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Autore: tomboy    04/06/2014    3 recensioni
"Silvia stava con una ragazza. Era quella “a” che la terrorizzava a morte e le rendeva difficile respirare. Aveva deluso tutti. Le girava la testa; le sembrava che il mondo le avesse giocato il peggiore tiro in assoluto: l’aveva creata difettosa. Amava. Ciò era bene. Amava una ragazza. Ciò era male."
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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efp silvia alice

A Ser, perché una volta tanto volevo fare qualcosa per lei.

(non è ciò che ti aspetti)

 

 

 

Non c’è nulla che dovresti nascondere

 

 

 

«Non giocare con i miei capelli, non riesco a dormire.» sussurrò Alice con la voce impastata dal sonno. Aveva i capelli corti e morbidi, che scorrevano come acqua fra le dita di Silvia.
«Allora resta sveglia con me.» mormorò implorante l’altra, ansiosa della compagnia di qualcuno che la distraesse da tutti i suoi pensieri e dai problemi che sembravano volerla soffocare non appena chiudeva le palpebre. «Resta con me …» ripeté con il suo visetto da cucciolo smarrito «Ti prego».
«Ho l’esame domani …». Silvia lo sapeva, se lo ricordava, ma aveva così tanta paura quella notte, così tanti incubi che sembravano volerla tormentare. Si trattenne dall’implorarla di nuovo, ma cercò ansiosa la sua mano e si strinse attorno ad Alice. Dopo alcuni istanti cominciò ad accarezzarle la schiena, disegnando varie figure con le dita e guardando curiosa le forme del suo corpo: la spina dorsale con le sue colline, le scapole, le spalle grandi e forti …
«Silvia.» mormorò assonnata Alice in segno di ammonimento. La ragazza si bloccò subito, sospirò piano e tenendo stretta la mano di Alice si raggomitolò su se stessa cercando di addormentarsi. Sentì l’altra muoversi e le sue labbra sulle sue. «Dormi. Ci sono io».
C’era sempre Alice a salvarla, sempre lei a coccolarla.
Mormorò piano un “grazie”, sul punto di scoppiare in lacrime per quanto l’amasse, le fosse grata, la volesse per sempre. Solo e solamente sua. Fece una preghiera per il suo esame di domani e poi finalmente cadde fra le braccia di Morfeo con un pensiero in bocca: Ti voglio, Alice. Ti voglio.


La luce le inondava il viso, Silvia aprì pian piano le palpebre, si girò pensando di trovare il volto spettinato di Alice ad accoglierla. Lei non c’era. Si svegliò tutto d’un colpo e si tirò su di scatto barcollando per il brusco risveglio.
«Non ti hanno mai detto» il cuore di Silvia cominciò ad accelerare «che non ci si alza di scatto la mattina?». Era la sua voce allegra, la sua risata. Corse ad abbracciarla. Alice la guardò stupita, ma poi con la mano libera dalla spatola le accarezzò piano la testa. Ed erano così rari questi gesti di affetto di Alice che Silvia aveva paura persino di respirare, pur di non rompere quel momento.  La ragazza si scostò poco dopo, per poi tirarsi dietro Silvia per un braccio fino alla cucina.
«Ti vanno i pancake?» Silvia annuì e sedutasi a capotavola con le gambe incrociate si mise un pancake nel piatto. Guardava distratta le pareti della casa di Alice; c’erano molte foto sue e di suo padre. I suoi erano separati; un amore finito durato più a lungo del dovuto, solo per dovere nei confronti dei figli. In alcune immagini compariva anche il fratello, Davide; aveva diciannove anni e Alice lo adorava. Sembravano tutti così felici in quegli scatti rubati al tempo.
«Alice, quando hai detto che torna tuo papà?» chiese mentre giocava con il pancake nel piatto.
«Domani mattina; abbiamo ancora molto tempo per noi …» rispose con un sorriso per poi guardare preoccupata l’orologio. «Tu che fai? Torni a casa stamattina? Vuoi un passaggio in motorino?»
«Opto per il passaggio, grazie!»
«Allora si parte ora!» disse Alice allegra infilandosi le scarpe. Scesero di corsa le scale, dopo aver chiuso la porta. Silvia prese titubante il casco che l’altra le stava porgendo e salì dietro ad Alice allacciandosi stretta a lei. Dio, fa’ che non muoia oggi. Pensò.
Tenne chiusi gli occhi per tutto il viaggio, concentrandosi soltanto sul corpo di Alice, fiduciosa. Alla fine dopo aver attraversato mezza città arrivarono di fronte alla casa di Silvia.
«Grazie. In bocca al lupo per l’esame … » mormorò Silvia ancora intontita dal viaggio, meno baldanzosa adesso che si trovava fuori dalle mura sicure.
«E non me lo dai un bacio di buona fortuna? chiese scherzando Alice.  Silvia si guardò le punte delle scarpe, con le orecchie in fiamme alzò di scatto il capo e poggiò veloce le labbra su quelle dell’altra. Alice sorpresa assaporò quel casto bacio, trattenendo a stento l’impulso di morderle il labbro. Si tratteneva sempre con la sua piccola Silvia; sembrava che anche una folata di vento potesse sconvolgerla e sapeva quanto anche quel piccolo bacio le provocasse il più intenso imbarazzo.
Con la testa leggera Alice fece per voltarsi e ripartire, a bloccarla però ci fu uno sguardo nero di odio: una donna che supponeva essere la madre di Silvia le fissava da dietro la finestra.  Non sapeva nulla di loro. Osservò la sua ragazza felice seguire curiosa il suo sguardo.
Cadde di mano il casco a Silvia, cadde di mano la sua intera vita. Si mise a correre verso la madre, ma trovò la porta chiusa a chiave. Provò disperata a bussare, a battere su quella muraglia di legno che una volta le era stata amica. Sotto lo sguardo triste di Alice continuava a battere i pugni.
Una finestra poi si aprì, una ragazzina magra si affacciò. «Silvia, la mamma non ti vuole vedere. Ha detto che non sei più sua figlia e che sei un ab, ab» si interruppe, si voltò verso l’interno della stanza per chiedere aiuto alla madre, probabilmente «abominio contro natura!».
Silvia ormai in ginocchio, senza fiato neppure per respirare aprì la bocca e quasi sussurrando chiese: «Ho ancora una sorella?»
La ragazzina non ci pensò neanche un secondo e con la fiducia cieca dei bambini rispose: «No. Niente gente come te nella nostra famiglia. Vero, mamma?»
Le ultime parole si persero, al diavolo l’esame, al diavolo tutto lì c’era la sua Silvia che piangeva. Alice le si avvicinò piano, ma per la prima volta la ragazza indietreggiò con le mani sulle orecchie, come a volersi proteggere dal mondo; fece qualche passo per poi crollare di nuovo sulle ginocchia raggomitolata in un angolo della strada. Alice cercò di scuoterla, di convincerla ad alzarsi, ma per andare dove? Il suo luogo più sicuro, il suo rifugio era svanito, distrutto. Aveva gli occhi persi; aveva gli occhi tristi Silvia.
Alice fece per abbracciarla, ma come una scossa arrivò il tremito di Silvia: aveva paura di lei, la sua ragazza aveva paura di lei ora, perché se non vieni accettato dalla tua famiglia, dal suo stesso Paese, dalla religione che accolse tutti, anche gli esclusi, dimmi tu come puoi sentirti giusto. Né Dio, né tua madre ad ascoltarti. Solo il cuore che scoppia. È vita questa?
Alice le si sedette accanto, aspettando che smettesse di piangere. Più accennava a smettere, più d’improvviso ricominciava più forte attirando l’attenzione dei passanti che, o per tatto o per menefreghismo, non le si avvicinavano.
«Io ho paura di me stessa.»
Silvia stava con una ragazza. Era quella “a” che la terrorizzava a morte e le rendeva difficile respirare. Aveva deluso tutti. Le girava la testa; le sembrava che il mondo le avesse giocato il peggiore tiro in assoluto: l’aveva creata difettosa. Amava. Ciò era bene. Amava una ragazza. Ciò era male.
Senza neanche rendersene conto Silvia si ritrovò raggomitolata fra le braccia di Alice, a chiedersi perché lei ci fosse, quando le sue due guide l’avevano lasciata sola.
«Siamo sbagliate, Alice. » Silvia la sentì fremere di rabbia, senza scogliere però l’abbraccio.
«Non è così.» mormorò con voce rotta.
«Allora perché se io adesso ti baciassi, tutti mi guarderebbero male?» la guardò con gli occhi grandi in cerca di conferma, senza trovarla: lo sguardo di Alice era limpido e tranquillo, sembrava chiederle di crederle. Non c’è nulla di male in noi. Nulla di strano o sbagliato.
Rimasero lì abbracciate con le schiene sul muro. Rimasero lì a vedere il sole salire sempre più alto nel cielo fino a che non si alzarono e raccolsero i caschi da dove li avevano lasciati.  Veloci fino a casa di Alice.

 «Io non voglio essere lesbica.» mormorò Silvia distesa sul divano.
«Silvia, non ti butto in faccia l’acqua solo perché la voglio bere.» disse Alice con il bicchiere in mano «Non si tratta di una scelta; non è che da un giorno all’altro hai deciso di essere lesbica, non è qualcosa che puoi cambiare. Puoi mimetizzarti, puoi fare finta di essere dell’altra sponda. E nascondere la tua vera natura. Non si sceglie di essere omosessuali; quale persona sana di mente vorrebbe essere discriminata? Si sceglie di far finta di essere “guariti”, perché una persona saggia preferisce essere trattata con rispetto, niente prese in giro, rifiuti, dolori inutili. Stupidi pregiudizi.»
«Vorrei tanto che ci trattassero come tutti.»
«E questo accadrà. Ed è per questo che non dobbiamo nasconderci nelle nostre case. » mormorò con dolcezza Alice «È per questo che dovremmo baciarci davanti a scuola, come tutti. Tenerci la mano come tutti. Essere trattati da esseri umani.» Ci fu un luccichio negli occhi di Alice, prese per mano Silvia. «Vieni!» Le fece salire le scale fino al tetto. «Urla!»
«Cosa?!»
«Così! Io amo Silvia!» gridò Alice alla città.
Silvia si voltò dall’altra parte con il corpo in fiamme. «Sei fuori di testa.»
«Completamente!» assentì l’altra ridendo.
Soffiava il vento quel giorno e disperdeva quelle loro parole in attesa di orecchie amiche.

  
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