragazza, giovane e pura in ogni dove, era la consolazione per i suoi peccati più urgenti che si accumulavano nel suo cuore bruciato.
“Vieni qui, Ἀφροδίτη... liberami dalla sofferenza, liberami da questi orrori, unisciti alla mia vita e donami la purezza che non ho mai avuto, Ἀφροδίτη! Ἀφροδίτη! Non essere egoista. L'egoismo è il peccato che potrebbe nuocere al tuo candido animo. E tu... tu non puoi essere sporcata. La cattiveria non è degna di te... non è degna di te!” le sue parole scandivano i secondi, e più continuava a parlare con quella voce sottile e strascicante, più il corpo della ragazza era pervaso da singulti. E quando entrambe le anime furono a pochi millimetri di distanza, quando Augustus sentì il puro e la donna sentì le tenebre, ancora una volta il destino venne compiuto.
La ragazza, che non aveva neanche diciott'anni, strinse le braccia attorno a quelle del suo carnefice e chiuse gli occhi, trattenendo il respiro e le lacrime, che fino ad allora aveva versato in un silenzio soffocante.
Augustus invece sembrava in pace, finalmente. Il suo viso consumato appariva d'un tratto rilasciato e su delle noti dolenti che solo lui poteva udire, iniziò a dondolare il corpo, stringendo sempre più la creatura al suo petto e dove al centro, nel quale i due cuori si avvicinavano, il bianco e il nero si mescolavano ballando il valzer.
La giovane seguì il dondolio dell'uomo e dopo molti secondi capì che stavano danzando. Un ballo che sapeva di orrore. Un ballo come quelli nella sua enorme casa di campagna nelle estati più calde ed afose. Un ballo che aveva concesso a pochi gentiluomini, puliti, lavati e cortesi.
“Oh, Ἀφροδίτη... come farò senza di te, senza i tuoi magri gemiti nelle notti di luna piena dove io, disteso sul letto a baldacchino, non riesco a dormir sapendo che tu stia soffrendo come una cagna... Oh, Ἀφροδίτη... è per te. Per il tuo bene. Per il nostro bene pretenzioso.” Afrodite singhiozzò e strofinò la guancia sulla camicia lurida di Augustus. Allontanò poi il viso, così come un animale indifeso.
“La v-vita... la v...-vita!” le parole uscirono dalle sue labbra esangui come un'esile richiesta, una fievole supplica.
“E sarà questo il prezzo da pagare. Sangue di Ἀφροδίτη, sangue del divino.” sussurrò Augustus lasciando andare il suo ostaggio con delicatezza esemplare.
Salendo di nuovo i gradini, pensò a cosa gli fosse successo in tutti quegli anni per arrivare all'estremo, a quel tipo di estremo. Si accasciò sul pavimento in marmo appena la porta d'ingresso della cantina fu chiusa dietro di lui. Si accasciò come una preda agguantata dal predatore e digrignando tra i denti strisciò lentamente in quel corridoio semibuio in cui le candele quasi del tutto consumate facevano quel poco di luce da regalargli calore al viso. Prese tra le mani la croce della sua fede e la strinse forte al petto. Cercò di inalare più aria e chiuse gli occhi in due fessure, rifiutando di guardare la figura che si protendeva dinanzi a lui.
“Ama il prossimo come hai amato me...” gli sussurrava nelle orecchie l'astratto caritatevole che si prospettava.
“Ma il mio amore è atrofizzato nel tuo animo, mia cara assurda visione.” balbettò.
E poi, come una ninnananna che richiama un neonato nel più dolce degli oblii, Augustus fu risucchiato dalle tenebre del buio, dallo svenimento e dalla stanchezza più remota.

Lucinda aveva lunghi capelli biondi che potevano definirsi quasi baciati dai raggi del sole in un giorno di tempesta, in cui solo lei avrebbe goduto di quel dono tanto brillante.
Aveva un groviglio di grano che le ricadeva perpendicolarmente lungo il viso, bruciati alle punte e sporcati da quella cella così come lo era il resto del suo corpo. Gli occhi erano due grosse fessure a forma di mandorla, con quel celeste che scalfiva l'animo del peggior aguzzino. Lucinda era stata promessa sposa ad un lontano duca irlandese che mai avrebbe avuto la possibilità di vederlo. O almeno, così credeva.
Quando settimane prima aveva incontrato Augustus, nulla le aveva lasciato pensare alla morte.La sua mente girovagava tra le increspature delle mura che la circondavano, i suoi pensieri si soffermavano sul buon cibo che una volta aveva goduto di mangiare ed ora, quei ricordi così lontani, potevano essere tranquillamente paragonati al nettare degli dèi, all'afrodisiaco e quindi all'impossibile.
Lucinda era una giovane ragazza che a malapena aveva vissuto l'ebrezza della vita e il pericolo nel viverla. Lucinda era seduta su quel pavimento spoglio e freddo quando sentì per la seconda volta la chiave girare nella serratura, non credette di riuscire nuovamente a comprendere le parole insensate e così ampiamente intrinsecate del suo modesto carnefice. Si alzò di nuovo con maggior prepotenza, come un leone pronto ad attaccare, ma non era il leone e neanche l'artefice di tutto ciò. E se fino ad allora non aveva provato paura, ora, inconsapevolmente, sentiva lo stomaco ardere di uno strano sentimento. Un'increspatura alla bocca dell'esofago e... una premonizione che le bloccava gli arti.
“Vieni Ἀφροδίτη, è giunta l'ora che le nostre vie si intersechino e che si uniscano in un legame più forte del cielo che incombe su di noi senza spezzarsi mai.” Augustus protese la mano verso di lei e Lucinda, sapendo che se avesse solamente accennato ad un rifiuto il putiferio si sarebbe scatenato, strinse le dita attorno al suo palmo ed ancora, come una strana danza inconcludente, uscirono entrambi dalla cella.

Il rumoreggiare delle carrozze si estendeva sin dentro al castello. La pioggia di quella notte picchiettava sui vetri ed il freddo gelava le ossa come una morsa di un gigante, sgretolando qualunque concretizzazione. Il tempo era una burrascosa fusione di ogni agente atmosferico, il vento soffiava forte, infilandosi negli abiti della gente che passeggiava in strada o rimaneva rintanata nello scompartimento della propria carrozza. Londra dell'inizio '700 era uno spettacolo esaltante, in cui la bellezza spruzzava da ogni parte, angolo, zona della maestosa città.
In quella notte di profondo inverno, dove la luna piena brillava seminascosta dai nuvoloni e le gocce di pioggia riflettevano tale luminosità, Augustus e Lucinda salirono su una Berlina “monumentale”; sui fianchi del mezzo erano stati incisi armoniosamente le statue dei reggenti e non c'era delicatezza nella struttura: l'intera carrozza era un un puzzle male incollato. L'uomo chiuse la porticina appena Lucinda fu seduta e il suo battito meno accelerato; dopodiché salì al posto di un presunto cocchiere, il quale non era mai esistito. I cavalli avevano terrore dell'acqua piovana, galoppavano cercando di evitare la pioggia, ma essa, a quanto pare, era più veloce e cadeva indispettita sulla loro criniera. Augustus non vedeva bene di notte all'aperto, le vie tortuose e mal andate non aiutavano l'arrivo in città, e il trambusto che i teatri creavano, alla fine degli spettacoli, rallentarono di molto il viaggio.
Quando tutto apparve più tranquillo, le strade furono meno affollate, i rintocchi delle campane delle chiese segnavano la mezzanotte, l'uomo parcheggiò la carrozza in un viale scuro e inabitato. Lucinda aveva gli occhi chiusi, le tremavano persino i denti, il suo corpo era quasi del tutto congelato in quel vestito di bianco lino. Inspirò l'aria fetente appena il suo carnefice le permise di scendere. E tutto il resto, tutto ciò che vide, che notò, che cercò di evitare, erano solo un vago effetto collaterale del morire.
Fermi, entrambi i protagonisti, davanti alla Cattedrale St Paul. In uno splendido stile barocco, in cui tutto, qualunque lembo di quella pelle cementata, era perfettamente incastonato ed eretto in una bellezza senza fine e senza peccato.
“Conosci la storia di San Paolo, mia dolce Ἀφροδίτη?” Lucinda tremò ancor più forte, se ciò era possibile, quando Augustus le strinse la mano ed, inciampando sui gradini, la spinse dentro la cattedrale.
Dubitava di dover rispondere; la sua fioca voce l'avrebbe tradita nuovamente. E come? Come dover rispondere a quelle domande? Come dover lasciarsi trasportare da un pazzo?Un folle che sguazzava nell'acqua della sua agonia e follia stessa.
“Saulo era un peccatore, mia dolce dea. Era un uomo vissuto nell'ingiustizia, credente dello sbagliato e amante dello sconforto. E poi cangiò in Paolo. Come in un tunnel vide la via d'uscita e la luce si propagò dinanzi ai suoi occhi bagnati dalle tenebre. Ed anche tu troverai quello spiraglio. Entrambi, uniti, gli unici modesti in questo mondo corrotto dall'egocentrismo, toccheremo le stelle ed impareremo a camminare su una fune sospesa in aria, senza certezze se non la morte imminente e l'equilibrio.” La mano di Augustus si posò sulla guancia fredda e umidiccia della ragazza, sentì il tremolio invadergli l'arto, lo stesso che le scuoteva il cuore. Sospirò. E i loro passi riecheggiarono nella chiesa. L'altare alla fine del corridoio era un miraggio da toglier quasi il fiato. Lucinda era consapevole di poter scappare in quel momento ma le dita che le stringevano forte il polso l'avevano quasi incantata, rendendola una bambola di pezza, incapace di riprendersi. Le lacrime sgorgavano dai suoi limpidi occhi ed Augustus non smise mai di ascoltare quel soffice canto generato dai suoi sospiri e i suoi singhiozzi. La mente girovagava nei meandri della cattedrale, nella consapevolezza dei suoi gesti. L'amore che traboccava dal suo cuore era come un veleno che si propagava nell'organismo. Se fosse o meno la cosa giusta ora non importava più. Così come non era importato con la ragazza precedente, così come non era importato quando l'aveva fatto per la prima volta. Così come non era importato quando da Paolo si era trasformato, senza volerlo, in Saulo, il perseguitatore. Salirono i gradini e Lucinda si scosse appena per guardarlo in viso. Le emozioni che trapelavano dal suo sguardo erano tante; così tante che si sentì improvvisamente soffocare. Emise un gemito e Augustus le strinse un braccio attorno alla vita, attirandola con delicatezza a sé. Chiuse gli occhi. Entrambi li chiusero. Lucinda sentiva il corpo esploderle in una miriade di fuochi d'artificio, e il gelo che ne proseguì fu di un orrore tale da sconvolgerla.
“Non dubitare mai, Ἀφροδίτη..., non dubitare mai della luna. Salvo te per salvare me. E sì, sono completamente sbagliato. Io che affermo di esser modesto, non sono altro che un grande egoista. Perché? Perché sto per spegnere il fiore più bello del mio campo di grano.” E il suo corpo aderì a quello della ragazza e gli occhi umidi di lei riuscirono a scaldargli il cuore. Dalle finestre sulla loro sinistra, la luce della luna filtrava con delicatezza poggiandosi sui volti baciati da quel destino inumano. Brillavano, brillavano più delle stelle incastonate nel cielo intenso, brillavano più di un sorriso e più di uno sbaglio. Brillavano prima di affievolirsi. Brillavano prima di collassare senza porne freno.
Augustus sospirò e lentamente, con una lentezza mediocre e un po' buffa, avvicinò il suo viso a quello di Lucinda. Quando raggiunse le labbra della ragazza, le parvero irrimediabilmente soffici e così pure e ingiustamente deliziose. Dischiuse leggermente la bocca e continuò quel bacio casto ancor per poco, terribilmente poco. La ragazza era immobile e gli occhi ora erano del tutto spalancati. L'uomo sospirò come un bambino che sbuffa. Non aveva urlato. Era stata la morte più silenziosa che mai avesse udito. Affondò ulteriormente la lama del pugnale nelle sue esili spalle. Il sangue gli scorse sulle mani e il metallo continuò ad infliggersi tra la sua carne e la sua anima, spegnendo entrambi con una rapidità assurdamente reale.
“Malsano io, malsana tu, malsana la luna che guarda noi.” sussurrò lui quando il corpo di Afrodite si accasciò sul pavimento rosso di un sangue innocente.

“Condannato dalla chiesa Anglicana per eresia. Lui, quest'uomo che è dinanzi a noi oggi, è stato l'artefice di molteplici omicidi. E tutte di giovani ragazze dell'alta aristocrazia inglese! Per questo, dopo l'ultima e tragica uccisione avvenuta nella Cattedrale di St. Paolo, Mr Touches Augustus, figlio di Touches Karl, è condannato a MORTE!”
La folla si espresse in dei versi gutturali e le parole che Augustus percepì nell'aria, lo trafissero nel profondo della sua instabile mente.
Era stato arrestato. La sua sete di sangue, di innocenza e di pietà ora stava per essere ripagata con la morte stessa. Ed Augustus aveva le lacrime nere e sporche che solcavano la lunga via sul suo viso. L'avrebbero pagata tutti, pensava. Non avrebbe lasciato quella vita con così tanta facilità e concordanza. No! Non poteva! Non dopo tutto quello che era accaduto!
Disteso lungo un letto di legna, la sua follia si divincolava dalla fine.
Fu in quell'esatto momento che la figura misteriosa delle sue allucinazioni comparì per l'ultima volta, guardandolo con mesta sufficienza.
“Il tuo animo sta per liberare l'amore intrappolato...” sussurrò, “e tu stai per volare lontano... negli inferi più caldi di questo fuoco che aleggia intorno a te.”
“Sei la mia rovina... sei la mia rovina!” urlava Augustus mentre le fiamme irrompevano nel suo corpo, ustionandolo, agonizzandolo, uccidendolo.
“Eterna nemica io, eterno nemico tu. Ciò che consideri luna, è detta pazzia. Ciò che consideri liberatorio, è detto reato.”
Mentre lui, insieme al suo corpo e al suo spirito, si crogiolava nel letto della morte, la famiglia di Lucinda come tante altre si disperdeva in pianti e lamenti. Ed infine, che poi tanta bella non fu, il fuoco di giustizia fatta si affievolì non appena il morbo della luna colpì in pieno il cuore di un altro ispido uomo.


Spazio Scrittrice:
Et voilà!
Il mio piccolo orgoglio.
Un po' non-sense.
Un po' della mia anima.
La canzone perfetta mentre si legge questo testo:
Yiruma- Kiss the Rain


Partecipa al contest indetto dal gruppo facebook A Panda piace fare le bolle di assenzio ⌠EFPfanfic⌡


   
 
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Vella