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Autore: ManuFury    09/06/2014    5 recensioni
Primo esperimento con le Slash... spero che vi piaccia! ^u^
Dal testo: "Bene, come può notare, io sono un Angelo Nero; ma non ho tradito Dio oppure ho commesso peccati umani come le credenze popolari amano raccontare. Semplicemente sono un combattente incaricato di mantenere l’equilibrio nel mondo degli esseri umani, far sì che i Demoni come quello che ti porti dentro non emergano per diffondere il caos."
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con
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 [Questa storia e il disegno presente nel testo, sono stati ispirati dal Forum di Disegni e Parole]
 


Demin L. Smirnov tamburellava nervosamente le dita sul volante della sua macchina, con gli occhi scuri fissi sul quadrante digital: indicava che mancava appena un minuto alla mezzanotte.
Scattata questa, l’uomo sollevò un bicchierino di carta contenente del caffè ormai più freddo che caldo, come a brindare alla solitudine che regnava nell’abitacolo dell’auto.
“Beh, Demin, tanti auguri.” Affermò sorseggiando la bevanda. Era il suo trentaquattresimo compleanno ed era il secondo peggiore di tutta la storia della sua vita: cadeva nel venerdì diciassette agosto più squallido di tutta la storia, con un cielo plumbeo che minacciava pioggia, e il freddo pungente di Mosca a fargli compagnia di quella serata in cui, ciliegina sulla torta, si era beccato il dannato turno di notte, senza nemmeno vedere l’ombra di un cliente.
Sbuffò, socchiudendo gli occhi e trangugiando ciò che restava di quello schifo di caffè; a differenza di quello che credeva, sembrava che fosse ancora abbastanza caldo, tanto da provocargli un lieve tepore nello stomaco, che andava lentamente a irradiarsi per il resto del corpo. Era piacevole, soprattutto in una serata così fredda.
Sembrava essere una delle migliori cose della sua giornata e quello la diceva lunga sullo squallore che lo circondava. Buttò il bicchierino vuoto sul sedile di fianco e si appoggiò stancamente al sedile della macchina, chiudendo gli occhi scuri con un sospiro basso.
Che due palle! Venderei quasi l’anima per una fottuta sigaretta del…
Il pensiero gli si bloccò a metà quando qualcuno bussò al vetro della sua macchina, facendolo sobbalzare dalla sorpresa.
Si voltò, scocciato da quella brusca interruzione e intravide, tra le oscure ombre della notte, un’alta e slanciata figura, avvolta a sua volta dal nero di un lungo cappotto che gli fasciava il corpo così bene da impedirne di scorgerne i contorni. L’unica cosa che spiccava di quell’uomo, sempre che di un uomo si trattasse, erano gli occhialini da vista: piccoli e rotondi, quasi di un’altra epoca, che davano a quella figura una sensazione, nel complesso, di tetro, ma anche… pericoloso.
E anche qualcosa di famigliare, a parere di Demin, ma era una sensazione meno forte rispetto alle precedenti.
Abbassò il vetro e in meno di un secondo tutti i campanelli d’allarme che aveva in corpo presero a suonare all’impazzata, come a voler sottolineare ancora di più che c’era veramente qualcosa che non andava in quel tizio; ma la verità era che aveva bisogno di clienti e poi, ora che il caffè sembrava aver fatto effetto, non riusciva a stare fermo.
“È ancora in servizio?” Chiese l’uomo con un timbro di voce basso e caldo, mentre si aggiustava i piccoli occhiali sul naso.
“Fino alle sei del mattino, signore.” Rispose l’autista, cercando di scacciare quella sensazione che gli si era attacca addosso come un vestito attillato. Per un attimo, Demin avrebbe voluto dire a quell’uomo che aveva finito il turno e che era lì solo a riposarsi prima di tornare alla rimessa; ma si era ricordato in fretta che, bene o male, al fine turno doveva raggiungere un certo incasso da esibire a quello stronzo del suo capo. E poi, quel tipo poteva essere pericoloso quanto voleva, tanto aveva una pistola nel portaoggetti, abbastanza a portata di mano e se quello tentava scherzi, sapeva benissimo come usarla.
“Bene. Devo andare fin qui, pensa di farcela prima di mezzanotte e un quarto?” Continuò l’uomo porgendogli, attraverso il finestrino, un foglietto bianco ripiegato che l’autista subito afferrò, leggendone l’indirizzo tracciato in una calligrafia elegante e minuta. Alzò solo lievemente un sopracciglio: il posto non era lontanissimo, ma si trovava in uno dei peggiori quartieri di Mosca, di quelli dove prima ti sparano e poi ti dicono: “Questa è una rapina” … una zona che conosceva molto bene per quello che gli era successo diciassette anni prima.
Scosse la testa, buttando il foglietto sul sedile del passeggero accanto a lui, vicino al bicchiere di caffè vuoto.
“Nessun problema, salga.”
L’uomo annuì e mentre apriva la portiera, Demin si concesse di guardarlo ancora una volta, con quelle sensazioni e tutti i fottuti allarmi che aveva in corpo che non smettevano di trillare come le sirene di un’ambulanza; gli era già capitato un’altra volta, ma ora come allora decise di ignorare.
Accese il motore, ingranò la marcia e si avviò.
Il viaggio fu particolarmente tranquillo: il traffico a quell’ora era praticamente assente e le poche persone che incontrarono lungo la strada erano giovani prostitute che allungavano le loro belle e lisce gambe verso la strada, sperando a loro volta di trovare qualche cliente accondiscende. Demin le ignorò deliberatamente, svoltando in un vicolo e proseguendo fino a una piccola piazzola, dove fermò l’auto e spense il motore, il posto era quello.
Guardò l’ora, erano arrivati a mezzanotte e tredici.
“Siamo arrivati, signore.” Affermò, voltandosi verso il cliente, che era rimasto in silenzio e avvolto nelle tenebre fino a quel momento. Lo vide alzare leggermente lo sguardo e di nuovo gli occhialini brillarono appena alla luce di un lontano lampione, che gettava ombre malsane sulla pelle chiara. Annuì leggermente.
“Lo so. – Affermò. – Ma ho bisogno che lei resti qui ancora un momento. Fino circa a… mezzanotte e diciassette. La pagherò il doppio.” Propose, attirando subito l’attenzione di Demin che, se al principio era stato scettico, adesso vide un’ottima entrata nelle sue tasche sempre troppo vuote.
Sospirò, appoggiandosi al sedile della macchina.
“E pensare che io sono pure nato a mezzanotte e diciassette.” Si lasciò sfuggire sovrappensiero mentre si guardava attorno: quella zona non gli era mai piaciuta, nemmeno da giovane, ma dopo quello che era successo tempo fa, gli piaceva ancora meno. Si passò il dorso della mano sulla fronte, dalla quale era sceso un rivoletto di sudore denso e oleoso; trovò strano sudare con quel freddo.
“So anche questo, Demin Lukian Smirnov.” Continuò pacato il suo passeggero.
Demin s’irrigidì completamente a quelle parole, stringendo le dita attorno al volante così forte da farsi sbiancare le nocche. Alzò gli occhi allo specchietto retrovisore per controllare l’uomo seduto dietro di lui, vedendo solo quei suoi maledetti occhialetti che brillavano come due monete d’argento.
Come diamine faceva a conoscere il suo nome? Non aveva nemmeno un maledetto cartellino con scritto: “Ciao, sono Demin”.
Prese un bel respiro, staccando una mano dal volante e allungandola con calma verso il vano portaoggetti appena socchiuso, da cui spuntavano alcune carte stradali che non gli erano mai servite a niente; era così vicino, ma allo stesso tempo pareva distare chilometri.
“Io non lo farei se fossi in lei, Demin. Sappiamo entrambi che il Revolver che tiene lì ha un percussore difettoso. – Affermò con quella sua tranquillità l’altro, ancora avvolto dalle tenebre; ovviamente quello era un dettaglio che l’autista sapeva, ma che quell’uomo non doveva e non poteva sapere. – Cerchi di collaborare, Demin, e vedrà che passerà tutto in fretta.”
Demin ebbe la tentazione di buttarsi a lato come un portiere nell’atto di parare, cercare con le dita il freddo dell’arma, impugnarla e voltarsi per sparare un colpo in fronte a quel bastardo che sembrava sapere tutto di lui e che lo stava inquietando oltre ogni dire.
Ma non ce la faceva.
Si ritrovò a tremare appena, incollato al sedile, con i muscoli rigidi come pezzi di legno e il respiro irregolare e rumoroso; ma la cosa peggiore era il caldo: era come se nell’abitacolo della macchina ci fossero stati quaranta gradi, come minimo. Aprì le labbra, per far entrare più aria, con il viso ora imperlato di sudore e l’orologio digitale della vettura che indicava in quel momento la mezzanotte e diciassette.
Lo considerò come un attacco di panico bello e buono, dovuto probabilmente alle sorprese che il suo passeggero gli aveva riservato fino a quel momento; ma se panico era, aveva scelto il momento peggiore per manifestarsi.
Chiuse gli occhi, respirando ancora rumorosamente nel tentativo di calmarsi: sentiva la testa pesante come solo un’altra volta prima di allora e un’oppressione al petto che gli ricordava tanto un film visto di recente, Alien gli pareva che si chiamasse; e il tutto condito da una certa dose di confusione che gettava scompiglio nel suo cervello.
Era tanto stordito che si accorse solo in quell’istante che l’uomo era sceso dalla macchina, arrivandogli di nuovo a fianco e aprendo la sua portiera. Lo afferrò rudemente per il colletto della camicia, trascinandolo fuori, sbattendolo poi con violenza contro il cofano verde della vettura.
Un lamento uscì flebile dalle labbra di Demin. Provò a divincolarsi, muovendo il corpo come un pesce d’improvviso buttato fuori dall’acqua, ma era tutto inutile: quella presa non si allentava e, anzi, si faceva sempre più crudele, a voler sedare sul nascere ogni suo moto di ribellione.
“Mi dispiace per quello che sta per accadere, Demin. Veramente.” Aggiunse l’uomo alle sue spalle, portandogli l’arto libero ai pantaloni, slacciandogli con abilità la cintura.
Il corpo di Demin ebbe uno spasmo violento, mentre il suo corpo andava a ricoprirsi da strani tribali fiammeggianti, che avvertì quasi come bruciature sulla pelle che andava a scoprirsi e a scaldarsi sempre di più.
Gemette, provando ancora qualche vano tentativo di rivolta, tutti sedati in fretta e con forza sempre maggiore a mano a mano che i suoi pantaloni venivano abbassati.
Una volta che il tessuto raggiunse le ginocchia, sulla pelle madida e coperta da quegli strani tatuaggi, Demin avvertì qualcosa di diverso: un contatto gelido, quasi come uno sperone di ghiaccio, appoggiato sul fondo della sua schiena, come in attesa.
“Collabori, Demin… e sarà una cosa veloce.” Arrivò tranquilla la voce dell’uomo, prima che quella sensazione di gelo si spostasse verso il basso, tra le sue natiche. Il giovane autista non ebbe nemmeno il tempo di provare a dire qualcosa, e dubitava di riuscirci davvero visto come sentiva la lingua impastata, che avvertì quella cosa fredda entrare nel suo corpo in un posto orrendamente sbagliato.
Un lamento lungo e prolungato lasciò le labbra di Demin, mentre dagli occhi socchiusi scendevano alcune gelide lacrime, nella mente ancora confusa riaffioravano ricordi come bolle in una bibita gassata… ricordi che facevano male e che aveva creduto di dimenticare, seppellendoli sotto strati di normale e tranquilla routine.
Il respiro accelerò mentre vedeva, lievemente annebbiate dalle lacrime che gli formavano una patina sugli occhi, immagini che risalivano alla sua adolescenza: la notte dei suoi diciassette anni, passata a festeggiare e a ubriacarsi con gli amici come di consueto. Poi il ritorno a casa, reso confuso e difficoltoso dai fiumi dell’alcool che gli avevano fatto prendere una strada sbagliata. In un vicolo mal illuminato e con immondizia sparsa a terra, un uomo gli si era parato davanti all'improvviso, grosso come un armadio a due ante. Ricordava che anche allora aveva avvertito il suo corpo mandargli campanelli d’allarme fin dal primo istante, ricordava che anche allora aveva avvertito quella sensazione di pericoloso.
E adesso come allora, lo sconosciuto non aveva esitato a stringerlo al muro con violenza, ad abbassargli i vestiti e a…
Deglutì a fatica, non trovando la forza di concludere il pensiero e il ricordo, ma soffrendone terribilmente, così come soffriva il suo corpo, violato con quella brutalità estrema.
Avvertiva l’altro ancora alle sue spalle, muoversi con forza sempre maggiore e a ogni sua spinta, sempre più violenta e profonda, sentiva il gelo irradiarsi dentro il suo corpo, espandendosi in radici di ghiaccio che si appendevano ovunque, spegnendo il fuoco che aveva dentro e facendo, via via sbiadire sempre di più i tribali fiammeggianti.
Demin si sentiva sempre di più svuotato, stordito, stanco… soprattutto stanco, tanto che i suoi gemiti, all’inizio forti, erano andati spegnendosi in sporadici lamenti fatti a fior di labbra. Anche le lacrime che scendevano dai suoi occhi chiusi, si erano fatte sempre più rare, fino a fermarsi del tutto.
Quella tortura andò avanti per parecchio, o almeno così parve all’autista, che tentò di estraniarsi per la maggior parte del tempo, un po’ come aveva fatto quando era solo un ragazzo; anche se subire quella seconda e nuova violenza, aveva un che di devastante.
Singhiozzò un paio di volte, ma provò in tutti i modi possibili a restare rilassato, cercando di assecondare il ritmo dell’altro.
La violenza finì dopo un tempo indescrivibile, con un’ultima spinta che arrivò in fondo con così tanta violenza da fargli chiudere per istinto le gambe e strappargli di nuovo un gemito forte e lamentoso. Il freddo arrivò in un’ultima ondata in tutto il corpo, facendolo rabbrividire interamente e spegnendo definitivamente ogni fuoco o tribale che si era formato sulla pelle. Un attimo dopo, la presa che lo bloccava si fece lasca e Demin, con le gambe molli e la mente ancora in parte scollegata, scivolò a terra, tossendo leggermente e stringendosi su se stesso come un riccio ferito.
Alzò gli occhi ancora bagnati e arrossati dal pianto a dirotto sull’uomo che stava in piedi di fronte a lui, così imponente e terribile, avvolto da quell'alone di nero mistero.
Esattamente come quell’altro.
Demin singhiozzò di nuovo, stringendosi nelle spalle scosse dai brividi, mentre chiudeva le gambe, gemendo per la brutalità con cui la sua intimità era stata violata… di nuovo.
“P-Perché?” Sussurrò debolmente, la sua voce vacillava come mai prima di allora, il fatto era che si sentiva così terribilmente sporco, così orrendamente sconfitto e annientato.
L’uomo lo guardò dall’alto, il suo sembrava essere uno sguardo di sufficienza o forse era solo di dispiacere, difficile capirlo dai suoi occhi così abilmente celati da quelle lenti riflettenti e dal suo viso immerso ancora nelle tenebre.
“Sicuro di volerlo sapere, Demin?” Domandò, abbandonando finalmente quel fastidioso lei, che sapeva di tempi passati.
“Certo che voglio saperlo! – Sbottò l’altro. – Visto che è la seconda volta che qualcuno mi stupra nel giorno del mio compleanno, senza un apparente motivo!” Ringhiò quelle ultime parole con una rabbia che non credeva di avere, dettata soprattutto dalla frustrazione e dall’umiliazione arrecate per la seconda volta nella sua ancora breve vita.
“In effetti, meriti una spiegazione logica per tutta la violenza che ti segue da sempre.” Sospirò l’uomo con gli occhiali, avvicinandosi di qualche passo e chinandosi su un ginocchio, per essere più vicino all’altro, o meglio, alla sua esatta altezza.
“Tu hai un Demone del Diciassettesimo Girone dentro… e l’unico modo per evitare che fuoriesca dal suo corpo è usare violenza. O questo o ucciderti; ma è una scelta che un Angelo, anche se Nero, non può prendere in considerazione.”
Il silenzio che ne seguì era interrotto solo dal respiro lento e irritato di Demin.
“Ma ti aspetti veramente che creda a questa stronzata su Angeli e Demoni, razza di maniaco?!” Tuonò il giovane ancora a terra, se si aspettava che bastasse quella credenza da fumati e religiosi sfegatati per giustificare uno stupro in piena regola, si sbagliava e di grosso!
Lo sconosciuto rimase in silenzio per alcuni secondi dopo le parole di Demin, completamente avvolto da quel solito alone di mistero e oscurità, prima di spalancare con uno scatto il cappotto che indossava, emettendo una fortissima luce nera, così abbagliate che Demin si dovette schermire gli occhi con una mano.
Quando finalmente riuscì a riaprirli, vide che era proprio l’altro uomo a emanava quella luce nera, anche se ora era meno forte; o meglio, non era proprio lui a emanarla: bensì due enormi ali tinte di un nero pece bellissimo e così brillante da farle sembrare le scure ali di un corvo. Ora che il cappotto non c’era più, Demin poteva vederlo bene: aveva il corpo sottile, ricoperto da strani tatuaggi scritti in una lingua a lui sconosciuta, che fasciavano il corpo a intervalli regolari; il viso, adesso libero dalle ombre che l'aveva avvolto, era bello e fresco, innocente come quello di un ragazzino, con la pelle chiara e gli occhi azzurri come zaffiri, in netto contrasto con il nero delle ali. Anche se... quegli occhi non erano quelli di un ragazzo, ma parevano quelli di un veterano colmo d'esperienza e brutti ricordi
Le grandi ali, dopo essere rimaste spalancate per qualche attimo, si richiusero lentamente, spuntando solo in parte oltre le spalle.
“Adesso mi credi, Demin?” Domandò.
L’altro annuì debolmente, a metà tra lo stupito e lo scandalizzato per quella visione che ancora non riusciva a concepire. Tutto quello in cui aveva sempre creduto, era sbagliato... ?
“Bene, come può notare, io sono un Angelo Nero; ma non ho tradito Dio oppure commesso peccati umani come le credenze popolari amano raccontare. Semplicemente sono un combattente incaricato di mantenere l’equilibrio nel mondo degli esseri umani, far sì che i Demoni come quello che ti porti dentro non emergano per diffondere il caos.”
“E ci riuscite sempre?” Chiese l’autista, che si era tirato su a sedere, appoggiandosi contro la ruota anteriore della sua macchina, per guardare meglio l’Angelo.
“Purtroppo non sempre. – S’inumidì le labbra, prima di continuare. – Demoni come quello che hanno preso possesso del corpo di Adolf Hitler sono stati tra i nostri più grandi fallimenti.” Confessò amaramente, chinando per un attimo il viso su cui si era dipinta un'espressione colpevole.
“E il mio… Demone? – Ancora gli faceva strano usare quella parola, su se stesso, poi. – Anche il mio è così potente?”
“Non così tanto. È un Demone del Diciassettesimo Girone, relativamente facile da… controllare. – Esitò nel pronunciare quella parola, come se non volesse urtare Demin più di quanto non avesse già fatto. – Demoni del genere s’instaurano come parassiti nel corpo degli esseri umani e li usano come mezzi di trasporto, per passare dal loro mondo al vostro. Con la nascita, nella maggior parte dei casi, è la forza interiore della madre che li ferma, ma questo presuppone il sacrificare la vita nel tentativo. In seguito si manifestano dopo un certo numero di anni, che solitamente corrisponde al Girone cui appartengono.”  
Demin rimase di nuovo in silenzio, tutto iniziava ad avere un certo macabro senso: la morte di sua madre nel darlo alla luce, la violenza subita a diciassette anni, quella sopportata oggi. E il numero diciassette così ricorrente nella sua vita: diciassette come il giorno in cui era nato, come il suo numero sul registro di classe, perfino come il numero identificativo della sua macchina!
“Spero di non averti turbato più di quanto non abbia già fatto, Demin. – Affermò l’Angelo, ancora chino di fronte a lui. Gli fece alzare il viso, potandogli due dita sotto al mento. – Sappi che non sempre questo… lavoro, mi piace.”
“Immagino, andare in giro a stuprare la gente non dev’essere bello.” Sibilò, scostando il viso.
L’altro annuì stancamente, ovviamente finiva sempre così: con la rabbia e la frustrazione nelle persone che violentava per qualcosa che non avevano chiesto né tanto meno capivano fino in fondo. Ma era il prezzo che quelli come lui pagavano sempre, la sua adorazione nei confronti di Dio aveva un costo altissimo, più di quanto potesse essere percepito dagli uomini.
“Ora ti devo lasciare, Demin. Ma ci rivedremo…”
“Tra diciassette anni, sì, lo so.” Concluse per lui il russo, stringendosi di nuovo nelle spalle, come se sentisse di nuovo quel freddo invadergli le carni.
L’Angelo lo guardò ancora una volta, alzandosi in piedi e sparendo così com’era arrivato, lasciando il giovane autista da solo: con i suoi pensieri e i suoi dolorosi ricordi, con la crudele consapevolezza che, dopo quelle due violenze subite ce ne sarebbero state altre e altre ancora, fino alla fine dei suoi giorni.
Demin singhiozzò appena, affondando il viso tra le ginocchia, stringendosele al petto con forza, prima di alzare lo sguardo là dove l’Angelo era sparito.
Tra diciassette anni tornerà. Si ritrovò a pensare. E… spero che torni lui. Ammise in silenzio a se stesso.
Non sapeva bene come spiegarselo, ma dopo quell’attimo in cui aveva classificato l’Angelo come… pericoloso, era arrivato un altro momento, quello in cui si avvicinava a lui e si chinava alla sua altezza, in cui l’aveva classificato come… gentile.
 
 
***
 
HOLA! ^_^
 
Ovviamente non potevo non scrivere una bella Slash anche nella Sezione “Angeli e Demoni” vi pare? XD
Che posso dire?
L’idea è nata grazie al Contest: “Mestieri e Professioni” indetto da sango_79.
Il finale può parere tronco, in effetti quasi lo è perché: uno avevo finito le parole a disposizione, due, forse ho in mente uno pseudo seguito, ma chi vivrà vedrà, no?
Che altro dovevo dire?
Ah sì…
La storia partecipa anche alle Challenge: “La sfida dei duecento prompt” di msp17 con il prompt 67) Macchina.
La storia ha anche partecipato al Contest: "I miei gusti, le vostre storie" indetto da Fefy_07
La storia partecipa anche al Contest: "Il giorno che ha cambiato la mia vita" indetto da Fabi_Fabi
Per qualsiasi consiglio o critica, mi trovate sempre qui…
Spero che, almeno in parte, la storia vi sia piaciuta! ^^
A presto,
ByeBye

 
ManuFury! ^_^
 
  
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