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Autore: Dotta Ignoranza    30/06/2014    14 recensioni
"... loro mi avrebbero capito e avrebbero capito dove sarebbe arrivato il mio amore, il mio eterno e dolce amore.
Eppure solo lo scrosciare di padelle d'acciaio, solo le urla, gli strilli di questo amaro limbo. C'era qualcosa dietro a quelle mani graffiate, dietro ai loro grugni di porci, dietro agli schiaffi insolenti, sapevo che c'era qualcosa di profondo e indefinibile. Forse ero io quel qualcosa."

L'oscuro limbo in cui molte donne furono imprigionate durante l'epoca più buia della psichiatria; in questo frammento di storia umana, ci troviamo nel regno di sua maestà la Regina Vittoria. Lunga vita alla Regina e al suo regno di marcio splendore! Ora lasciatevi smarrire nella tana del Bianconiglio.
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{Storia partecipante al contest "L'EPOCA VITTORIANA E I SUOI SEGRETI" de "LA CREME DE LA CREME DI EFP"}
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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«Twinkle, twinkle, little bat
How I wonder what you're at
Up above the world you fly
Like a teatray in the sky.*»
La mia invisibile voce cullò il tuo sonno.
Ormai riposavi. Riposavi distesa su quella lastra di freddo metallo. Magari sognavi, uno dei tuoi bei sogni di una volta, non gli incubi che ti facevano tornare a quella sera.
Avrei potuto avvicinare la mano ai tuoi morbidi e aridi capelli, corti, dal taglio sconcluso e le ciocche mancanti; le avrei accarezzate con amore, infilandovi le dita dentro e assaporando il tuo dolce sorriso beato e assente sconvolgermi ogni senso.
Un senso labile, mero ed effimero... come la vita.
Delle voci colsero il mio udito alle spalle, la loro attenzione ormai poco ti toccava anima mia, poco poteva essere d'interesse al tuo candido sonno fatto di mostri cannibali. Eppure le assecondai, non per curiosità, non per diletto, ma per te. Avrebbero parlato di te, e a te le avrei riportate ancora, con la stessa devozione di un fido, lo stesso fido bassotto che leccava le dita della nostra amata Regina Victoria.
Victoria, parlavano di sua maestà mentre con lo sguardo rivolto al creato potevo così interrogarmi ancora sul perché siamo qua, mia amata, fra queste mura di corroso gesso, il pavimento schizzato dal pigro sangue abbandonato ed incrostato, fra le mani di un manigoldo di infermieri macellai.
Quella voce, al di là della parete, parve essere di uno di loro, uno di quelli nuovi forse non era “uno di quelli”, ma quello che sempre con il capo alto sfiorava con il bastone di legno le sbarre delle celle, della tua cella mia Alice.
La risata di quel macellaio era sottile, cristallina e gioiosa, l'unica macchia di felicità in quel luogo infestato dalle urla, l'unica macchia di crudele disprezzo che trascendeva i limiti dell'umana concezione. Il male fra i denti bianchi e perfetti, solo una piccola carie spuntava fra il molare e il canino, troppi zuccheri, troppi dolci, le molteplici mele caramellate che venivano uccise da quei bellissimi denti infantili. Si dice che il diavolo abbia molti volti, il suo più bello e perfetto è quello di un bambino. I bambini sono puri perché la loro cattiveria è pura, ancora vergine di ferro dalle labbra avvelenate di realtà. Ammalate.
Con affetto struggente lasciai il tuo corpo laggiù e sbirciai fosco dietro a quella parete fatta di risate crudeli.

«Quella pazza di vostra sorella vi ha ancora dato problemi, Doc. Hatter?»
«Come ogni mese nello stesso giorno, solo che fra una crisi e l'altra trascorre sempre meno tempo, per giunta oggi è il giubileo d'oro della nostra cara Regina Victoria. Ironico che mentre tutti festeggiano a Londra, dovrò trivellare il cranio di mia sorella maggiore, la prediletta di nostra madre... insistette così tanto perché avesse il nome della regina quando nacque. Voleva la sua principessa sempre con se a casa, come una bambola come la principessa di qualche favola smarrita.» Sospirò il buon dottore appoggiando la mancina sul ginocchio del fanciullo, che voluttuoso si dondolava sulle sue ginocchia frementi.
«Uff, che ossessione.» Il piccolo demonio canzonò tua madre nel mentre fra le sue labbra spariva e riappariva un lecca lecca dall'ipnotica forma a spirale. Lo succhiava avido, come se qualcuno potesse portarglielo via da un momento all'altro.
«Dovresti essere là anche tu a goderti i festeggiamenti, l'hanno indetti in tutto il regno, no?»
«No, caro Dottorino, voglio vedere come le trapasserete il cranio con quel grosso punteruolo -lo sguardo gli cadde lungo il cavallo teso dei pantaloni dell'uomo maturo sotto di se.- Sapete quanto mi piacciono le cose grosse che penetro in profondità...» Sibilò condito da una profonda e rivoltante lussuria, strusciando il ginocchio vicino all'inguine del buono e caro dottore. Lui trasalì e stringendo maggiormente la presa sul piccolo Mefistofele si dovette leccare le labbra sottile per non ansimare spudoratamente. Attratto e distrutto da quelle piccole labbra carnivori che tanto amavano tormentare pazienti e dottori con allusioni fameliche.
«Sei proprio ripugnante, mio piccolo gattoastratto» Gemette facendo scivolare lo sguardo verso la porta socchiusa della tua stanza, poteva quasi assaporare lo sguardo eccitato e voglioso del suo piccolo amante dai tratti fanciulleschi, mentre ti avrebbe tolto quel briciolo di umanità rendendoti un acerbo e inerme vegetale.
«E voi siete noioso. Uffa... visto che non mi toccate nemmeno un po' oggi, almeno raccontatemi come quella là è diventata in questo modo, d'altronde pare che pensiate più alla vostra stupida sorella pazza che a me.» Lo spintonò via con una mano piccola, dandogli le spalle mentre si sistemava con apparenza casuale a cavalcioni sul ginocchio grosso del dotto. Strusciò leggermente avanti e indietro mantenendo quel broncio infantile, aspettando impaziente che l'altro iniziò a raccontare.
«Va bene... va bene, ma smettila di mettermi il broncio o dopo non ti do quello per cui sei venuto qui a strusciarti come una puttanella.» Ammonì parendo prendere una certa posizione su quel piccolo cagnetto affamato, la minaccia parve piacergli poiché non risposte ma si limitò a succhiare più oscenamente quel dolce caramellato. «Comunque c'è poco da dire su Victoria, pare che il giorno dopo il suo ritorno dalla luna di miele trascorsa in Francia, venne coinvolta nello scoppio di una violente e sanguinosa lite fra il suo adorato sposo e nostro cugino, tornato da poco dal servizio militare a Buckingham Palac-»
«Com'è che vostra sorella viveva un matrimonio da sogno, vostro cugino serviva la famiglia reale e voi invece siete qui, in un orribile manicomio squallido e umido senza il becco di un quattrino?»
«Sei così giovane, spavaldo eppure così ingenuo talvolta... sai bene che è disdicevole per una famiglia blasonata avere un figlio medico, quindi nemmeno mi dilungherò troppo sul perché hanno scelto di darla alle mie cure e allontanarla dal mondo civilizzato. Dopo tutto siamo due diseredati io e lei...» Solo in quel momento ricordai lo sguardo che avevo visto anni e anni prima premere per te mia Alice, era quello sguardo stanco eppure felice, complice di chi ti ha dato la mano per anni fra le anguste siepi del tuo giardino d'inverno, fra le rose dipinte e il silenzio dei nostri baci rubati. «E quindi nella colluttazione il coltello si piantò sia nel cuore del poveraccio, sia nel ventre di Victoria... per la bambina non ci fu niente da fare, e nel giro di poche ore anche la mente di mia sorella fu del tutto persa.»

Calò il silenzio, osservavo come solo chi può vedere l'onirico può fare. Era tutto sbagliato, parte del tutto era vero, ma come avrei potuto dire «Dottore, voi vi sbagliate! Non è andata così, non è successo questo!» Come avrei potuto se neppure i miei pensieri verso di te riuscivano a concepire ciò che era avvenuto su quel prato di Maggio?
Sentivo il bisogno di lasciarti, mia Alice, per l'ennesima volta quel ricordo straziante mi portava a strappare, recidere le mie catene a te, fuggire nel buio e divorare gli sconosciuti per lenire questo dolore perenne; ma come avrei fatto senza di te? Oh mia diletta sposa, fu tutto così sbagliato, così in errore, il solo e singolo errore che nessuno potrà mai perdonarmi. Io sono quel fante di Cuori che ti ha fatto perdere la testa, tagliandoti la vita dal cuore. Io e sono io il tuo boia. Oh amore mio, oh mia amata Alice, perché alzasti gli occhi quel dì? Perché vedesti... quel troppo fra le mie dita, quel troppo nei miei occhi e quel troppo poco nella mia presa cavalleresca!?
Perché sono stato un tale disastro?
Perché ti ho umiliata con il mio peccato?
Perché, amore mio, perché i miei occhi non si sono potuti allontanare da quel ricordo sbagliato!?
Ancora.
Ancora sento morire il mio amore.
Amore sento l'errore divorare, smembrare e straziare il mio essere.
Scusami Marianna. Scusami Alice, scusami è tardi... è sempre troppo tardi.
Sono il mostro che vi ha divorate.
Sono il mostro.
IO sono questo bastardo.

«AH! Chi è stato?» Il giovane assistente dal naso felino balzò giù dalle gambe del dottore, quando il rombo di una finestra sbatté improvvisa nell'altra stanza. Viva. Angusta e latrante.
Protesta rumorosa di una triste consapevolezza.
«Vado a controllare. Intanto prendimi il camice, è tardi, dobbiamo finire prima del tramonto.» I passi mi parsero sconnessi, ancora la mia disperazione vibrava e trasudava dalle pareti sanguinanti di quella sala operatoria. Alice stammi vicino. Alice mi lascerai per sempre a breve, ti prego stammi vicino mia alice infelice. «Che strano, non c'è un filo di vento fuori... e mi pareva di averla chiusa, sia mai che lascio una paziente di questo calibro con la finestra aperta» mormorò il dottore massaggiandosi il grosso naso adunco, sistemandosi gli occhiali al centro delle sopracciglia, una scossa di paura scivolò fra le sue scapole, Alice. Il cappellaio stava impazzendo, aveva paura di noi, di te. Magari si sarebbe frenato, avrebbe capito che è sbagliato toglierti la linfa vitale, magari... magari, era così strano poter sperare ancora in un miracolo, nel poterti stare accanto e sussurrarti filastrocche ancora come un tempo.
Quella finestra sul tempo e la pioggia si chiuse, la tiepida luce nella stanza barcollò e pian piano le mani del dottore si avvicinarono di nuovo a te. Il suo sguardo era assente mentre ti accarezzava la fronte, sfiorava le viti che mantenevano salde il tuo cranio sedato. Non potevi sentire, non potevi vedere, non potevi nemmeno gustare la tua stessa quasi morte, quale eterno rimpianto.
«Allora? Cosa aspetti?» Quella voce petulante irruppe di nuovo nelle tue orecchie, mentre le mani svelte avevano gettato nel secchio pieno di liquami rancidi il proprio bastone zuccherato, appiccicaticce le sue dita vestirono il dottore, corsero rapide verso la trivella chirurgica, ma una mancina lo fermò immediatamente.
«No, niente buchi. Temo di averti mentito poc'anzi... ma, con lei voglio usare una nuova tecnica, l'ha scoperta qualche anno fa il Dottor Salers, uno svizzero. Voglio ridare a nostra Madre una figlia da amare, e qui... con un foro nel cranio non sarebbe possibile.» «E quindi? Cosa le farete?» Il dottore non ci rispose, né al ragazzino voluttuoso, né alla tua bellezza, né alla mia disperazione.
«Aspettiamo che si svegli.»
La pioggia tornò a lacrimare più incessante lungo i vetri freddi e incrinati di quella stanza, dormivi e respiravi tranquilla, tornasti al giorno di così tanto orrore, tornasti là e io con te, perché quello sarebbe stata l'ultima volta in cui insieme l'avremmo rivissuto.

 

«Chiameremo la seconda Mariannissima.» Ridevo sul tuo viso, non riuscendo a fare a meno di baciare le nocche della tua febbrile mano. Il prato della villa in cui eri vissuta con i tuoi genitori, mi pareva così caldo, così familiare che ormai la tenuta nello Shire potevo considerarla casa mia. Ogni farfalla volava di fiore in fiore, portando sospiri e allegria, tu come la piccola protagonista di quel libro che ti avevo comprato in Francia, sospiravi e sognavi il nostro Paese delle Meraviglie, chiedendomi se mai fossi divenuto per sempre il tuo bianconiglio. Ma io lo ero già, il tuo coniglio bianco ossessionato dal tempo, dagli errori e dalla dolcezza che solo tu potevi darmi.
Le ombre ben presto calarono su di noi, così arrivò da noi, come tu lo chiamavi Regina, io sussurravo Di Cuori. «Cosa ci fate voi qui?» Il disprezzo dell'invidia.
«State calmo, mylord... io e vostra cugina siamo ormai sposati, quindi non sto macchiando il suo onore...» le mie parole poco coraggiose cercarono di fermare la furia di quella corona ornata invero a pelo di castoro, alta e nera. Ben presto però le sue mani afferrarono il bavero della mia livrea, sollevandomi con i talloni da terra.
Un battito accelerato, di nuovo, di nuovo quegli occhi di neve tornavano a troneggiare nei miei, l'impeto di un respiro smorzato e le labbra dischiuse dalla vergogna.
Era passato tempo, era passato troppo poco tempo dall'ultima volta che quelle dita avevano stretto le mie vesti così. Ancora, era troppo presto, troppo presto per riuscire a non tradire un sospiro deliziato dal contatto con il suo odore, il quale per me... un tempo fu ossigeno.
Dietro a delle siepi curate, fra i roseti bianchi che la regina odiava e voleva tingere di rosso come le tue rose nel giardino d'inverno, dietro a quelle spine l'avevo respirata prima di sigillare il mio amore con te, mia sposa, prima che quella fede strozzasse dolcemente l'anulare sinistro; eppure l'avevo respirata, la regina, così forte che mi aveva avvelenato tagliandomi la testa.
Quel giorno, quell'unica notte avevo sentito i tuoi passi fra le aiuole, i tuoi passi leggeri curiosi, interrogativi su dove era finto il tuo futuro sposo, mi avevi seguito e forse avevi udito i lamenti di due corpi stregati e ammalati. Poi il nulla, il silenzio, la paura era scemata così come l'intossicante odore del brandy che ancora macchiava le nostre bocche e i nostri colli umidi. Convinsi me stesso che non eri tu, che tu non potevi sapere quale disgustoso orrore si era consumato a pochi passi dall'altare.
Ebbene, quando la regina dalla divisa rossa si scontrò con me in mezzo a quel prato di Maggio, quando i miei occhi tornarono a tradire quell'emozione soppressa, quel desiderio sporco e mondo, quando il sguardo ci incriminò credo che fu in quel momento in cui tutto per te divenne chiaro, Alice... il coniglio bianco aveva servito fin troppo bene la regina di cuori, spietata e altezzosa aveva strappato il tuo, lo aveva divorato ignorando che proprio tu più di chiunque altro l'avevi ammirata e amata con tutto te stessa.
Quale grande delusione, quale grande umiliazione, io che avevo fatto di tutto per dimenticare, per renderti la mia Alice felice, avevo tradito la mia maschera da bianconiglio dalle lunghe orecchie a punta, per divenire il demonio bramato dalla lussuria di una Regina troppo crudele per non essere riverita. Ammirata. Rispettata. Scopata.
L'avevi capito Alice, e quella mela del peccato che teneramente stavo donando alle tue labbra pochi minuti prima, venne privata dal suo coltello e la tua furia di cuore spezzato aveva lambito in un primo momento la mia schiena sprovveduta. Cedetti sulle ginocchia, nel tanto che vidi lo stesso gesto rivolto al petto sanguinante del tuo amato cugino, crollò e i nostri petti sussultarono di vermiglio dolore.
«Perdonami, Victoria... perdonami, non è come credi...» provai a mentire, ma mi mancò il fiato, quell'ennesima pugnalata che arrivò il mezzo al mio petto mi aveva sfiancato.
Fu l'ultima volta che ti chiamai per nome.
Tu che lenta ti tirasi a sedere su di me, la mano mi prendesti, insieme impugnammo quel coltello assassino e con disperata gioia nel tuo ventre lo conficcasti.
Urla e strilli. Il vagito di Marianna mai nata si unì al mio pianto disperato, divenni io la madre durante quello scambio di affondi.
Di nuovo la lama trapassò il mio petto.
Di nuovo la lama trapassò il tuo ventre.
Di nuovo il mio pianto sgorgò spezzato.
Di nuovo il suo pianto singhiozzò dall'utero slabbrato.
Fu così che finì la nostra storia, quella che a me pareva essere infinita amore mio, quella di un bacio rubato fra le rose tinte, e il ticchettio di un orologio malato. Ti amavo, ti amo mia Alice, mai più ti chiamai per nome, se non semplicemente Alice. Marianna era morta, e il tuo bianconiglio con lei.
Eravamo morti, anime spente dentro a questo velo opaco.
Furono i giorni a passare, eppure non trovai quella pace che molti raccontano, no, trovai di nuovo te, te sola ad attendermi distesa in quella stanza di bianco terrore. Tuo fratello ci sorrise, io disperato cercai di parlare, ma solo quando gli occhi di lui dolorosi e in lacrime guardarono soltanto te... allora capii.
Capii per quanto un bianconiglio dalla pelliccia scuoiata può capire.
Capii che io ero qui, qui ad amarti a chiedere perdono per ogni mio peccato, per condannare la mia debolezza, cancellare l'incancellabile ricordo di quella Regina di Cuori che tramite la tua mano si era presa le nostre vite.

 

Ed ora che ci resta, mia Alice?
Il pianto del cielo ti accoglie sovrana, ma non ti avrà a te completamente. I tuoi occhi si riaprono e fissano il punteruolo che affilato minacciava la tua palpebra sinistra. Cercavi di dire qualcosa, cercare qualcuno in quella stanza sudicia, famelica di te; cercavi me e io ti cercavo Alice, forse ancora mi potesti vedere... ero lì per amarti, e continuavo a farlo con la mano adagiata sulla tua a darti conforto.
Mi amavi, sapevo che il tuo amore per me era vivo quanto il mio.
Ti amavo, avrei per tutta l'eternità continuato ad amarti.
Siamo così, rilegati in questo mondo per ossessionare l'oggetto del nostro amore. Ci attacchiamo all'amore, perché noi siamo il vero amore, noi anime erranti fra due mondi, sofferenti e costipate di colpe. Non sono pronto per sentire la mancanza delle tue urla, dei tuoi pianti, è troppo presto per dirti un parziale addio. 
Alice, ti perderai, ma noi aspetteremo. Io e Marianna, è troppo presto per lasciarti. È troppo presto per dirti addio, noi non ci diremo mai addio, saremmo sempre qui ad aspettarti Alice. Siamo il tuo Paese delle Meraviglie.

Alice.

Il punteruolo è puntato, fra palpebra e pupilla.

Alice.

Il martelletto è alzato, sentenzioso.

Alice.

Il colpo è partito.

Alice.

Dov'è quel magico paese che tu sai trovar, oltre le nubi o in fondo al mar, oppur dentro di te*?

 

 

 

Note dell'autrice.
Ecco la seconda ed ultima parte, speravo fosse meno “fumosa” e più chiara della precedente... ma a quanto pare mi sono lasciata prendere la mano, e ho preferito lasciarmi andare in questo sogno onirico a metà fra la terra dei vivi e il rimpianto dei morti.
*Le filastrocche con l'asterisco sono ripresi dalla storia originale di Lewis Carroll, il primo è proprio tratta dal libro, mentre la seconda è parte dell'introduzione del film d'animazione prodotto dalla Disney.
**Avrete così notato un cambio continuo di passato e presente, anche una difficoltà di flusso fra la prima e la terza persona... ebbene erano del tutto volute, proprio per lasciare a intravedere la natura "sovrannaturale" del protagonista. Persino alla fine non ho voluto specificare nulla, perché lo stesso genere della storia mi portava a voler lasciare in sospeso il lettore, sperando però in cuor mio che capisse chi fosse realmente l'uomo e la voce narrante, grazie anche ai vari passaggi sconnessi fra i vari tipi di persone narrative. Anche l'epoca e i riferimenti storici sono pochi e lasciati fra il fumoso e il surreale, dopo tutto il racconto non è visto con gli occhi di un uomo vittoriano, ma qualcosa di trascendentale al mondo(per lui), e dagli occhi di una donna malata di isteria e senza contatti con la realtà (per lei).

Grazie per aver letto fino a qua, ed esservi cimentati in questa lettura che so... essere un po' particolare e a tratti impegnativa; non siate timidi a domandarmi chiarimenti o spiegazioni, sono consapevole che il modo di scrivere più “poetico” rende le cose confuse e pochissime volte chiare e palesi. :)

  
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