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Autore: TangerGin    18/06/2014    6 recensioni
Ci siamo conosciuti su un treno che da Vienna portava a Roma, ed era l’estate del millenovecentottantanove.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Kiss with a fist




Ci siamo conosciuti su un treno che da Vienna portava a Roma, ed era l’estate del millenovecentottantanove.
Avevo il posto 29B, ma quando sono arrivata al mio posto a sedere c’era una suora indiana che parlava solo portoghese. Ma quello era il mio posto, e quello era il giorno giusto, e quella suora proprio non ne voleva sapere e continuava a indicarmi il numero del sedile. 29B, 29B. Sì, Ventinove bì, è il mio posto, le dicevo. E lei niente, non si schiodava. E non so se era il fatto che fosse una suora, o forse perché, vista da fuori, quella doveva sembrare una situazione molto divertente, ma ero circondata da gente che ridacchiava sotto i baffi e lanciava occhiatine curiose e io non sapevo se iniziare ad urlare a loro, che non cercavano nemmeno di aiutarmi, o alla suora, che, cocciuta, non voleva alzarsi.
Poi c’è stata la tua mano che si è posata sulla mia spalla e «Credo di poterti aiutare» hai detto. Mi hai fatto arretrare verso il corridoio e sei entrato nella cabina, hai iniziato a parlare in portoghese con la suora, con quel sorriso bianco in faccia, mi hai chiesto il biglietto, hai sorriso ancora una volta e «La sorella ha sbagliato la prenotazione. Vedi, anche lei ha il 29B, ma per il prossimo mese. Si è confusa.» e allora a me veniva da ridere, perché Dio potrà anche venirti a parlare ogni sera, potrai anche dedicare la tua vita alla preghiera, ma se sbagli luglio con agosto allora non c’è Dio che possa aiutarti. Poi c’era la suora che frignava silenziosa, ‘ché non sapeva come fare perché doveva essere a Roma il giorno dopo, allora tu hai chiamato il controllore, hai parlottato anche con lui, e alla fine di tutto la suora ti ringraziava, ma dal mio posto non si era mica alzata.
Ti ho guardato con le sopracciglia confuse e tu mi hai detto che nel tuo scompartimento c’era un posto libero, se volevo. Quel 29B era meglio lasciarlo alla suora indiana, e anche il controllore era d’accordo.
Ti ho seguito lenta, con il mio zaino bitorzoluto sulle spalle che si incastrava per quello stretto corridoio, il sacco a pelo che penzolava a destra e la borraccia a sinistra. Poi mi hai aiutato a issarlo su, sul portabagagli, e ti sei finalmente seduto, nel mezzo. Accanto a te c’era Niall, e davanti a lui c’era Louis. Ma ancora non avevo idea di chi fossero.
«Io sono Harry, comunque» mi hai detto, tendendo la tua mano dinoccolata, e ho lasciato che accogliesse la mia in una stretta decisa, ma fin troppo lunga. Ti ho sorriso, ti ho detto il mio nome e poi ho preferito prendere il libro che stavo leggendo, perché probabilmente mi facevate paura. E mentre c’era Jane Eyre che si tormentava l’anima dalla passione per Rochester, ti osservavo oltre le pagine fitte mentre ridevi di gusto, per qualcosa che Louis aveva detto. Poi ti sei girato, mi hai guardato, e hai sorriso, e allora magari stavate parlando di me, ho pensato. Ho sempre questa paranoia, degli altri che mi giudicano e poi parlano.
«Da dove vieni?» mi hai chiesto poi, con quell’accento forte, ed io avevo già capito che eravate inglesi. Ti dico che sono austriaca, col mio inglese che invece traballa da tutte le parti: sei troppo dura quando pronunci le “d”, mi diceva la mia professoressa al liceo, e probabilmente aveva ragione. Poi ci sono stati Louis e Niall che si sono presentati, ed eravate appena tornati da Berlino, allora mi raccontavate del muro, e della vita notturna nella Berlino Ovest, e io vi ascoltavo, con parole che non riuscivo a cogliere ed altre che proprio non capivo affatto. Mi limitavo a sorridere, ad accennare qualche commento, ad invidiarvi senza farvelo notare. Poi c’è stato Louis che mi ha offerto del Jack Daniel's mescolato a Coca Cola, aveva un sapore talmente disgustoso e stucchevole che se l’ho buttato giù è stato solo perché c’era tutto quel tuo verde che mi fissava.
 
«Quindi, Italia?» mi hai chiesto quando erano ormai le due di notte, c'era quel Jack Daniel's che frullava nelle vene ed avevamo davanti ancora tante ore di viaggio. Louis e Niall ronfavano già, con le gambe incastrate le une con quelle dell’altro in un tetris di ossa.
Io ho annuito e «Scendo a Firenze. Poi farò tutta la costa, a piedi. E vorrei arrivare fino in Sicilia.»
«Lo sai che c’è il mare vero? Voglio dire, la Sicilia è un’isola» mi hai detto tu, con gli occhi socchiusi, e magari stavi crepando anche tu di sonno ma le parole le cavavi fuori, e voglio credere che tu lo facessi per me.
Io ho riso, perché sì che lo so che la Sicilia è un’isola. «E tutto questo lo fai da sola?» e mi sono trovata ad annuirti ancora una volta. E poi a spiegarti, un po’ a gesti, un po’ a fatica, che non avevo paura della solitudine, perché se ci si conosce davvero bene allora si smette di temere i propri pensieri e le proprie notti in solitaria. Ti ho raccontato di come avessi cercato con tutte le mie forze di credere al fatto che, da soli, non si sta affatto bene, che l’uomo è un animale sociale e ha bisogno del prossimo. Ma mi sono sempre imbattuta in persone che mi hanno fatto pensare al contrario. Io, da sola, sto bene. E posso vedere il mondo coi miei occhi, senza che ce ne siano altri, accanto, a filtrarmelo a modo loro.
Allora sei rimasto zitto, per un po’. Tu, con i tuoi occhi verdi oscurati dalla penombra della notte su quel treno, forse saresti andato bene per il mio viaggio. Forse, il mondo in quel modo avrei anche potuto vederlo.
Ma dopotutto chi eri, se non un estraneo conosciuto da poche ore? Allora hai riso, un po’ per la mia serietà, un po’ perché era necessario sdrammatizzare il tutto, 'ché forse io stavo già iniziando ad arprimi fin troppo, e nemmeno me ne ero accorta. È stato questo che mi ha fregata, lo sai. Il fatto che tu fossi là, davanti a me, ed io ti parlassi come se ti conoscessi da anni. Ma sono stati i tuoi gesti, i tuoi sorrisi, a farmi credere di potermi sentire così. Sono stati loro a cullarmi in una situazione comoda e confortevole, tanto da permettermi di aprire a te tutto questo gomitolo di paure, aspettative, sentimenti ed emozioni che mi si srotola e si riarrotola dentro ogni giorno.
«Noi andiamo a Roma. Ci stiamo tre giorni, poi prendiamo un altro treno e andiamo a Venezia. E poi a Praga e poi… ancora dobbiamo decidere, in realtà.»
E sì, in fondo sotto sotto vi invidiavo, con la vostra spensieratezza e senza quel costante fardello di ansie che, a me, provocano le persone. Voi tre stavate bene, assieme, su quel treno. Su quei treni che vi portavano in città straniere e, prima o poi, vi hanno pure riportato a casa.

 
Mi piace pensare che quell’incontro sia significato qualcosa. Mi piace pensare che adesso, se sei qua, è perché quella notte insonne, passata a parlare dei viaggi, e poi della musica (“Davvero conosci i Joy Division?” e me lo dicevi con quell’entusiasmo stampato tra le occhiaie, ed io ti annuivo, e ti raccontavo dei concerti, dei miei dischi, mi hai raccontato del funerale di Ian Curtis e tu c’eri andato che avevi sedici anni e hai saltato scuola solo per dirgli addio), e poi c’è stata quella sigaretta smezzata alla sosta sul confine, e tu che mi dicevi che non pensavi che gli austriaci fumassero. La realtà era che io non avevo mai fumato, prima d’ora, ma volevo stare con te.
E voglio starci ancora, assieme a te. Ed è per questo che anche quella sigaretta, per me, ha significato qualcosa.

Mi piace pensare che quell'incontro sia significato qualcosa anche per te. Che se tenevi le palpebre aperte lo facevi perché davvero volevi sentire le mie "d" gutturali, i miei sbagli in inglese dietro ai quali mi nascondevo con una mano sul viso. Voglio credere che ti sia piaciuto davvero stare con il sedere su quel linoleum freddo del corridoio del treno, con le schiene che si incrinavano ad ogni rotaia presa con troppa velocità e le tue gambe lunghe che non riuscivano a starci comode, in quello spazio angusto. Mi piace pensare che quelle ore passate ad accennare ad un futuro che stava per arrivare per entrambi, ed un passato che, entrambi, volevamo abbandonare ti siano davvero servite - come sono servite a me. E voglio anche sperare che quel canticchiare sottovoce She lost control sia stato, anche per te, determinante tanto quanto lo è stato per me. Perché, in effetti, io il controllo lo stavo davvero perdendo.
 
Alle sei del mattino il treno è fermato a Firenze, e tu ormai ti eri appisolato contro il vetro dello scompartimento da almeno mezz’ora. Non te ne faccio una colpa, ma lì per lì mi faceva male il petto perché avrei voluto dirti addio con le parole, e non con l’ultima pagina strappata da quel Jane Eyre letto e riletto. Ma forse, a ripensarci adesso, se tu fossi rimasto sveglio, avrei potuto solo dirti ciao, è stato un piacere, buon viaggio, perché io non sono mai stata brava nelle azioni impulsive, e ho sempre avuto bisogno della premeditazione. E allora forse, quel foglietto scritto, è stato tutto ciò che mi ha salvato, perché ho avuto il coraggio di scriverti quello che davvero avevo sentito, quella notte: che era stato bello, parlare con te. Che erano belle le canzoni che avevamo sussurrato nella penombra, che erano belli i tuoi sorrisi e le tue mani, ed erano belli anche i tuoi occhi assonnati. E poi ho avuto il coraggio di dirti di cercarmi.
 

E cercami, per favore, e tu poi lo hai fatto.
Quando ho aperto la porta di casa, sabato scorso, con quel pigiama con i maialini rosa con le ali, mi aspettavo di trovarci mia sorella di ritorno da scuola, e invece c’erano i tuoi riccioli, la tua mano appoggiata alla spallina dello zaino, ed il tuo sorriso bianchissimo.
Pensavo di non ricordare più il colore dei tuoi occhi, o l’odore della tua colonia che mi aveva fatto compagnia per quelle dieci ore di treno. Perché è passato quasi un anno, e tu non eri mai arrivato.
Ho continuato ad aspettarti, lo sai? Ti ho aspettato, per tutto settembre, ti ho aspettato per tutto l’autunno mentre c’era il muro che cadeva e c'era quella speranza nuova che si disseminava piano, ti ho aspettato poi per tutto l’inverno che a Vienna è freddo, e dentro di me faceva ancora più freddo. Poi è iniziato l’anno nuovo, e siamo nell'ultimo decennio di questo millennio, e quanta paura fa? Però si sentiva proprio nell’aria che c’era qualcosa che stava cambiando, così mentre ti aspettavo c’era Mandela che era stato liberato, c’erano le elezioni libere nella Germania dell’Est, c’era musica nuova che si insinuava piano nelle orecchie di tutti: c’erano i Nirvana, i Pearl Jam, i Depeche Mode. E tutto entrava e usciva dalle mie orecchie come acqua, perché mi mancava il filtro. E tutto era in rivoluzione, e girava girava girava mentre io stavo ferma: non mi interessava salire sulla giostra, non senza di te. E allora ti ho aspettato fino alle porte della primavera, e poi alla fine sei arrivato.

«Mi sono perso per strada» hai detto, con quelle labbra rosse che mi fanno pizzicare gli angoli degli occhi fortissimo. 
Ti meriti un bacio e un cazzotto, non so in che ordine però.


 


Alloooora, premessa: posto questa OS che avevo iniziato a scrivere millenni fa principalmente per scusarmi con chiunque stesse seguendo Crosses e/o Illinois. Come ho spiegato su FB, non ho più la testa/voglia/idee in questo momento per proseguire quelle storie e lasciarle là a prendere la polvere mi provocava un dolore fisico, vi giuro. Spero ovviamente di concluderle, prima o poi, e in tal caso penso che le pubblicherò di nuovo. La speranza è l'ultima a morire :D
Che altro dire? Avevo voglia di scrivere qualcosa ambientato a inizio anni '90, in realtà questa OS era un abbozzo ad una long mai nata, però spero che possa piacervi lo stesso ;_; Ah, e se non avete mai ascoltato i Joy Division, fatevi un favore e correte a farlo, adesso u.u
Insomma, spero di non avervi deluso, e sappiate che vi voglio bene a tutteuttetuttetutuetueutettue tutte ♥
xx Gin~
 

 
   
 
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