Storie originali > Fantascienza
Segui la storia  |       
Autore: Ser Balzo    06/06/2014    6 recensioni
È il 1920. O il 1914. O il novembre del 1917. Siamo in Francia. O in Siberia. O da qualche parte vicino Gorizia.
Dovunque si guardi, il mondo è in guerra. E non sembra esserci una fine.
Uomini, donne, bambini, animali, mostri, macchine, fantasmi, angeli e diavoli. Ognuno ha la sua storia, ma per raccontarle tutte non basterebbero un milione di anni.
Tutti ci hanno provato, a far sentire la loro voce. Qualcuno ci è riuscito. Se lo meritava? Non ha importanza. Perché in trincea non è Dio a decidere, ma l'uomo. E la sua grande, fedele amica.
Benvenuti, signori e signore, in quest'epoca di conflitto senza fine, dove i confini sono diventati crateri, dove la Morte regna incontrastata e la Speranza cerca ogni giorno di sopravvivere.
E da qualche parte, qualche volta, contro tutto e contro tutti, addirittura vince.
Toglietevi il soprabito, mettetevi comodi e, soprattutto, non abbiate paura: nell'abbraccio della Grande Madre Guerra c'è spazio per tutti.
Genere: Avventura, Azione, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




L’angelo di Verdun

 

 

 

Quella mattina, come tutte le altre del resto, è il tenente Monet a svegliarmi, con la grazia e la cortesia che contraddistingue gli ufficiali del Corpo degli Zuavi della Repubblica.

«In piedi, coglione di un canadese: oggi si balla!»

Il tenente Gaspard Jean-De-Dieu Monet è un paradigma vivente, l’incarnazione di tutti gli ideali, le bassezze e i maligni luoghi comuni di quel calderone di folle e ribollente utopia che è ed è sempre stata l’Unione Patriottica e Socialista delle Comuni di Francia, o più semplicemente la Repubblica, come è universalmente conosciuta. 

Alto, feroce, sciovinista e maleducato, il tenente Monet dichiara di essere figlio del generale Cambronne -  fatto cronologicamente impossibile, ma spiritualmente inattaccabile - e di non avere nulla a che fare con l’omonimo pittore, come ha avuto modo di affermare al nostro primo incontro, sottolineando il concetto con un violento pugno alla bocca dello stomaco. Sembra piuttosto allegro, stato d’animo che di solito è foriero di brutte notizie: nonostante siamo ad un chilometro abbondante dalla linea del fronte, i biplani a reazione Fokker-Mannheimer non dimenticano di venirci a trovare un paio di volte a settimana, porgendo i loro rispettosissimi omaggi teutonici sotto forma di roventi sventagliate di mitragliatrice.

Mi alzo a fatica, la testa annebbiata. Ho passato la notte a giocare al Salto della Comunarda, una versione del poker texano delirante, astrusa e inconcludente, dato che alla fine della partita le regole impongono che il vincitore divida il bottino fra i giocatori, equamente e con nobile spirito socialista. Nonostante questo accorgimento, sono riuscito a perdere comunque un sacco di soldi, con grande gioia di quel furfante del caporale Bertrand.

Prima che riesca a chiedergli cosa stia succedendo, il tenente Monet è già uscito dal bunker scavato nella roccia che usiamo come camerata. Ma prima che finisca di vestirmi, un altro soldato fa capolino nella stanza, abbassando la testa coperta dal classico fez degli Zuavi.

«Ben svegliato, Daniel.»

Il soldato scelto Renard Motierre é l’unico che si dà la pena di pronunciare il mio nome correttamente: questa cortesia, unita alla passione per Debussy che entrambi condividiamo, ha fatto sì che in poco tempo diventassimo cari amici e intimi confidenti.

Renard ha un magnifico sorriso, che in mezzo alla faccia sporca di polvere e fango risulta ancora più radioso, ma quando gli chiedo che cosa stia succedendo la sua bocca è piatta come il mare in bonaccia.

«Il comando ha ordinato l’allerta generale. Forse ci mandano avanti.»

Andare avanti. Quelle semplici parole bastano a snebbiarmi totalmente il cervello. Il panico prende potentemente il controllo dell’organismo. Non sono un soldato: nonostante sia al fronte come corrispondente di guerra da quasi un anno ormai, non ho mai preso in mano un fucile e ho soltanto una vaga idea di come usarlo.

Cercando di controllare il respiro affannoso, esco fuori dal bunker, chinando la testa per non sbatterla contro il basso soffitto roccioso. Fuori, il mondo è parzialmente nascosto da una fitta nebbia, assai inconsueta per questa stagione dell’anno. Il terreno brullo e pietroso della Collina 112,  il timido rilievo sul cui fianco ci troviamo, digrada lentamente verso il basso, scomparendo nel nulla dopo un centinaio di passi. Più in alto, lì dove il banco di nebbia non riesce ad arrivare, il cielo è velato da un sottile ed oleosa cortina fumosa, che sopprime i raggi del sole nascente e trasmette uno sporco bagliore grigiastro. In questa grande e terribile guerra che procede ormai da sei lunghi anni, neanche il bel cielo di Francia è al sicuro dai freddi artigli del nemico.

Un silenzio inquietante avvolge la nostra postazione. Il ronzio degli aeroplani è assente, il rombo possente dell’artiglieria giunge ovattato, gli spari sono lontani e a tratti impercettibili.

Gli uomini sono già ai posti di combattimento, i fucili appoggiati sul parapetto della trincea. Allo scoppio della guerra questi Zuavi dovevano essere un vero splendore, con i larghi pantaloni scarlatti, la giubba blu e la bronzea e scintillante piastra pettorale. Ora sono magri, coperti dal fango e dai pidocchi, ma basta incrociare i loro occhi per qualche istante per capire che il loro spirito combattivo non è mai venuto meno. Sono i migliori soldati che la Repubblica possa schierare, e lo sanno bene. Combatteranno fino alla morte: non potrei essere in mani più affidabili e capaci.

Il tenente Monet si guarda intorno con aria nervosa. Come ogni bravo soldato che si rispetti, è inquietato da questo silenzio innaturale e prolungato.

«Mathieu, comunicazioni?» sbotta seccamente il militare, rivolto al magro radio-corriere del plotone.

«Niente, signore. Calma piatta» borbotta il soldato in risposta, chino sul suo zaino comunicatore. Gira un paio di manopole e preme qualche pulsante, ma ottiene in risposta solo un ronzio statico.

«Merde» ringhia il tenente, in piena sinergia con il suo napoleonico antenato spirituale.

L’imprecazione viene inghiottita dalla nebbia, che si protende silente ma inesorabile. Per qualche minuto non si sente volare una mosca.

Poi, improvviso, gelido e maestoso come un cavallone del Mare del Nord, un urlo di guerra terrificante si infrange contro le mie orecchie.

«Ai vostri posti! Non sparate fin quando non ve lo dico!» grida con la sua voce possente il tenente Monet.

Si odono gli schiocchi dei percussori, mentre gli Zuavi armano i loro fucili. Non un’imprecazione, né un lamento: il tenente e i suoi uomini sono pronti a dare al nemico il benvenuto che si meritano.

Passa qualche istante di interminabile ansia, dove percorro la linea del banco di nebbia con angoscia ed eccitazione.

E finalmente arrivano.

Bucano la coltre di nebbia come un muro di cotone, aprendo varchi sfilacciati nel tessuto incorporeo di vapore condensato. Si lanciano in avanti, le baionette inastate, le punte dell’elmetto prussiano che ondeggiano ossessivamente al ritmo della carica.

Gli Zuavi sono delle statue viventi. Il tenente Monet solleva una mano, gli occhi fissi sul nemico.

Sempre più uomini escono dalla nebbia. Sono tanti, veramente tanti. Un’ondata infinita. Indietreggio istintivamente, appoggiandomi alla parete del bunker. Sono troppi. Ci faranno a pezzi.

Mi vedo ormai perduto. 

Ma non ho fatto i conti con l’audacia e la disciplina dei miei valorosi alleati.

«Fuoco!» grida il tenente Monet, abbassando di scatto il braccio. Con uno scoppio e un crepitio assordante, la scarica dei fucili balena nell’aria mattutina, viaggia rapida con un sibilo mortale e s va a schiantare contro le file degli attaccanti. I fanti tedeschi cadono fulminati a manciate, mentre i loro fucili vengono proiettati in avanti per l’inerzia della carica.

«Deutschland! Deutschland über alles!» gridano disperati i soldati all’attacco.

«Fuoco a volontà!» risponde il tenente Monet.

Una seconda raffica avvampa nella trincea: altri uomini cadono a terra, rotolano in mezzo ai sassi e vengono calpestati dai commilitoni che li seguono. Gli Zuavi sparano ancora, poi ancora una volta: le loro salve mortali spezzano l’impeto della carica nemica, costringendo il nemico ad acquattarsi fra le poche rocce abbastanza grosse da nasconderli per tirare raffiche brevi e imprecise.

«Continuate a sparare! Non dategli un attimo di tregua!» La voce del tenente Monet sembra fatta apposta per essere utilizzata sul campo di battaglia, limpida e così possente da sovrastare il frastuono degli spari.

Lo scontro sembra ormai finito. I soldati tedeschi ormai sparano solo per allentare la pressione sulle loro posizioni;  molti rompono le righe e ritornano nella nebbia da cui sono spariti.

Alla quindicesima raffica, il tenente ordina di cessare il fuoco. Il silenzio cade di nuovo sulle trincee. Il campo davanti a noi è cosparso di cadaveri. Sebbene in inferiorità numerica, siamo riusciti a respingere l’attacco nemico.

Gli Zuavi non esultano. L’entusiasmo sciocco e ingenuo è per la fanteria comune: loro sono il meglio del meglio. Non hanno bisogno di festeggiare la vittoria: il tappeto di cadaveri davanti a loro è l’unica soddisfazione di cui hanno bisogno.

Ma anche quegli uomini hanno qualcosa che li spaventa. Qualcosa che è depositato come uno strato limaccioso sul fondale dell’animo di ogni uomo, che l’era dei lumi e della ragione ha tentato di sradicare come una pianta velenosa, senza riuscirci del tutto. E quando il suono di un corno talmente basso da sembrare provenire dalle viscere della terra si alza dalla nebbia, i migliori soldati della Repubblica vengono scaraventati indietro di milioni di anni, quando nelle notti senza stelle qualcosa si muoveva proprio al confine della zona di luce del loro piccolo fuocherello.

Sanno cosa sta arrivando. Lo so anche io, perché parte del mio tempo al fronte l’ho speso raccogliendo testimonianze al riguardo da sparuti sopravvissuti sull’orlo della follia negli ospedali da campo disseminati su tutto il fronte.

Per un attimo, nessuno di noi ci vuole credere. Ma quando i loro stivali corazzati fanno il loro ingresso trionfale calpestando la terra come un gigante norreno, sappiamo tutti come andrà a finire.

Moriremo tutti, dal primo all’ultimo. Perché é questo il destino di chi incontra i Granatieri Morti.

Un tempo erano soldati anche loro: tedeschi o alleati, non aveva importanza. Quando la polvere dello scontro si era posata, i Kriegbestatter dei corpi logistici calavano sul campo di battaglia come corvi, sceglievano i corpi più promettenti, vivi o morti che fossero, li caricavano sui grandi e lugubri Carri Neri e li portavano via. Quegli uomini sparivano nell’oblio e tornavano qualche mese dopo, serrati nei ranghi dei Toten-Grenadier. Abominevole connubio di uomo, macchina, diesel e vapore, i Granatieri Morti non dormono, non mangiano, non parlano e non hanno paura: ogni traccia di umanità è stata strappata loro, sostituita da una ghignante e inespressiva maschera antigas a foggia di teschio umano.

Anche il tenente Monet rimane qualche istante senza parole, ma il suo istinto guerriero prende rapidamente la situazione in mano.

«Uomini del battaglione zuavo, il destino rivoluzionario ci fa un grande regalo! Il nemico ci lancia contro i migliori soldati che ha da offrirci: rimandiamoli a Berlino a calci nel culo!»

Questa volta, gli uomini gridano. Di fronte a quella valanga di morte vivente che avanza, hanno bisogno di sentire il loro cuore caldo pulsare nel petto.

I Toten-Grenadier avanzano a passo di marcia, i fucili puntati in avanti, grotteschi automi corazzati spinti in avanti da una ferrea e imprescrutabile volontà.

«Fuoco!»

La salva degli Zuavi è devastante come sempre. I proiettili impattano contro le corazze pettorali d’acciaio. Alcuni Granatieri si accasciano a terra, ma sono terribilmente pochi.

«Continuate a sparare! Buttateli giù!»

Il fragore delle raffiche spazza le trincee ad intervalli regolari. La precisione delle truppe scelte francesi è impareggiabile, ma contro un nemico del genere la loro disciplina vale ben poco.

Ad un centinaio di passi dalla trincea, i Toten-Grenadier aprono il fuoco. I loro proiettili fischiano dappertutto, rimbalzano sulla roccia, affondano nella terra, squarciano la carne e spaccano le ossa. Mi butto a terra, appiattendomi il più possibile contro il terreno, impotente e terrorizzato.

«Pierrault! Pierrault!»

Solo dopo un paio di volte che lo sento urlare mi rendo conto che è il mio cognome. Alzo la testa dalla polvere: il tenente Monet si stringe un braccio, la manica della giubba zuppa di sangue.

«Pierrault, fottuto canadese, vada al ripetitore e dica al caporale Jollie di chiedere supporto immediato!»

Sto per chiedere spiegazioni, quando vedo il soldato Mathieu riverso nella polvere, lo zaino comunicatore crivellato dai proiettili. L’apparecchio era direttamente collegato al ripetitore Tesla posto in cima alla Collina 112: senza di esso, occorre andare direttamente alla fonte per lanciare un messaggio.

Con il cuore che batte all’impazzata, comincio a strisciare carponi nel fango della trincea. I Granatieri sono sempre più vicini: un vero uragano di proiettili si abbatte sulle nostre postazioni.

Uno Zuavo cade a terra, il volto sfondato da un proiettile. Chiudo gli occhi a quella vista grottesca, e continuo nella mia pietosa avanzata.

Al fragore degli spari si aggiungono i grugniti, i tonfi sordi e il cozzare dell’acciaio contro l’acciaio. I Toten-Grenadier sono ormai dentro la trincea.

Qualcosa atterra con un gran tonfo davanti a me. La prima cosa che riesco a vedere sono due paia di grossi stivali neri e degli schinieri d’acciaio. Sollevo lentamente lo sguardo, e il sangue mi si ghiaccia nelle vene.

Un Granatiere troneggia su di me, entrambe le mani strette intorno all’impugnatura di una gigantesca spada. Il soldato non morto solleva la terribile arma, pronto a spaccarmi a metà come una noce di cocco. Vedo già la lama calare sulla mia fronte, ma appena prima che il Toten-Grenadier possa sferrare il suo micidiale fendente, uno Zuavo si getta contro di lui con tutto il suo impeto, facendolo crollare rovinosamente nel fango. Le due figure rotolano avvinghiate in una lotta senza quartiere. Le enormi mane guantate del Granatiere si stringono attorno al collo del soldato francese, ma l’uomo afferra il pugnale che il suo nemico porta appeso al fianco e lo affonda nell’orbita della sua maschera antigas. Un urlo agghiacciante, più simile allo stridio del metallo che ad una voce umana, si propaga dal volto martoriato della creatura. Lo Zuavo estrae il coltello e lo pugnala una seconda volta, facendo affondare la lama fino all’impugnatura. Il Granatiere viene sconvolto da uno spasmo nervoso, poi si accascia pesantemente addosso al suo uccisore.

Colmo di gratitudine e paura in egual misura, aiuto lo Zuavo a liberarsi dal peso del suo assalitore.

Non appena vedo il suo volto, lo stupore illumina il mio volto.

«Grazie infinite, Daniel.»

Renard, il mio caro amico, mi ha appena salvato la vita. I miei impacciati ringraziamenti si perdono nel caos dello scontro.

«Lascia stare, Daniel!» esclama sorridendo, mentre raccoglie il fucile. Poi mi afferra per la camicia e mi tira giù bruscamente. Una raffica di mitra crivella la parete di roccia alle nostre spalle.

Con le mani premute sulla testa come se quel patetico gesto bastasse a proteggermi dalle pallottole, riferisco a Renard il compito che mi ha affidato il tenente Monet.

«In tal caso, verrò con te. Tieni la testa bassa e stammi dietro, saremo in cima in men che non si dica!»

Il fango si appiccica sulla suola delle mie scarpe, rendendomi estremamente lento e goffo. Renard avanza con il fucile spianato, pronto a respingere qualunque nemico osi sbarrarci il passo. Ma mano mano che saliamo, la presenza degli assalitori si fa sempre più rada: i Granatieri paiono aver concentrato l’attacco là dove la presenza degli Zuavi era più forte, il che va contro ogni logica strategica. Esprimo i miei dubbi a Renard, che liquida la mia preoccupazione sottolineando la mancanza di intelligenza dei Toten-Grenadier. Ma dal suo tono di voce capisco che anche a lui i conti non tornano.

L’antenna del ripetitore Tesla si erge dalla cima della Collina 112 come un affusolato parafulmine. Archi bluastri di energia statica percorrono la struttura in tutta la sua lunghezza, prima di scomparire con un sordo ronzio una volta arrivati in cima. La stazione di trasmissione è giusto sotto l’antenna, in una piccola stanza scavata nella roccia e chiusa da una rozza porta di legno.

Una porta che ciondola sul suo asse, infranta e semiscardinata.

Il sudore sembra ghiacciarsi sulla mia pelle. Lancio uno sguardo spaventato a Renard, che mi fa segno di tacere, solleva il fucile e si avvicina in punta di piedi all’ingresso della stazione. Cercando di fare il meno rumore possibile lo seguo come un cucciolo di anitra, ma ad ogni passo mi sembra di fare un baccano infernale.

La stanza è buia e vuota. I grossi macchinari di decrittazione ingombrano quasi tutto lo spazio. Il caporale Jollie è chino sull’apparecchio di trasmissione. Indicando la porta gli chiedo se vada tutto bene, ma l’uomo non risponde. Attribuendo la mancata risposta alle grosse cuffie che il soldato ha premute sulle orecchie, mi avvicino e gli tocco la spalla.

Con un disgustoso rumore di strappo appiccicaticcio, la testa del soldato cade a terra, recisa perfettamente all’altezza del collo. La potenza del mio urlo viene moltiplicata dalle pareti di pietra, trasformando la mia voce in un’esplosione assordante. Faccio per girarmi verso Renard, quando un’altro urlo, più stridulo e animalesco, prorompe nuovamente dalle mie labbra.

Qualcosa è appostato nell’ombra, proprio dietro le spalle del mio amico. Qualcosa di alto, sottile e assolutamente spaventoso. La cosa tende le braccia scheletriche verso Renard, e la luce proveniente dalla porta sfondata illumina le sue dita: una selva di lunghe lame affilate come un rasoio.

Il mio amico non ha il tempo di capire cosa succede: avvertito dal mio grido, si tuffa di lato con un prodigioso colpo di reni, mentre gli artigli dell’abominevole essere affondano nel vuoto. Ho il tempo di scorgere due ottiche circolari rosso scarlatto, prima che la creatura fugga fuori dalla porta, sostenuta da sottili trampoli d’acciaio.

Renard spara qualche colpo, ma nessuno riesce a raggiungere il bersaglio.

Cercando disperatamente di non rigettare la cena del giorno prima sul pavimento, chiedo al mio amico Zuavo se conosca la terribile diavoleria che ha appena cercato di ucciderlo.

«Non ne ho idea» risponde mentre ricarica il fucile «Ma ogni tanto si sentono storie, tra i soldati. Spettri che si aggirano fra le ombre. Assassini implacabili che sterminano interi plotoni. Terrificanti aberrazioni create in nome del progresso tecnologico. Si dice che gli stessi soldati tedeschi abbiano paura di questi mostri loro alleati.» Renard sputa per terra tutta la sua frustrazione. «Fottuti bastardi.»

So bene a chi si riferisce. Dalla loro nascita nel 1918, le industrie Dampfaust hanno iniziato una produzione in massa di geniali e terrificanti macchinari da guerra, capaci di rendere gli innovativi carri inglesi Mark I dei veri e proprio pezzi da museo. Proprio quando la guerra stava vergendo ad un punto di rottura, il Reich tedesco è risorto dalle proprie ceneri, portando il conflitto ad una nuova scala di devastazione. Molti sostengono che senza l’intervento del conte Vergessen e delle sue geniali invenzioni, la Duplice Alleanza avrebbe perso la guerra ormai da molto tempo. 

Improvvisamente, rammento il motivo per cui siamo arrivati fino in cima alla collina. Vincendo il ribrezzo, tolgo le cuffie alla testa senza corpo del soldato e le indosso. Una babele di urla, gemiti e imprecazioni mi lascia spiazzato per qualche istante.

«Siamo sotto attacco, ripeto, sotto attacco...»

«Stiamo finendo le munizioni, il colonnello è stato ucciso...»

«...immediati rinforzi, ripeto, immediati rinforzi!»

«...la ridotta è caduta, sono dappertutto!»

«...non riusciamo a fermarli. Che Dio ci aiuti.»

Il battito del mio cuore sembra essere sparito, mentre mi tolgo lentamente le cuffie. Il fronte alleato è sotto attacco, ed è sul punto di cedere. L’intera offensiva è sull’orlo del baratro.

La Germania sta per vincere la guerra.

«Daniel!»

Renard è uscito dalla stanza. Mi sento la testa leggera, come se fosse staccata dal resto del corpo. È un altra persona a muovere le mie gambe, mentre io resto a guardare, lontano da tutto questo.

Quando attraverso la porta sfondata, la luce per un attimo mi impedisce di distinguere chiaramente quello che sta succedendo. Ci vuole qualche istante perché gli occhi si abituino.

E lo spettacolo che si svela dinanzi ai miei occhi è semplicemente terrificante.

La nebbia è scomparsa, rivelando la grande pianura martoriata dalla guerra. Lontano, le linee alleate e quelle tedesche si scontrano l’una contro l’altra con violenza inaudita, punteggiate dalle figure torreggianti dei Colossi da Guerra: le Torri d’Acciaio Renault duellano con i Reisen-Krieg Dampfaust, mentre i più piccoli Jägerschreck tempestano di colpi i carri FT-19. In alto nei cieli, gli Albatross-Combine e gli Hercules sono avvinti in un duello mortale con i Fokker-Mannhaimer e gli Zeppelin corazzati.

Ma un simile scenario non è nulla se paragonato a quello che si svolge a poche centinaia di metri da noi: i Toten-Grenadier sono dappertutto, una impenetrabile muraglia di acciaio e corpi mesmerizzati. Risalgono il pendio, lenti ma inesorabili. Con una fitta di panico così dolorosa da farmi piegare in avanti, realizzo che io e Renard siamo gli unici sopravvissuti.

«Nasconditi» mormora il mio amico Zuavo «io li distrarrò.»

È inutile. I Granatieri Morti mi cercheranno e mi troveranno. Mi infileranno nei Carri Neri e mi risveglierò nelle loro fila, senza memoria di quello che ero un tempo.

Sento le lacrime spingere prepotentemente, desiderose di potersi liberare. È la fine. Non tornerò mai a casa. Con tutti i morti che questa guerra ha causato, era inevitabile che prima o poi finissi anche io nella interminabile lista dei caduti. Sono così sconvolto che non sento il fischio penetrante dell’artiglieria squarciare i cieli massacrati dalla guerra. Renard mi strattona, urla qualcosa.

E, improvvisamente, tutto diventa luce.

Una forza impressionante mi solleva, soffiandomi addosso il suo respiro infuocato. Non posso fare altro che galleggiare nel vuoto, privo di qualunque arbitrio, in attesa che il Tristo Mietitore venga finalmente a prendermi. Non sento neanche dolore quando il duro terreno mi colpisce con forza, strappandomi quell’ultimo brandello di fiato che era rimasto nei miei polmoni. Non sento niente, soltanto un acuto fischio penetrante.

Per un lasso di tempo al di fuori della normale comprensione umana, giaccio come una statua di bronzo abbandonata negli abissi. Il mio corpo non risponde, la mia mente è vuota. Mi dimentico il mio nome, la mia storia, i miei errori, le mie speranze. Il passato e il futuro non hanno più senso. Tutto è buio, silenzioso, quieto. Mi scopro desideroso di perpetuare questo stato di immobilità, di rimanere per sempre così, chiuso nel mio bozzolo di nulla cosmico. Ma qualcosa, come un granello di polvere luminosa, riesce a filtrare dentro di me. Scende lentamente, emanando la sua pallida luce palpitante. Con una grazia e una delicatezza infinita, si poggia sul mio cuore.

Ed è in quel momento che apro gli occhi.

In principio vedo solo bianco: un bianco odioso, aggressivo e bruciante. Voglio chiudere gli occhi, tornare nell’oblio, ma poi qualcosa si frappone fra me e la luce. Il suo profilo slabbrato prende lentamente forma, rinsaldandosi e ispessendosi. È una persona, un essere umano, coperto da una complessa sovrarmatura metallica. In mezzo al volto tondo, due occhi verdeoro, uno dei quali parzialmente nascosto da una ciocca sfuggita al rigido chignon con cui si è legata i capelli rosso fuoco, mi fissano con implacabile compassione. È uno sguardo duro, ma di una durezza virtuosa e giusta. 

Mi tende una mano. Le sue labbra si muovono, ma non riesco a percepire le sue parole. So chi è, o meglio che cosa è: ho visto quelle armature qualche mese prima, al campo alleato di Dunkirk. Squadrone Rapido Tattico Corazzato, è la denominazione ufficiale degli uomini che le portano: ma i soldati di una decina di nazioni diverse, quando sono immersi nel fango, circondati e a corto di munizioni e li vedono improvvisamente arrivare, piombando giù dal cielo, li chiamano con un altro nome.

Angeli.

Ed è quello che la mia mente grida, quando la mia mano ferita si tende spasmodica verso la mia salvatrice. Perché non è una donna quella che ho di fronte, circondata da una luce accecante di gloria manifesta. Non è una donna quella che seguirei dovunque, fin dentro le fauci di questo mondo impazzito, per cui ucciderei chiunque, io, inutile e patetico essere umano. 

È un angelo.

L’angelo di Verdun.
























L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Dopo aver passato cinque giorni dietro una storia di zombie che doveva essere di 3500 parole ed è venuta fuori di dodici pagine e assolutamente insoddisfacente, mi son detto che non tutto il male veniva per nuocere, e che la bruciante sconfitta mi avrebbe tenuto lontano dalle mie velleità scribacchiatorie per un po' di tempo, consentendomi di studiare un pochino deppiù. Il giorno dopo ero già a metà di questo racconto, e ne avevo incominciato un altro che dovrebbe partecipare ad un contest sul forum di EFP.
Insomma, sono cretino.
Comunque sia, i più avveduti di voi (e che sono andati al cinema di recente) avranno capito da dove è venuto fuori il titolo di questo racconto: Rita Vrataski, l'Angelo di Verdun, è la fantasorc... il personaggio femminile del film Edge of Tomorrow, interpretata dall'elegante e assolutamente insospettabile Emily Blunt (che tutto ti aspetteresti tranne che prenda a spadate gli alieni). Mi affascinava il nomignolo di questa tostissima soldatessa: accostava un termine beato e rassicurante come "angelo" ad un terrificante massacro quale è stata la battaglia di Verdun  (che sebbene non sia stata la più sanguinosa della prima guerra mondiale detiene il triste record di maggior morti per chilometro quadrato). Volevo anche io il mio angelo di Verdun (che nelle mie patetiche fantasie ha il volto di Karen Gillan, il cui facciotto innocente creerebbe un magnifico contrasto mentre scatafragna crucchi a mucchioni), e ho deciso di piazzarlo in un'alternativa Grande Guerra dai toni apocalittici e steampunk (in realtà il termine esatto dovrebbe essere dieselpunk, ma con queste sottoculture non si capisce mai una ceppa), a scendere dal cielo per salvare il povero sfigato di turno. 
Oltre al personaggio del film, la storia si ispira ad una leggenda della prima guerra mondiale, secondo la quale un gruppo di soldati inglesi in esorbitante inferiorità numerica vennero salvati da da un'armata fantasma degli arcieri di Agincourt, guidati da San Giorgio (o una robba del genere). La storia venne raccontata con toni estremamente pompati da un giornalista inglese, famoso per ricamare sopra le sue storie con grande leziosità. Ecco perché il protagonista è un giornalista (un po' meno pomposo del suo corrispettivo storico), ed ecco anche perché la storia è narrata in prima persona presente, che di norma fuggo come la peste: volevo che suonasse come un reportage, e che desse un tono un po' retrò (sulla falsariga dei racconti di avventura vittoriani, visto che stiamo in steam-disel-quellochevolete-punk mode on) al tutto. Il che probabilmente verrà fuori come una mezza schifezza, ma devo dire che mi sono abbastanza divertito a scriverlo.
Vabbuò gente, come sempre spero che gradiate le mie farneticazioni. Tante care cose, non fate tardi per giocare al Salto della Comunarda e a presto!

 

  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: Ser Balzo