Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: E m m e _    17/05/2014    4 recensioni
In un mondo dove gli Angeli hanno preso il sopravvento, costringendo il genere umano alla schiavitù, o peggio alla morte, Allison si risveglia all’interno di una delle stanze del Paradisum, unità operativa dei nuovi sovrani del Pianeta Terra, con l’unico ricordo di cadere da un edificio e una voce che la chiama.
Non conosce la sua identità ma sa che, probabilmente, è già morta, caduta vittima degli Angeli.
Ad attenderla al suo risveglio, però, Caliel, un Angelo in attesa che Aniel, la sua compagna di vita, si risvegli dal suo sonno nel corpo mortale di Allison.
Ma ciò non accade.
Lei sa di essere in pericolo, così come ogni essere umano rimasto sul Pianeta, ma non può scappare.
Il suo destino è segnato: diventare una schiava o morire.
E lei non può permetterlo.
Genere: Azione, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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6.
Senza speranza
 
Percorremmo velocemente il corridoio, ancora mano nella mano, le dita di Caliel strette saldamente alle mie. Abbandonammo l’Ala Ovest del Paradisum, nonostante voci lontane e grida soffuse continuassero a seguirci imperterrite.
Passo dopo passo raggiungemmo i corridoi pieni di telecamere e Caliel si fermò di colpo, il suo viso era così serio da far male, non c’era nessuna traccia di sorriso, o di bontà, era un viso che non conoscevo e che mi spaventava.
Lanciò un’occhiata all’occhio di una telecamera, puntata proprio su di noi, poi l’Angelo deglutì forte, poi si voltò verso una delle porte di metallo, tutte uguali tra loro, tra cui anche la mia, più in fondo delle altre.
Sentii le sue dita muoversi contro le mie, come per allontanarle, ma non lo fece, come se avesse paura di ciò che sarebbe accaduto se l’avesse fatto.
Quel pensiero mi fece quasi ridere: Caliel era un Angelo, dopotutto, facevo fatica a pensare che potesse aver veramente paura di qualcosa.
Guardai le nostre mani, strette ancora in quell’abbraccio disperato, poi guardai lui.
«C’è qualcosa che non va?», chiesi, ma non rispose.
Passarono dei lunghi attimi di silenzio, il mio sguardo si posava convulsamente dal suo viso alle nostre mani, e poi alle telecamere che ci inquadravano.
Stavo per ripetere la domanda quando Caliel m’interruppe bruscamente con un fermo: «Questa è la mia stanza» e mi sentii in imbarazzo pensando che, forse, ciò che attendeva fosse solamente che io me ne andassi via.
«V-Va bene…», non riuscii a nascondere un leggero balbettio nella mia voce, mentre, con le guance in fiamme, cercavo disperatamente la porta della mia stanza, nonostante essa fosse sempre lì, infondo a quel corridoio, come se potesse scappare o cambiare da un momento all’altro, «Allora io…», e lasciai frettolosamente la sua mano, «Io vado».
Feci uno scatto, ritraendomi, e lui mi guardò, con i suoi occhi scuri, misteriosi, che parlavano senza dire nulla, senza proferir nessuna parola.
Nascosi un sorriso imbarazzato dietro una ciocca di capelli, caduta disordinatamente sul volto, che avvampava di un rosso, colorando le guance del colore delle rose più belle.
Gli diedi le spalle, anche se i piedi sembravano di piombo, trascinandomi pesantemente a terra, e feci un passo sentendo tutto il peso ricadere sul pavimento con la violenza di un macigno.
E feci un passo e poi un altro ancora.
Avanti, dicevo a me stessa, fa qualcosa, fa qualcosa.
«Ania!», ringraziai il cielo che Caliel mi avesse chiamato per nome, «Aspetta!» e mi raggiunse, afferrandomi per il braccio, avvolgendolo con la grande mano calda.
«Io…», mi parve di sentire un leggero tremore nella voce, «Io non voglio che tu te ne vada» e in quelle parole, scorsi molta più umanità di quanta un Angelo dovesse mantenere, dopo il Risveglio.
«Per favore», non avevo mai visto Caliel con un’espressione tanto sussurrata, «Non andare.» e per me fu impossibile smettere di guardare le sue labbra schiuse in respiri affannosi.
E dissi semplicemente: «Sì» e «Va bene» per poi raggiungere insieme, senza toccarci, la porta metallica della sua stanza.
 
«Beh, tutto qua», Caliel aveva appena finito di mostrarmi la sua stanza, dalle pareti bianche e ignote, da un singolo lettino dalle coperte fredde e lisce, con un unico cuscino al centro del materasso, all’apparenza metallico. Una cosa che mi aveva lasciata un po’ sbigottita era stato un piccolo oggetto metallico sull’angolo di una parete, con una piccola rete di ferro al di sopra di esso, che Caliel chiamò “Ricettore”, con cui ogni Angelo poteva chiamare un altro all’appello; veniva utilizzato nelle situazioni più complesse, quando si aveva bisogno di ogni Angelo per la riuscita di quella tale impresa.
«Beh, come dire è…», tentai di trovare un aggettivo in grado di descrivere la desolazione di quel luogo, freddo quanto inospitale, «particolare», aggiunsi infine, mordendomi il labbro subito dopo.
In qualche modo, però, quella stanza parve assomigliargli molto più del dovuto.
C’era freddezza dietro al suo sorriso, sempre cordiale, e c’era desolazione, l’avevo vista in quei suoi occhi neri nel momento in cui aveva sparato a quel bambino.
«No», disse Caliel a bassa voce, portando le dita tra i corti capelli e abbassando lievemente lo sguardo, «è semplicemente…», e mi guardò, inghiottendo la mia immagine in quelle sue iridi scure, «uguale a tutte le altre».
Quelle sole cinque parole mi congelarono il sangue nelle vene.
Come tutte le altre, quel pensiero mi terrorizzava, come tutte le altre, un Angelo come gli altri.
Un Angelo che avrebbe potuto uccidermi se avesse scoperto chi era davvero e cosa avevo fatto, chi avevo finto di essere a sua insaputa.
Mi costrinsi a non pensarci, a credere che avrei potuto farcela, a sopravvivere, che sarei riuscita a fuggire da quel luogo, facendomi salva la vita.
Avevo solo un’altra domanda in mente, vorticava silenziosa, scivolava sottopelle, come un brivido leggero, una sottile pelle d’oca che velava la realtà, ma non potevo aspettare che Annie mi portasse quel fascicolo, era troppo importante, e Caliel era l’unico in grado di rispondere, di classificarmi come una schiava o come chi, disperata o forse presa da un atto di coraggio, si era uccisa.
«Allora… Com’è successo?», dissi a bassa voce, senza guardarlo direttamente negli occhi.
Camminai ansiosamente per la stanza, tentando di evitare il suo sguardo.
«“Com’è successo” cosa?», mi domandò e, finalmente, ritrovai la sua voce dolce, rassicurante.
«Com’è morta lei… La… La mia Ospitante?», il mio sguardo cadde su un piccolo specchio rotondo appeso alla parete, che prima non avevo notato, e su un piccolo e insignificante cassetto al di sotto di esso, su cui era poggiato un coltellino d’argento, dalla punta allungata e affilata, che probabilmente usava per radersi il viso, o per tagliare i capelli.
Avrei potuto colpirlo con quello, nel caso avesse scoperto qualcosa; non l’avrei ucciso, questo era certo, ma l’avrei rallentato, il tempo di fuggire da quella stanza e nascondermi in un posto sicuro.
Mi avvicinai allo specchio e, dandogli le spalle, afferrai il coltello, nascondendolo tra i pantaloni e la maglietta scura, sentivo la lama fredda sfiorarmi la schiena nuda.
«La tua Ospitante?», chiese, sbigottito, alzando gli occhi neri verso di me, «Perché t’interessa?», mi si avvicinò, facendomi trasalire, e in quel momento la lama parve diventare così calda da scogliere la pelle sottostante.
«L’altra notte…», improvvisai, «Ho visto delle immagini», e abbassai lo sguardo, deglutendo silenziosamente, «e non riesco a capire cosa le è successo. Se l’hanno spinta o…», quando il mio sguardo incontrò Caliel per qualche secondo lo vidi sorridere, quasi divertito, e poi esclamò, con la voce di un bambino eccitato, «Spinta? No, no! Si è buttata lei giù, di sua spontanea volontà! E’ stato…», folle, codardo, sciocco, avrebbe potuto usare milioni di aggettivi per descrivere ciò che avevo fatto, e invece disse: «Coraggioso».
Ero rimasta immobile a guardarlo, chiedendomi come potesse credere a una cosa del genere.
«E’ stata l’unica, tra tutti, a violare davvero la legge, ad andare contro gli Angeli: alcuni sono mori, è vero, ma non combattendo. Sapevano semplicemente che sarebbe stato più facile, ma non lei; lei l’ha fatto per non diventare una pedina, un’altra schiava in questa guerra. L’ho trovato molto coraggioso; per questo l’ho scelta per te. », e si era fatto così vicino da far male.
Riuscivo a scorgere le pupille, nonostante le iridi nere, potevo vedere la breve barbetta che gli stava spuntando sul viso, o potevo vedere come la luce si rifletteva sulla sua pelle dorata.
Sembrava così semplicemente umano e non potevo far a meno di pensare a come fosse stato prima della guerra, se fosse morto da eroe o da codardo, a causa della Grande Guerra, o per qualunque altro motivo, un incidente, una malattia, una disgrazia che l’avesse portato tra le grinfie dei Nemici.
Se fossi stata davvero la sua Aniel, probabilmente, avrei potuto, avrei dovuto, saperlo.
Ma io non ero lei, stavo solo recitando una parte, ferendo con piccoli tagli, che sarebbero diventate poi ferite mortali, le persone a me vicine, compreso Caliel.
«E tu? Com’era il tuo Ospitante?», e la curiosità vinse sulla ragione, «Ho ricordi così confusi…», mi giustificai, abbassando lo sguardo.
Lo guardavo, di tanto in tanto, di soppiatto, con la coda dell’occhio, con occhiate abbastanza veloci da vedere il suo volto incupirsi, i suoi occhi farsi di nuovo freddi, vuoti.
«Se non vuoi parlarne…», stavo per dire ma Caliel m’interruppe, dicendo: «Si chiamava Scott, era il mio Protetto».
Ecco perché la cordialità, ecco perché quei sorrisi, o quel suo modo di mettere gli altri a proprio agio; era un Custode e, pensandoci bene, non avrei mai potuto affidargli altri ruolo.
«Era un ragazzo buono, onesto, gentile con tutti, persino con chi non lo meritava. Se l’umanità avesse avuto una speranza, beh, allora quella sarebbe stata Scott. Ed è per questo che decisi di salvarlo ma…», Caliel parve tremare al sol pensiero, mi si spezzava il cuore a vederlo così, e allora mi avvicinai, tentando di frenare il suo indietreggiare.
E fu allora che lo fermai per un polso, e lui mi guardò, inghiottendomi in quelle sue iridi scure.
«Voglio mostrarti una cosa, Ania…», disse senza smettere di guardarmi.
Mi pose il braccio, piegandolo nella mia direzione, e io feci lo stesso col mio, fin quando lui, con la sua mano calda, strinse un po’ più in basso del gomito, lo imitai, nonostante dovessi sforzare le dita per stringerlo.
Improvvisamente tutto divenne, davanti ai miei occhi, fin quando sottili figure si stesero su quella macchia nera e informe; una di loro era Caliel, o almeno, il suo Protetto, che correva disperato seguendo un suono che, pian piano, divenne un sussurro, poi un grido, e una supplica, infine solo un nome si stese tra le strette stradine che si stendevano nel corridoio buio: Scott.
«Qui non c’è speranza», la voce di Caliel fu seguita dal silenzio, «Non per loro, non per me», e due nuove figure comparvero dall’oscurità: una di loro era un uomo, gli occhiali scuri sul naso adunco, il sorriso sghembo che mi ricordava irrimediabilmente il verso assassino di quel bambino, Jedekiah, l’altra era una donna, un ostaggio; la mano di Jedekiah, mostruosa, fatta di artigli, come quella di una belva, o forse come quella di un Demone, «Ogni volta che provo a salvare qualcuno, ogni volta che amo qualcuno, questo viene ferito», gli artigli di Jedekiah colpirono la gola della donna, squarciandola, il suo sangue chiaro si sparse lungo tutto il pavimento, Scott gridò, gemette, corse forte, corse verso Jedekiah, i quali occhi avevano cambiato colore, fino a diventare di un azzurro intenso, metallico, quasi innaturale, lo stesso Jedekiah che, con un colpo rapido, lo spinse lontano, contro un muro di pietra, n gruppo di Angeli, comparsi dal nulla, accerchiarono il corpo del ragazzo, colpendolo, picchiandolo, fino all’ultimo respiro, «Qualcuno viene ucciso».
Poi di nuovo l’oscurità.
«Qui non c’è speranza Ania», una luce nell’oscurità, squarciandola quasi con violenza, «Qui siamo tutti dannati»…
 
Per un attimo tutto ciò che vidi fu luce pura, dapprima bianca, poi sempre più forte e scagliata, assumeva ogni variazione di azzurro, da quello del cielo a quello del mare, fino a diventare il metallico e reale azzurro delle nuove iridi di Caliel.
Prima rimasi in silenzio, a fissarle, confuse, come se davanti a me non ci fosse la stessa persona di pochi attimi prima, l’attimo dopo, invece, schiusi le labbra, per dire qualcosa, per sussultare, per gridare, ma non uscì nemmeno un fiato dalla mia bocca.
Caliel respirò a fondo, i suoi occhi nei miei, come se si stesse specchiando nelle mie pupille poi, quasi improvvisamente, si girò di colpo, ringhiò, si avviò verso lo specchio appeso alla parete e ringhiò.
«No!», e strinse le mani lungo il bordo del cassetto, la presa fu così forte che sentii il materiale piegarsi e spezzarsi sotto il tocco delle sue dita, «NO!», e lo scagliò dall’altro lato della stanza, con così tanta violenza che si ruppe contro la parete, a pochi metri da me.
Indietreggiai, terrorizzata, e guardai con occhi sbarrati ciò che aveva fatto a quel cassetto, che avrei potuto essere io, e poi guardai Caliel, i suoi occhi fissi nella sua immagine nello specchio, occhi negli occhi, come se non stesse guardando sé stesso ma un altro.
Un altro Caliel.
Un Caliel pericoloso, letale, un Caliel differente da quello premuroso e pieno d’amore che si era presentato il primo giorno, al mio Risveglio.
Un Caliel Angelo.
Con rabbia prese lo specchio, e fece per toglierlo dalla parete, inutilmente.
Lanciarlo a terra avrebbe provocato sicuramente la fine della finta tranquillità che si era istaurata.
Gli Angeli avevano ucciso gli Uomini.
Avevano preso il possesso del loro corpo ma non del loro cuore.
Caliel mi aveva mostrato il suo.
E questo lo stava distruggendo, portando alla parte peggiore di sé.
Un Angelo.
Dovevo fermare in qualche modo tutto ciò.
«Caliel!», gridai, sovrastando i suoi ringhi, «Caliel fermati!», lo raggiunsi.
Con una mano gli sfiorai il braccio e lui si voltò, le sclere bianche venate di sangue, i suoi occhi, dapprima neri e profondi, ora erano un immenso vetro azzurro e impassibile, «Caliel!», e quando tentai di fermarlo mi colpì lasciandomi cadere a terra, lo zigomo pulsante dove aveva colpito con forza disumana, ma non riuscivo a non guardarlo negli occhi, sentendo i miei riempirsi di lacrime, per il dolore e per la paura.
Erano ghiaccio, erano immorali, innaturali, inumani.
Mi rialzai lentamente, respirando piano, con respiri brevi e decisi, sentendo il cuore martellare nel petto.
Il coltello bruciava contro la mia pelle.
«Va tutto bene, ehi…», presi un profondo respiro, «Va tutto bene» e puntai i piedi a terra, nonostante il colpo mi avesse tolto, per un attimo, l’equilibrio.
Caliel mi guardò, deglutendo piano, mentre mi avvicinavo sempre di più, fino a restare a meno di un respiro da lui, riuscivo a sentire quasi il profumo della sua pelle, misto a quello della paura e del panico che lo stavano soffocando.
Riuscivo a sentire le sue mani tramare, vicino alle mie che, invece, si stavano alzando, pronte a sfiorargli il viso.
Quando le mie dita gli sfiorarono la guancia, lui tremò e abbassò lo sguardo, come disgustato.
Serrò la mascella e gemette un lieve: «Mi dispiace… Io… Non volevo colpirti… Io… Mi dispiace», la sua voce tremava e non riuscivo a togliermi dalla mente il pensiero che fosse così umana da far male.
Non riuscivo a vedere un Angelo in lui.
Non erano più gli stessi occhi di Jedekiah, prima colpire Scott, prima che morisse.
Non erano gli stessi occhi.
Caliel non era come Jedekiah.
«Shh… Va tutto bene», il mio viso era così vicino al suo che riuscivo a sentire il suo naso sfiorare quasi il mio, il mio respiro farsi nullo contro il suo, «Va tutto bene».
«No. Non va bene», la sua voce era dura, fredda, «Sono un mostro», e divenne presto un singhiozzo senza lacrime, mentre le sue mani tremavano contro di me, pronto ad allontanarmi.
«No… No», la mia parve quasi una supplica.
Con una mano gli alzai il mento, per vederlo meglio negli occhi, e non vidi crudeltà in quelle sue iridi, che andavano man mano a inscurirsi a ogni battito di ciglia.
«Sono bellissimi…», gemetti piano, come se fosse un segreto, e lui mi guardò, confuso, immobile come una statua.
Non c’era alcun male negli occhi di Caliel, nessun odio, solo rancore verso chi aveva ucciso il suo Protetto, solo rabbia verso sé stesso per non averlo salvato.
«Tu sei bellissimo», dissi con la voce che tremava, il respiro spezzato.
Ogni molecola del mio corpo mi diceva di non farlo, di allontanarmi, di andare nella mia stanza, ma io mi mossi piano, lentamente, gli presi le mani e le trascinai sui miei fianchi.
«Aniel, no», disse abbassando gli occhi.
Fece per allontanare le sue mani dal mio corpo ma lo frenai; le mie mani ricaddero sul suo viso, lo avvicinarono al mio, fino a sentire, ancora, il suo respiro fondersi col mio.
«Va tutto bene», dissi, «tutto» e lo baciai, prima piano, con delicatezza, per paura che non ricambiasse, o per timore che mi colpisse di nuovo, poi, quando ricambiò con altrettanta delicatezza, sempre con più forza, passione, quasi rabbia.
Le nostre labbra combattevano una guerra che noi soli non avremmo potuto mai affrontare.
Le nostre bocche si cercavano, si assaporavano, si mordevano, si attaccavano, si uccidevano e si amavano.
Mi strinsi alle sue spalle, le sue mani calde sui miei fianchi, ci affrontavamo senza farci male.
Fallo, disse la mia coscienza.
Quel coltello bruciava come fuoco ardente contro di me.
Fallo ora o te ne pentirai per sempre, con gli occhi chiusi allungai una mano e afferrai il coltello, segretamente, mentre il nostro bacio diventava sempre più rude.
Respirai tra i baci, mentre le sue mani si facevano sempre più forti contro i miei fianchi, stringendomi con saldezza, facendomi quasi male.
Sentivo il coltello bruciare nella mia mano, il peccato era entrato nelle mie vene e non ne sarebbe uscito mai, così vicino al suo corpo da far male.
Fallo, diceva la mia coscienza.
Non posso.
Ora o mai più, continuava, facendomi impazzire.
Non posso.
E lasciai che il coltello mi cadesse di mano, a terra; il suono dei baci era di un silenzio assordante, non diceva nulla eppure aveva oscurato il suono del metallo che colpiva il pavimento.
Fermai il bacio e Caliel mi guardò.
Entrambi non avevamo né fiato né parole da pronunciare.
I suoi occhi erano tornati color dell’ebano, inghiottivano ancora la mia immagine mentre le sue labbra, che fino a qualche attimo prima si erano confuse con le mie, prendevano forti respiri.
Sotto pelle sentivo le lacrime combattere per uscire, piene di vergogna, sulle labbra ardeva il bacio del peccato, delle bugie che, fino a quel momento, mi avevano permesso di sopravvivere.
«Ania», disse lui, guardandomi quasi preoccupato, forse aveva capito che qualcosa, in me, stava cambiando, ma non gli permisi di continuare la frase.
Lo abbracciai, lo strinsi forte a me, feci mio il suo odore, i suoi respiri che mi solleticavano la pelle.
Bugie.
Menzogne.
Salvezze che ne derivavano.
Erano tutto ciò che avevo.
Bugiarda.
Falsa.
Sopravvissuta.
Era tutto ciò che ero.
Aprii gli occhi e respirai piano, quasi di nascosto, e lanciai un’occhiata davanti a me dove l’immagine di Ania, racchiusa nello specchio, mi fissava coi miei stessi occhi, con uno sguardo che, però non era il mio.
Bugie.
Bugiarda.
Menzogne.
Falsa.
Salvezze.
Sopravvissuta.
Aniel.
Forse le somigliavo molto più di quanto volessi credere.
Forse era in me più di quanto volessi ammettere…








 
ANGOLO AUTRICE!!!
Ed eccoci qui, finalmente direi, e dopo ieri che mi avete ricoperta di regali (yep, ieri era il mio compleanno) beh, ora tocca a me direi :3
Devo ammettere che non ero fiera di questo capitolo, se fosse stato per me l'avrei ricominciato da capo, ma appena ho scritto le pagine finali, boh, forse la canzone giusta o le parole giuste, chissà, beh, mi hanno fatto cambiare idea, alla fine ed ecco qui il capitolo! 
Spero vi piaccia :)
RINGRAZIAMENTI:
Ringrazio 
MockinGleek;
Drachen e
Mani_Tu_52
per le vostre recensioni e per esserci sempre state, grazie :'3 




 
 
   
 
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