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Autore: Jawn Dorian    28/05/2014    6 recensioni
Questa è la storia di come John Watson si mise a piangere, seduto al tavolino di un bar, in un piovoso pomeriggio di Settembre.
{ Post-Reichenbach }
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ogni Holmes deve avere il suo Watson'
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John Watson si mise a piangere.
John Watson si mise a piangere, seduto al tavolino di un bar.
John Watson si mise a piangere, seduto al tavolino di un bar, in un piovoso pomeriggio di Settembre.
E questa è la storia di come accadde.
Questa è la storia di come John Watson si mise a piangere, seduto al tavolino di un bar, in un piovoso pomeriggio di Settembre.

 

 

 
A Lar. La mia Rachel. La mia Sherlock.

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E’ innanzi tutto necessario cominciare questa storia, la storia di come John  Watson si mise a piangere seduto al tavolino di un bar in un piovoso pomeriggio di Settembre, con il spiegare perché questa storia deve venire raccontata con tanta urgenza, come si trattasse di qualcosa di estremamente originale e mai visto sulla faccia della terra. Perché infondo, convengo con voi che una simile attenzione per un uomo preso dallo sconforto in un luogo pubblico, che si abbandona alle lacrime in un pomeriggio piovoso di Settembre, può risultare non esattamente costruttiva, o comunque non opportuna.

Motivo numero uno: John Watson non era una persona dalla lacrima facile. Si trattava di un medico militare, abituato alle atrocità, alla violenza, e alla perdita. Non che non fosse emotivo. Lo era eccome, e di questo egli ne era consapevole. Semplicemente, non lo era al punto da commuoversi o piangere facilmente. Perché si sa, la vita militare rende duri e resistenti.

Motivo numero due: John Watson non era una persona qualunque. John Watson aveva ricevuto una sorta di dono piuttosto controverso ed inspiegabile dalla sorte, ossia conoscere Sherlock Holmes. Sherlock Holmes, l’uomo più straordinario e geniale che il mondo avesse mai avuto l’onore di ospitare. Ma non si trattava solo di questo. Perché John Watson aveva ottenuto un altro dono piuttosto insolito, non dalla sorte, ma da Holmes stesso: la sua amicizia.

Sherlock Holmes e John Watson erano diventati, dopo una serie di avventure e di eventi  che li avevano indissolubilmente legati da ogni punto di vista, i migliori amici che Londra avesse mai visto.

Motivo numero tre: Sherlock Holmes, il migliore amico e coinquilino di John Watson, era morto.
Sherlock Holmes si era buttato dal tetto del Saint Bart’s Hospital sotto gli occhi di John Watson.
E John Watson, ora, era solo.
 
Ovviamente John era triste. Molto triste.
Era un medico, e sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto affrontare: le cinque fasi del cordoglio.
John Watson aveva un’analista. Un’analista che lo aveva messo in guardia. Un’analista che gli aveva consigliato di circondarsi di persone per superare quelle fasi.
 
( ‘Licenziala, John. La psicologia non è ancora una scienza completa.’
‘Sono un medico, Sherlock. E so che la sfera emotiva e psicologica è importante nelle persone.’
‘Giusto. Le persone.’ )
 
 
Ma John Watson non l’aveva ascoltata, e passeggiava da solo, in un piovoso pomeriggio di Settembre, ripetendosi mentalmente tutto quello che stava affrontando.
 
Diniego.                       Non puoi essere morto.
 
Rabbia.                         Non ti perdonerò per essere morto. 
 
Trattativa.                     E’ tutta colpa mia se sei morto.  
 
 
Depressione.                  Non ho più niente, se tu sei morto.                   
 
 
Accettazione.               
 
L’ultima no. L’ultima non ne voleva sapere di arrivare. Non sapeva neanche che sapore avesse.
Ma a John la cosa non sembrava importare, in quel pomeriggio di Settembre, a soli due mesi dalla morte del suo migliore amico. E così nonostante la pioggia, nonostante non avesse l’ombrello, uscì.

John Watson camminò a lungo e speditamente, tenendo le braccia lungo i fianchi, quasi marciando, diritto per la sua strada, senza sapere dove stesse andando, come un carrarmato senza piloti.
Camminò a lungo, con la gola che gli bruciava e le mani gelate, lasciando che la pioggia lo colpisse del tutto, bagnandogli i capelli, il viso, infradiciando la sua giacca nera e la sua camicia.
 
( ‘Per l’amor del cielo, piantala con quegli imbarazzanti maglioni e mettiti delle camice, ogni tanto.’
‘Sherlock, ti stai lamentando di come mi vesto?’
‘Certo che lo sto facendo.’
‘Non sei mia madre.’
‘Sono il tuo consulente investigativo.’ )
 
 
Camminò e camminò, John Watson, senza sosta e senza alzare gli occhi verso nessuno.
Camminò, urtò, senza mai rallentare, senza mai voltarsi. Camminò e camminò tra uno ‘scusi’ ed un ‘permesso’ appena mormorati, e scorreva. John Watson scorreva, insignificante sotto il peso della pioggia londinese che cadeva senza sosta, in quel pomeriggio di Settembre.
Non guardava nessuno, il dottor Watson, non guardava nessuno  perché aveva paura.
Aveva paura di incontrare degli occhi azzurri che gli ricordassero quelli di Sherlock, aveva paura di scorgere una sciarpa blu come quella di Sherlock, e aveva l’insano terrore di passare di fronte alla porta del 221b di Baker Street che era ancora totalmente impregnato di Sherlock, e lui quindi non ci avrebbe più rimesso piede, mai più.

 
( ‘Mai dire mai, John. E’ davvero inutile essere definitivi, a questo mondo.’
‘Tu lo sei sempre.’
‘Credo di potermi avvalere di questo privilegio.’
‘Che razza di presuntuoso.’ )
 
 
John Watson era certamente un uomo forte e resistente, ma non indistruttibile.
Per cui, ad un tratto – quante ore erano passate da quando aveva cominciato a camminare? –iniziò ad avere freddo. E fame. Perché non mangiava nulla da almeno due giorni.
( ‘Metti qualcosa sotto i denti. Non tocchi cibo da ieri, Sherlock.’
‘Sto bene così.’
‘Sciocchezze. Non farmi insistere. Mangia.’
‘Non sei mia madre.’
‘Sono il tuo dottore.’ )
 
E questo, ci porta al bar.
Un normale bar nella periferia londinese di cui John aveva rimosso il nome non appena ne aveva varcato la soglia. La porta tintinnante era di un color mogano più adatto ad una trattoria che ad un bar, così come il mobilio di legno massiccio. Un cameriere – con gli occhi azzurri, che John evitò accuratamente – in camicia e con un cravattino di un rosso sbiadito lo fece accomodare sul tavolo più vicino alle vetrata.
John Watson era finito in quel famigerato bar, al famigerato tavolino, nel nostro famigerato piovoso  pomeriggio di Settembre. Ma sul suo volto, ancora nessuna traccia delle famigerate lacrime.
Solo pioggia, in verità. John era bagnato dalla testa ai piedi. Stanco, davvero stanco, forse perché le sue notti erano tornate a popolarsi di incubi. E triste, molto triste, e fu a quel punto - mentre aspettava il suo tè con i biscotti che aveva richiesto al  cameriere col cravattino – che pensò che aveva davvero una gran voglia di piangere forte.
Perché John Watson, come abbiamo detto all’inizio, non era una persona che piangeva facilmente.
Ed è inutile dire che sì, aveva pianto di fronte alla tomba di Sherlock Holmes, ma una volta.
Una singola, misera volta.
Dentro di sé, John aveva accuratamente represso ogni centimetro della sua disperazione, nascondendo anche il più piccolo angolo dentro il suo corpo, da bravo soldato quale era. Ma come gli avevano fatto presente in molti, non era più in guerra.
Per cui, perché non lasciarsi andare?
Ci aveva provato, John Watson, ma a due mesi dalla morte del più caro amico che avesse mai avuto, ancora non ci riusciva. Era forse ancora nella fase del diniego?
Arrivò il tè con i biscotti, e John non ringraziò il cameriere –  con quegli stupidi occhi azzurri  – che se ne andò via troppo in fretta anche per stizzirsi, o forse aveva capito che le sue condizioni non erano ottime, e questo pensiero fece sentire John miserabile e patetico.
L’ex soldato si mise a sorseggiare la bevanda.
E in quel momento, accadde.
 
John poteva dire di sapere una cosa o due sulle coincidenze, da quando aveva incontrato Sherlock Holmes.

 
(‘Andiamo, John. Raramente l’universo è così pigro.’)
 
Glielo ripeteva davvero spesso, sulle scene del crimine. E così aveva finito per convincersi che lui e Sherlock non si potevano essere incontrati e poi salvati per caso. Che le vite di due persone aggrovigliate non potevano essersi semplicemente scontrate, districate, ed infine intrecciate in quel modo imperfetto e bislacco, eppure bellissimo, tutto per puro caso.
Così come finì per convincersi che la scena a cui assistette in quel piovoso pomeriggio di Settembre, dovesse essere stata inviata da una qualunque divinità della sorte avversa, solo ed unicamente per torturarlo.
Quel bar era praticamente vuoto, e certo –  si può pensare  – il destino non esiste. Ma cos’altro avrebbe potuto far venire freddo a Watson proprio in quel punto, proprio in quel momento, di fronte a quel bar vuoto? Vuoto, se non fosse stato per lei.
La notò.
L’aveva notata fin da prima: una ragazzina.
John l’aveva notata, sì, probabilmente perché sembrava avere l’argento vivo addosso.  Guardava fuori, oltre la grande vetrata, cercando qualcosa con gli occhi. Girava il cucchiaino nella sua tazza di cioccolata, senza berla. Controllava il cellulare. Lo rimetteva giù. Sospirava. Si grattava la testa. Tamburellava con le dita sul tavolo. Non sembrava in grado di sedersi composta per più di cinque secondi. Si martoriava le ciocche di un castano rossiccio indefinibile, e poi tornava a guardare fuori. Con quello sguardo di un verde spento, reso grigio dalla pioggia.
Starà aspettando un ragazzo - aveva pensato John Watson.

 
( ‘Pensi sempre cose troppo ovvie sulle persone, John.’
‘Non tutto è sempre sorprendente ed elaborato, sai?’
‘Non ho detto che tutto sia elaborato.’
‘E allora cos’è?’
‘Non-ovvio.’
‘Da quando tutta questa fiducia nel genere umano?’
‘Da quando ho incontrato te.’ )
 
 
E così si rese conto che se qualcuno gli avesse detto: “Tra pochi minuti entrerà Sherlock Holmes da quella porta per incontrarti e sedersi qui con te”, lui avrebbe aspettato con la stessa impazienza, e avrebbe controllato l’ora con lo stesso nervosismo e forse, John Watson, in quel momento, fece la prima deduzione della sua vita. Deduzione che si rivelò corretta solo un minuto dopo.
La ragazzina balzò in piedi.
 “Rachel!” chiamò.
Maledizione - grugnì mentalmente John  - siediti, calmati, non hai mica vinto alla lotteria.
Un’altra ragazza con dei tratti più delicati della prima, appena entrata nel bar, con la capigliatura lunga e scomposta  di uno strano biondo cenere-  e con dei dannatissimi occhi azzurri, splendenti della felicità più assurdamente palese mai vista sulla terra, posò l’ombrello malamente e si fiondò su di lei.
John ingoiò a vuoto.
Nessuno in quel bar, a parte lui, sembrava riconoscere quell’abbraccio così lungo, tipico di due amiche separate per troppo tempo.
“Non sai quanto è bello vederti!” gridò la rossa chiudendo gli occhi sulla spalla dell’altra, al settimo cielo.
“C’è stato un casino. Il treno ci ha messo due ore a partire, c’era un guasto, e—“ 
Rachel – così si chiamava dunque, la ragazza con gli occhi azzurri – provò a staccarsi dalla sua amica per raccontarle il viaggio, ma subito l’altra si avvinghiò di nuovo con forza, senza lasciarla finire, come se avesse paura di vederla scappare via.
“Scusami, scusami. E’ che ero preoccupata, diamine!”  si lasciò sfuggire, concitata, finalmente mollandola e lasciandola sedere.
“Scusa se ti ho fatto preoccupare, Elise. Dai, ora tranquilla!”
E John Watson a quel punto considerò l’eventualità di andare dalla sua analista non appena messo piede fuori da quel posto perché -davvero? Lo stava facendo davvero? Stava davvero fissando due ragazzine, come un triste maniaco di mezza età? Si chiese cosa diavolo ci fosse di tanto interessante in quella scena così comune da costringerlo a non addentare i suoi biscotti. E la risposta crollò su Watson, lampante, un attimo dopo: non era un maniaco, e sulla mezza età si poteva ancora indugiare, ma era triste.
Triste e nostalgico.
E quelle ragazzine cancellarono l’aroma di tè dalle sue narici, facendo tornare l’odore antico e polveroso del 221b di Baker Street.
Rachel, dal viso elegante, i lineamenti morbidi e delicati, gli occhi luminosi, davvero di una bellezza poetica, seduta composta sulla sedia, che parlava con sicurezza e scioltezza.
Elise, ingobbita, scomposta, dai tratti quasi maschili, con le unghie mangiucchiate e le dita callose, i jeans bucati e la maglietta strappata sulle maniche, che si impappinava quando parlava.
Come si erano abbracciate.
( ‘Tu guardi ma non osservi, John.’
‘Mi dici sempre la stessa cosa. Sempre la stessa.’
‘Perché è così. E tu dovresti saperlo.’
‘Io?’
‘Certo. Come quando i giornalisti suppongono che siamo amanti.
 A loro basta che due persone vivano nella stessa casa e girino spesso insieme per credere di sapere che rapporto hanno. Guardano, ma non osservano.’
‘E’ molto triste ed inquietante, ma a quanto pare è la prima cosa che si deduce guardandoci, Sherlock.’
‘Guardandoci. Ma non osservandoci.’ )
 
E John, forse per la prima volta, osservò. Osservò, respirò rabbiosamente dalle narici, quasi furibondo, quasi arrabbiato con sé stesso. Quella che sentiva…era forse invidia? Invidia per quelle due amiche che ancora avevano la possibilità di stare assieme?
Intanto, le due ragazze ridevano forte per qualcosa che aveva a che fare i biscotti, o forse i dugonghi, John non era sicuro di aver sentito bene, tanto i loro discorsi erano confusi e deliranti. Poi presero a parlare delle feste di fine anno delle rispettive scuole.
“Comunque, se è vero che dovremo ballare, io non vado!” si lamentò ad un tratto Elise, tirando la testa all’indietro con un’espressione teatralmente esasperata a dir poco esilarante.
“Oh, suvvia, non farla tanto lunga” la ammonì l’altra scherzosamente, pizzicandole una guancia.
“Lo sai che non so ballare, Rachel! Sei tu la ballerina, qui!”
“Se è questo il problema, ti insegno io.”
( ‘Ballare? Come, come? Ti piace ballare?’
‘E parla piano, John!’
‘Tranquillo. Il tuo segreto è al sicuro. A patto che tu tenga il mio.’
‘Il tuo?’
‘Ballo come un manico di scopa.’
‘Lo credo bene. Hai una postura militare così radicata che fare un movimento fluido per te è impossibile.’
‘Ma bene. Bravo. L’avevi già dedotto, quindi.’
‘Non c’è problema. Ti insegnerò io.’ )
 
 
“Siamo in un bar, scema! Dai, che combini?”
“Allora. Conduci tu, ok? Non è difficile. Un, due, tre. Un, due, tre.”
 
( ‘Dio. Ma che stiamo facendo?
Se entra la signora Hudson ci sarà da ridere.’
‘Un, due, tre, John. Concentrati.’
‘Ci sto provando.’
‘Sei davvero un manico di scopa.’ )
 
“Sei davvero un manico di scopa.”
“Lo so, grazie per avermelo ricordato.”
“Concentrati, su, che sei tu a condurre!”
“Rachel, vedo di ricordarti che stiamo ballando in un bar.”
 
( ‘Se questo è l’effetto che ti fa un po’ di liquore, giuro che questa è l’ultima volta che te lo do, Sherlock.’
‘Sto solo cercando di istruirti.’
‘Oh, certo. E’ molto importante saper ballare un valzer, ma sapere che la terra gira intorno al sole non serve, giusto?’
‘Mpfh.’ )
 
 
Non aveva fatto in tempo ad insegnargli per bene a ballare, Sherlock Holmes.
John Watson non avrebbe mai imparato a ballare.
Ma invece, quella ragazza, Elise, sì.
John si sentì invidioso e commosso, e arrabbiato, e debole, e idiota  allo stesso tempo.
Sentiva che quelle due ragazze avrebbero potuto decidere di esplodere insieme sul bordo di una piscina. Vedeva Elise correre al fianco di Rachel, e sparare ad uno sconosciuto per salvarla.
Vedeva Rachel parlare, ed Elise mormorare ammirata: “Fantastico!”
Le vedeva entrambe ridere di cuore sedute su un divano a Buckingham Palace.
Vedeva Elise non capirci un accidenti, e Rachel guardarla con un sorrisetto sghembo, perché invece aveva capito tutto.
Vedeva Rachel lamentarsi della stupidità delle persone, e Elise che cercava di dissuaderla sconsolata.
E aveva una folle ed insensata voglia di andare da quelle ragazze, guardare Rachel fissa negli occhi e dirle: “Non morire mai prima di questa ragazza, non farlo mai. Le spezzeresti il cuore. Ne sarebbe devastata, non farlo. Non lasciarla sola.”
 
(  ‘Continueremo un altro giorno. Comunque sei un vero disastro, John.’
‘No, aspetta, finiamo ora, ci stavo riuscendo!’
‘E va bene. Ripartiamo.’ )
 
“Continuiamo dopo a casa. Comunque sei un vero disastro, Elise.”
“Ma dai, proprio ora che cominciavo a capirci qualcosa! Finiamo!”
“E va bene. Da capo.”
Sherlock Holmes e John Watson erano un mistero per delle menti geniali.
 Mycroft Homes non aveva capito. Aveva ripetuto a suo fratello minore ‘importarsene non è un vantaggio’ tante di quelle volte, che davvero non riusciva a capacitarsi di come Sherlock avesse potuto decidere di ignorare bellamente il suo consiglio con un sentimento stupido ed irrazionale come l’amicizia. Non era una cosa chimica, né attrazione fisica, come aveva potuto cascarci? Come aveva fatto quel semplice medico militare a fargli cambiare idea?
Irene Adler non aveva capito. Ci era andata vicina, certo, ma non aveva capito. E John non aveva neppure provato a sprecare parole con una dominatrice come lei, per tentare di spiegarle che non c’era alcun bisogno di essere una coppia o di possedersi per importarsene l’uno dell’altro. E lei, forse, però, aveva colto qualcosa, alla fine. Ma no, John non era geloso. John era arrabbiato. Arrabbiato con lei, perché aveva fatto soffrire Sherlock.
Jim Moriarty non aveva capito. Non aveva capito niente. Ma forse John lo pensava perché lo odiava, lo odiava e doveva convincersi che una persona che aveva compiuto quelle azioni orribili che lo avevano distrutto, non potesse capire, e non avrebbe mai capito.
Rachel e Elise non avevano mai incontrato Sherlock Holmes e John Watson.
Ma John ne era sicuro: loro capivano.
Accadde.
Le labbra di John tremarono. Strizzò gli occhi, mugolando appena, inerme, di fronte alla sua tazza di tè, che ormai era ghiacciata ed imbevibile.
 
( “Posso avere questo ballo?” )

 
“Posso avere questo ballo?”
Risero entrambe, appoggiandosi l’una all’altra, in una silenziosa promessa di farlo per sempre.

 
 Questa era la storia di come John Watson si mise a piangere, seduto al tavolino di un bar, in un piovoso pomeriggio di Settembre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice
Credo che come minimo meritiate delle spiegazioni.
Tanto per cominciare, sì: Elise e Rachel sono due personaggi palesemente non inventati, per la miseria.
E’ da anni che non faccio la cosa del infilare-un-personaggio-che-sei-palesemente-tu con un nome modificato, e davvero non avevo intenzione di rifarlo, ma questa serie mi ha fatto del male, mi ha risucchiato nel baratro della monotonia da fangirl impazzita.
Per cui Elise sì, dovrei essere io e Rachel dovrebbe essere una mia amica.
Almeno ho avuto la decenza di piazzarci al di fuori della vicenda, ma comunque, giusto per evitare che qualcuno mi fucili senza pietà ci tengo a precisare che questa cosina l’ho sognata la notte.
E comunque sentivo di dover scrivere di una scena dove il nostro John si abbandonava nuovamente alle lacrime perché nonostante adori questo personaggio, ho sofferto fisicamente quando ha semplicemente alzato la testa, facendo sparire le lacrime per magia.
E niente, spero che a qualcuno sia piaciuta.
Se sei arrivato fino a qui a leggere, grazie mille.
E’ tipo la mia terza storia in questo fandom che per me è ancora tutto da esplorare.
  
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