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Autore: Anor    06/06/2014    0 recensioni
Sono sei anni che Giuliano lavora per Salvatore, immerso nella fredda atmosfera di una sala completamente bianca. Sei anni in cui occhi di vetro lo fissano, in cui persino i pasti sono impregnati dell'aspro odore di formaldeide.
PRIMA CLASSIFICATA AL CONCORSO "RACCONTI DI SCIENZA OMAGGIO A PRIMO LEVI"
Genere: Generale, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Metanale
«Ago e filo da sutura».
«Trocar».
Ecco: questo è il momento in cui, dopo sei anni di onorata carriera, ancora mi volto per evitare i conati di vomito. Finché si tratta di ricucire i fori d’ingresso delle siringhe a pressione e degli aghi lunghi posso anche dare una mano materiale a Salvatore, ma quando procediamo all’estrazione degli organi molli con trocar e aspiratore è più forte di me, mi allontano e vado a perfezionare la colorazione dei globi oculari nella stanza attigua. Quando entro nella sala, una cinquantina di paia di occhi mi fissano: sensazione orribile, ma sempre preferibile al continuo gocciolare di fluidi e tessuti raggrumati nella sacca trasparente dell’aspiratore. Sto lavorando agli occhi del daino femmina che Tore, di là, sta ripulendo per completare l’imbalsamazione. Ebbene sì, questo è quello che faccio —con poco entusiasmo— ormai da anni: aiuto un folle abbastanza ricco da pagarmi stipendio e pasti a ripulire cadaveri animali per l’ampliamento della sua ormai enorme raccolta di cadaveri artistici.
Dipingere gli occhi è un lavoro difficile: non si sa mai come questi risulteranno sull’animale completo, soprattutto se è un erbivoro. Io faccio sempre e solo l’iride— infatti, quelli a cui lavoro io, più che occhi sembrano mandorle. Il punto luce dell’occhio è ciò che rende vivo un animale imbalsamato. È la sua anima, dice Tore. Solo l’imbalsamatore può donare un’anima alle sue creature.
«Contenitori».
Automaticamente afferro due larghi vasi di vetro col tappo decorato e li porto di là, e mentre Tore ci rovescia dentro il contenuto delle sacche, io ricucio il foro, a destra sull’addome dell’animale. Ormai lascia fare a me anche fasi delicate come questa, perché con l’esperienza ho assunto la capacità di riunire i lembi di pelle in modo che il segno non si noti, anche se la pelliccia è rada. Tore tira su col naso, mentre inserisce i suoi moderni vasi canopi nel frigorifero espositivo all’ingresso della stanza. «Vado a preparare cena,» dice, «finisci di rammendare Emily».
La cucina assomiglia in maniera disarmante alla sala d’imbalsamazione, non solo per l’atmosfera fredda e bianca in cui è immersa. È l’odore: il continuo e penetrante sentore di formalina che pervade ogni cosa in quella casa, che ormai ha impregnato il mobilio ed il corpo di Tore. È l’odore della morte, l’odore delle auto nuove, l’odore delle mani di Tore. È l’odore che non abbandona il mio naso mentre lavoro e mentre mangio. Tore serve la cena con la stessa sicurezza con cui tratterebbe un cadavere ancora caldo. I tagli della carne sono netti come se li avesse fatti col bisturi, le ricette seguite con la stessa precisione con cui segue la procedura d’imbalsamazione.
«Sai qual è la parte che più mi piace del mio lavoro?» mi chiede.
Lo so, lo so benissimo. «No».
«Il massaggio» dice. Tira su col naso prima di infilarsi tra le labbra gonfie un altro pezzo di carne. «Distribuire la formalina in ogni angolo del corpo, assicurandosi che ogni vaso periferico sia ben irrorato. Vedere il corpo depurarsi dal sangue morto mentre la miscela perfetta di carbonio, idrogeno e ossigeno prende il suo posto, a partire dalla carotide. È una delle parti più soddisfacenti della procedura».
Trattengo uno sbadiglio.
«Ti sto annoiando, mi dispiace». Sorride —io rabbrividisco.
«Comunque,» la sua voce si alza di un’ottava, io trasalisco e mi desto dal torpore in cui sono caduto «ho una notizia fantastica da darti: nella sala trasfusioni sto lavorando a quello che sarà uno dei miei capolavori. Appena finiamo, ti porto a vederlo».
Non sono mai entrato nella sala trasfusioni: è il rifugio di Tore, l’unico posto nel quale m’impedisce di entrare —divieto al quale mi attengo strettamente, non ho voglia di sapere cosa fa Tore laggiù. L’eccitazione che mi pervade mentre supero la soglia non riesce ad alleviare la narcosi che mi ha invaso dopo cena, ma l’odore di formaldeide è talmente concentrato che mi raggiunge come uno schiaffo sul viso. La nausea mi rivolta lo stomaco, la testa gira e lo sguardo mi si annebbia: come al solito, ho mangiato troppo. La stanza non è dissimile dal laboratorio in cui lavoro, dalla cucina e dal resto della casa. L’unica differenza che si nota è l’enorme cisterna metallica al lato della stanza, collegata a diversi tubi trasparenti. E la formalina pura che stiamo respirando. Nella cisterna c’è il liquido da imbalsamazione, che raggiunge un cadavere coperto da un lenzuolo. È lungo, il corpo. Non lo riesco a distinguere: che sia un giovane alligatore? —Ma chi si sarebbe preso la briga di portare un alligatore a far imbalsamare?
«Sai, Giuliano, ho un tumore». Rimango bloccato: perché me lo sta dicendo adesso?
«La formalina è cancerogena». Non aggiunge altro. Io non posso far altro che sbattere le palpebre.
«In vista di ciò», sorride, le labbra gonfie sembrano scoppiare, «ho preparato questo». Indica il corpo, mentre continua il discorso: «sono lieto di presentarti Cristina, quella che sarà la mia seconda miglior opera». Si avvicina lentamente al corpo. «La…seconda?» balbetto. Con marcata teatralità si avvicina al telo e lo strappa via, come se dovesse mostrare un’opera d’arte. Dalla mia posizione tutto ciò che vedo sono un paio di gambe. Lisce, bianche: umane. «Santo Cielo, Tore, ma quello è un cadavere umano! Dio,» mi manca il respiro «chi è il pazzo che ti ha commissionato una cosa del genere?».
«Nessuno. È uno sfizio che mi volevo togliere prima di morire. Una delle due gemme della mia collezione». Ho un capogiro. «Mi sento male», dico. «Ancora non hai visto il viso», risponde. Si scosta: capelli corti e biondi, tinti. La permanente. Un viso segnato dall’età. «T-tua madre? Dio, mi dispiace, non sapevo che fosse morta».
«Infatti». Sogghigna. «È solo sotto sedativi».
«La stai uccidendo» affermo. La voce mi trema, la visuale si oscura. Mi devo sedere. Scivolo con la schiena contro il muro. «Perché?».
«Non voglio che soffra».
Un lampo di preoccupazione mi colpisce: «Quale è la prima?»
Sorride: «Oh, questo immagino che non lo saprai mai».
Il campo visivo si restringe, le luci si abbassano. Sento le palpebre che calano, la testa che si appoggia al muro. La stanza scompare, con l’ombra di una risata.
L’odore di formaldeide è tutto ciò che resta.
   
 
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