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Autore: LaMicheCoria    15/06/2014    3 recensioni
John Hamish Watson adora i bambini, davvero. Soprattutto se sono sedati o con un bavaglio alla bocca.
Le tre piccole pesti, poi, che in quel momento saltellano e bighellonano gracidando come ranocchie nello sfiatatoio malarico della Metro, sono il peggio che gli potesse capitare. Palline impazzite color caramella, strillano e stridono, si rincorrono, rimbalzano da una parte all’altra quasi avessero le molle, rovinando e facendo a brandelli la dozzinale atmosfera di sigarette, sudore e lerciume varia che impregna l’aria -E che bagna, impregna, infetta lo stesso John Hamish Watson, amante ad interam dei marmocchi opportunamente anestetizzati.

[ Post Reichenbach Fall ]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono
La storia è scritta senza fine di lucro alcuno.

 

 

 

 

 

 

I Do. I Do.

 

John Hamish Watson adora i bambini, davvero. Soprattutto se sono sedati o con un bavaglio alla bocca.
Le tre piccole pesti, poi, che in quel momento saltellano e bighellonano gracidando come ranocchie nello sfiatatoio malarico della Metro, sono il peggio che gli potesse capitare. Palline impazzite color caramella, strillano e stridono, si rincorrono, rimbalzano da una parte all’altra quasi avessero le molle, rovinando e facendo a brandelli la dozzinale atmosfera di sigarette, sudore e lerciume varia che impregna l’aria -E che bagna, impregna, infetta lo stesso John Hamish Watson, amante ad interam dei marmocchi opportunamente anestetizzati.  
Fanno un rumore assordante e, diamine, tutto il mondo è diventato assordante alle sue orecchie. Ogni suono è troppo forte, ogni odore troppo fetido, ogni giorno troppo lento. John si strascina nella nebbia e attende il riverbero di tre spari annoiati per mettere a tacere l’atona agonia in cui è invischiato, rinchiuso, intrappolato –Gli spari, ecco, quelli sarebbero un suono apprezzato e apprezzabile, ma l’appartamento a Baker Street è taciturno e silenzioso e John dovrà decidersi a venderlo alla polvere e ai ricordi e al rimpianto, un giorno di questi.
«Io non credo alle fate!»
«Ne hai appena uccisa una, George!»
A quel punto, visto che continuare a fissare l’inghiottitoio della ferrovia sotterranea non farà arrivare i vagoni della Metro prima del previsto, John si gira a guardare il gruppetto di piccoli mostri: l’unico maschietto –Il cui eroico portamento da Ho sei anni e le femmine dovrebbero essere tutte affogate nel Tamigi, Dio Salvi la Regina è ampiamente rovinato dal moccio al naso- serra pomposo le braccia e solleva il mento, mentre la Duchessa di Cambridge in miniatura punta i piedi, strizza forte forte le palpebre e batte tre volte le manine paffute.
«Io credo nelle fate!» strilla, con tanta convinzione ed enfasi che John avverte un fastidioso contrarsi dell’angolo destro della bocca «Lo giuro, lo giuro!»
Basta così poco, nella fantasia di un bambino, per salvare la vita di una fata. Tuttavia l’unica cosa che gli riesce di pensare è come, visto il vigore con cui la peste ha pigiato tra loro i palmi, avrà sì riportato in vita Trilli, ma a scapito di una povera zanzara che passava di lì.
Un attacco di cinica e non richiesta bile che sozza s’acciambella nello stomaco e lì comincia a marcire, impuzzolentire e John sa che presto si ramificherà nei polmoni, si sostituirà il sangue e cancellerà i colori dagli occhi e  farà sparire il sapore acidulo della pioggia dalla lingua.
«E’ che, sai, sono tutte fandonie.»
E John Hamish Watson ha appena trovato un altro spunto da apporre sul Curriculum: sempre in prima linea per la somministrazione di Xanax alle vecchie pettegole. Essendo un medico, la possibilità di mettere in atto tale piano non è poi così remota, quindi è meglio per tutti –Tranne per lui- se cancella l’ultimo proposito con una buona dose di bianchetto.
«Cosa sono fandonie, mia cara?» chiede garrula un avvizzita signora con pince-nez di traverso sul naso aquilino, occhietti sporgenti e labbruzze rugose.
«Ma quelle dicerie che dovrebbero scagionarlo, mia cara!» risponde, affettata e pure un po’ piccata dalla mancanza di spirito dell’amica una strabordante settantenne vestita di taffetà e lenzuola stinte «Te lo assicuro, Meggie, era solo un detective da strapazzo che ha fatto bene a togliersi di mezzo!»
John chiede a se stesso se sia possibile ritrattare l’ipotesi dello Xanax, ma il Se Stesso, al momento, ha perso ogni facoltà di parola, è diventato minuscolo, miserevole, e guaire un pianto rabbioso è l’unica cosa che gli riesca.
«Non sei un po’ dura, cara?»
«Assolutamente no, Maggie! Era un furfante che ci ha presi in giro tutti quanti! Dicano quello che vogliono, io non credo a Sherlock Holmes.»
In un cigolante sferragliare di metallo, i vagoni della Metro scatarrano pigri al loro posto, fedeli e ritti come le guardie a Buckingham Palace.
Le porte si aprono con un singulto di aria compressa, sciamano persone, vanno e vengono, inghiottiti e sputati, e John Watson è in mezzo a loro, un punto isolato e sbandato, alla deriva, che stanco, esausto, lascia alla gente il compito di passargli accanto.
Non le tocca e ne è intoccato.
Dovrebbe salire, ha sceso le scale per questo, per prendere la Metro e la Metro è arrivata, dovrebbe salire. Invece alza gli occhi al cielo, indispettito contrae la mascella e lo sguardo manda un tripudio di lampi ed una sequela di ingiurie non proprio adatte ad un suddito di Sua Maestà par suo.
«Per l’amor di Dio, giuro che questa me la paghi.» sibila, prima di chinare la testa, puntare i piedi, strizzare forte forte le palpebre e battere tre volte le mani. «Io credo in Sherlock Holmes. Lo giuro. Lo giuro.»

   
 
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