Disclaimer: I personaggi non
mi appartengono
La storia è scritta senza fine di lucro alcuno.
I Do. I Do.
John Hamish Watson adora i bambini,
davvero. Soprattutto se sono sedati o con un bavaglio alla bocca.
Le tre piccole pesti, poi, che in
quel momento saltellano e bighellonano gracidando come ranocchie nello
sfiatatoio malarico della Metro, sono il peggio che gli potesse capitare.
Palline impazzite color caramella, strillano e stridono, si rincorrono,
rimbalzano da una parte all’altra quasi avessero le molle, rovinando e facendo
a brandelli la dozzinale atmosfera di sigarette, sudore e lerciume varia che
impregna l’aria -E che bagna, impregna, infetta lo stesso John Hamish Watson, amante
ad interam dei marmocchi opportunamente anestetizzati.
Fanno un rumore assordante e,
diamine, tutto il mondo è diventato assordante alle sue orecchie. Ogni suono è
troppo forte, ogni odore troppo fetido, ogni giorno troppo lento. John si
strascina nella nebbia e attende il riverbero di tre spari annoiati per mettere a
tacere l’atona agonia in cui è invischiato, rinchiuso, intrappolato –Gli spari,
ecco, quelli sarebbero un suono apprezzato e apprezzabile, ma l’appartamento a
Baker Street è taciturno e silenzioso e John dovrà decidersi a venderlo alla
polvere e ai ricordi e al rimpianto, un giorno di questi.
«Io non credo alle fate!»
«Ne hai appena uccisa una, George!»
A quel punto, visto che continuare a
fissare l’inghiottitoio della ferrovia sotterranea non farà arrivare i vagoni
della Metro prima del previsto, John si gira a guardare il gruppetto di piccoli
mostri: l’unico maschietto –Il cui eroico portamento da Ho sei anni e le femmine dovrebbero essere tutte affogate nel Tamigi,
Dio Salvi la Regina è ampiamente rovinato dal moccio al naso- serra pomposo
le braccia e solleva il mento, mentre la Duchessa di Cambridge in miniatura
punta i piedi, strizza forte forte le palpebre e batte tre volte le manine
paffute.
«Io credo nelle fate!» strilla, con
tanta convinzione ed enfasi che John avverte un fastidioso contrarsi dell’angolo
destro della bocca «Lo giuro, lo giuro!»
Basta così poco, nella fantasia di un
bambino, per salvare la vita di una fata. Tuttavia l’unica cosa che gli riesce
di pensare è come, visto il vigore con cui la peste ha pigiato tra loro i
palmi, avrà sì riportato in vita Trilli, ma a scapito di una povera
zanzara che passava di lì.
Un attacco di cinica e non richiesta
bile che sozza s’acciambella nello stomaco e lì comincia a marcire,
impuzzolentire e John sa che presto si ramificherà nei polmoni, si sostituirà
il sangue e cancellerà i colori dagli occhi e farà sparire il sapore acidulo della pioggia
dalla lingua.
«E’ che, sai, sono tutte fandonie.»
E John Hamish Watson ha appena
trovato un altro spunto da apporre sul Curriculum: sempre in prima linea per la
somministrazione di Xanax alle vecchie pettegole. Essendo un medico, la possibilità
di mettere in atto tale piano non è poi così remota, quindi è meglio per tutti –Tranne
per lui- se cancella l’ultimo proposito con una buona dose di bianchetto.
«Cosa sono fandonie, mia cara?»
chiede garrula un avvizzita signora con pince-nez di traverso sul naso
aquilino, occhietti sporgenti e labbruzze rugose.
«Ma quelle dicerie che dovrebbero
scagionarlo, mia cara!» risponde, affettata e pure un po’ piccata dalla
mancanza di spirito dell’amica una strabordante settantenne vestita di taffetà
e lenzuola stinte «Te lo assicuro, Meggie, era solo un detective da strapazzo
che ha fatto bene a togliersi di mezzo!»
John chiede a se stesso se sia
possibile ritrattare l’ipotesi dello Xanax, ma il Se Stesso, al momento, ha perso ogni facoltà di parola, è diventato
minuscolo, miserevole, e guaire un pianto rabbioso è l’unica cosa che gli
riesca.
«Non sei un po’ dura, cara?»
«Assolutamente no, Maggie! Era un
furfante che ci ha presi in giro tutti quanti! Dicano quello che vogliono, io
non credo a Sherlock Holmes.»
In un cigolante sferragliare di
metallo, i vagoni della Metro scatarrano pigri al loro posto, fedeli e ritti
come le guardie a Buckingham Palace.
Le porte si aprono con un singulto di
aria compressa, sciamano persone, vanno e vengono, inghiottiti e sputati, e
John Watson è in mezzo a loro, un punto isolato e sbandato, alla deriva, che
stanco, esausto, lascia alla gente il compito di passargli accanto.
Non le tocca e ne è intoccato.
Dovrebbe salire, ha sceso le scale
per questo, per prendere la Metro e la Metro è arrivata, dovrebbe salire.
Invece alza gli occhi al cielo, indispettito contrae la mascella e lo sguardo
manda un tripudio di lampi ed una sequela di ingiurie non proprio adatte ad un
suddito di Sua Maestà par suo.
«Per l’amor di Dio, giuro che questa
me la paghi.» sibila, prima di chinare la testa, puntare i piedi, strizzare
forte forte le palpebre e battere tre volte le mani. «Io credo in Sherlock Holmes.
Lo giuro. Lo giuro.»