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Autore: Marlene Ludovikovna    11/07/2014    3 recensioni
1919 - Stoccarda
Tornato dalla trincea da un anno, il sopravvissuto Christian Mueller ricorda il tempo passato con il suo amato Heinz.
Attraverso le parole della sua lettera indirizzata a lui, racconta la straziante storia di due giovani ribelli, che hanno voluto abbandonarsi al destino di martire della guerra fermi nella loro volontà di essere prima persone che soldati, pagando le conseguenze in modi diversi.
Una melodia triste, quella di un amore silenzioso e inquieto raccontato tra le spighe di grano da un uomo distrutto, ma ancora desideroso di vivere.
Genere: Angst, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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LA MELODIA DEI MARTIRI RILUTTANTI



 



 
 

Caro Heinz, 
Sono tornato a Stoccarda, alla fine.  
Alla stazione, quel giorno del 1918, avevo trovato mia moglie Else, che mi si era gettata tra le braccia e io,  affaticato, l'avevo guardata nel modo in cui avrei odiato essere guardato io se fossi stato nella sua situazione.  Con gli occhi persi nel vuoto e colmi di dolore. 
La guardai con lo sguardo di chi pensa che, avendo vissuto la guerrra, aveva un qualcosa in più. Gli occhi di chi aveva la spontanea presunzione che gli altri non potessero capire quello che aveva passato, neanche spiegandolo. E forse era così, alla fin fine, ma pensavo quanto tu non l'avresti sopportato. 
Quando tornai vidi una Stoccarda diversa. I reduci barcollavano nelle povere strade e una città così bella, era intrisa di un così grande patimento. 
Spesso durante il periodo di riabilitazione uscivo a fare quattro passi, andavo fuori città, dove c'era la campagna. 
Camminavo lì, per giornate intere.  
Tra  le mani ce l'avevo ancora, però, quel mesto ricordo racchiuso in quel brandello di coscienza che ero certo nessuno mi avrebbe mai portato via. Era la mia ricchezza, il mio onore. 
Non avrei mai potuto dimenticare, me l'ero ripromesso e sempre me lo promettevo. Ogni giorno. 
Per le strade al nostro rientro – noi, i soldati – venivamo guardati come eroi, eppure ero certo, che dentro di loro ognuno stava combattendo con ciò che vedeva e l'immagine che ne voleva trarre: dei traumatizzati sopravvissuti. 
Senza gambe, senza occhi, senza braccia, senza mente, senza vita. 
Eppure saremmo diventati martiri di un'ideologia. 
Quei fantasmi barcollanti che tornavano con le vesti a brandelli, sperando di riabbracciare i propri cari. 
Meglio la morte della sconfitta, ci dicevano.
E per gran parte del tempo, il mio più grande rimorso era stato che avrei preferito vedere tutta la nazione in ginocchio piuttosto che morire. 
Eppure conoscevo un uomo che a ciò non si sarebbe mai piegato. 
Quell'uomo eri tu, Heinz. 
Al tuo ricordo, al tuo nome, guardo verso l'orizzonte e vedo le case, immerse nel povero grano, distendersi, e spero di vederti lì, con una spiga tra le labbra, sdraiato. In pace. 
Heinz. 
Spero di ritrovarti tra le spighe di grano, di prenderti, di riamarti.
Spero di abbandonarmi dentro di te, accolto dal tuo petto, sostegno per la mia testa, spero di annullarmi nella tua mente, nel tuo corpo. 
Hai giurato che non ti avrebbero mai avuto. Mai. 
Ma perché sei sfuggito anche a me, allora? 

Ricordo che un giorno, quando ci eravamo accampati sulla linea di difesa, aspettando gli inglesi, decidemmo di allontanarci. 
In quella zona boscosa c'erano diversi laghetti, paesaggi belli, sulla buona strada per essere estirpati dalla guerra, che come un cancro s'addensava nell'Europa e la rendeva grigia e mortifera.  
Perché, mi chiedevo, la culla della cultura occidentale, doveva essere ridotta così dai suoi stessi cittadini? 
Mentre guardavo quel paesaggio nei momenti di quiete non potevo fare a meno di domandartelo.  
Quella sera venni a svegliarti nella tua tenda e ti dissi di venire con me. 
Era il nostro segreto, Ludwig. 
Tu venisti con me, cautamente ci addentrammo nel bosco. 
Quando fummo abbastanza lontani ci appostammo. Le nostre schiene appoggiate ad un grosso tronco d'albero. 
Entrambi guardavamo il buio davanti a noi, ne eravamo straziati, consolati beffamente. 
Ti abbandonasti sul mio petto e i tuoi singhiozzi li sentii come miei prima di scoppiare in lacrime anch'io. 
Quando mi iscrissi all'accademia militare avevo sedici anni e un'adorazione per il kaiser.
Quando la guerra iniziò non vedevo l'ora di farmi valere. 
Ora era il 1917 e la mia energia era morta insieme a migliaia di uomini.
Ero un tenente maggiore, tu un soldato di leva, ma dopo il primo massacro non c'era distinzione tra me e te. 
Tu, Heinz, strappato dallo studio della letteratura per andare in guerra. Non l'avevi scelto, io sì. 
Eppure alla fine eravamo vittime allo stesso modo. 
Ti amai, Heinz.  
Infinitamente, incondizionatamente, completamente. 
Ti amai quando dissi che non dovevamo odiare gli inglesi, i francesi, ma coloro che mettono contro dei giovani, degli uomini, delle donne, dei bambini. Non eravamo noi a creare la guerra. 
Ti amai quando dissi che eravamo tutti vittime, ti amai quando dissi che solo gli amanti erano eroi. 
E ti amai quando dissi che c'erano poche cose belle come la felicità di un uomo solo. Un uomo. Un ragazzo. 
Un diciottenne mandato a morire. 
“Perché alla fine non è tutto questo un patibolo? Pensiamo di correre gli uni contro gli altri, ma in realtà è alla morte che veniamo incontro.” Mi dissi. 
Condividevi con me la tua inquietudine. 
Quella sera, mentre mi stringevi a te, con la paura di perdermi e di perderti, mi dissi che non volevi essere un eroe. Non volevi essere ricordato come un soldato, volevi essere ricordato come una persona. 
Volevi che tu fossi Heinz Braumann, non un anonimo morto in una battaglia per la patria. 
E io ti amai Heinz Braumann e ti amo ora. 
Nemmeno il fatto che io dorma ogni sera con mia moglie mi fa dimenticare di te, Heinz. 
Nulla lo farà. 
Ti ho promesso che per me non saresti mai stato un cadavere di guerra e non lo sarai mai. 
 Ricordo ancora del nostro primo incontro. Ero stato costretto ad umiliarti pubblicamente per aver scherzato sull'eroismo dei soldati. 
Una battuta cinica, a cui gli altri sorrisero automaticamente, a cui io dentro di me risposi che era vero. 
Quando sbraitai su di te, il tuo sorriso non venne scalfito minimamente. 
Non era solo che fosse bellissimo, era il fatto che eri un uomo consapevole. 
Sapevi, accettavi, vedevi. 
Era questo che ti permetteva di sorridere: il fatto che in cuor tuo sapevi di aver visto tutto dal modo giusto. 
Quando ti parlai davvero per la prima volta ti trovai fuori dalla tenda, a fumare un sigaro, nella notte che aspettava solerte il giorno della battaglia. 
“Posso prendere una boccata?” Chiesi timidamente. Un bambino costretto a comandare. 
“Certo” risposi tu, scrutandomi dalla luce flebile della lanterna a gasolio. 
Le nuvolette di fumo si persero nell'aria fredda di quella giornata. 
“Sai, hai ragione.” Ti dissi. 
Tu esibisti quel sorriso sereno che tradiva il tuo piede dondolante, il tuo corpo rigido. 
Fu in quel momento che notai quanto fossi bello, giovanile. Avevamo la stessa età. Ragazzi, costretti ad operare per la Morte, fino a concedersi a lei. 
“Lo so” scrollasti le spalle tu. 
Fino a quel momento ti conoscevo solo come soldato Braumann. 
“Qual è il tuo nome, soldato Braumann?” Domandai. 
“Heinz” risposi al buio. 
“è ingiusto vero? Tutto questo, intendo” continuai, fissando il vuoto. 
Tu mi guardasti, sacastico, un sopracciglio innalzato. 
“Sei una loro spia?” 
“No, solo un uomo che si è accorto di come vanno le cose” mormorai. 
Il tuo sguardo vagò pesante su di me. 
“Tu non sei un uomo.” 
Rimasi per un po' sbalordito dalla tua affermazione. 
“Nessuno di noi lo è... Quanti, quanti anni hai?” 
“Ventuno.” 
“Anch'io” mi sussurrasti. 
 Da quel giorno ci parlammo sempre di più e le battaglie si susseguivano aumentando la nostra paura. 
 Paura. 
Cosa c'era di male, per i comandanti graduati, nella paura della morte? 
Morire per una causa non sarebbe valso niente, se quella causa era l'arricchimento dei potenti. Me ne accorgevo, e più lo realizzavo, più realizzavo quanto me ne fossi accorto troppo tardi.  
Ed è grazie a te che l'ho capito Heinz. 
Quando io e te ci tenevamo stretti l'uno all'altro... Solo allora potevo sentirmi a casa per un po'. 
Ricordo che un giorno progettasti di scappare, mi dissi che volevi andartene, cambiare nome e arrivare in America. Lì avresti iniziato una nuova vita, cercando di arraffare, quel rubato attimo di fanciullezza. 
Mi raccontasti, che un giorno, quando stavamo avanzando verso Parigi, uccidesti un uomo e quando vidi il suo volto morente, vidi il tuo, di volto riflesso nel suo. 
Conserverò sempre il foglio stracciato in cui mi hai scritto quel passo da il Werther che ti ripetevi, come una dolce litania, continuamente, ricordandoti che eri un uomo, non un martire. 
E mi recitavi quelle poesie, ogni sera, nel buio. 
Quando ti baciavo il collo, quando ti baciavo le mani, la bocca. 
Si susseguirono e si alternarono massacri a noi, ma il nostro amore, era tutto quello che mi restava. 
E ora è tutto quello che mi resta, Heinz. 
Per quanto ora io sia un uomo solo, circondato da estranei, io non smetterò mai di ricordarti, di amarti. 
Il tuo ricordo è ora la mia ricchezza, amore mio. 

Quando cercasti di scappare, una notte, non mi dissi niente. 
Seppi che eri stato ricatturato e, di notte, fummo tutti costretti ad assistere alla tua esecuzione. 
Fu incaricato di sparare. 
Quando esitai mi pregasti che fui io, solo io. 
Non volevi che loro ti avessero. 
E loro eravamo anche noi. Vittime, carnefici, la morte ci avrebbe resi tutti uguali, unificando il nostro misero fine.
Ti amo, Heinz. 
Ti amai anche quando premetti il grilletto. 
Ti amai quando cadetti a terra senza un lamento e la notte fu riempita dal tonfo della tua massa corporea a contatto con l'umido suolo. 
Le tue poesie, la tua mente, il flusso del pensiero di un genio struggente ora giaceva nel mio ricoro. 
E ora non permetterò che tu sia nemmeno un cadavere tra i tanti disertori. 
Nel mio ricordo vivrà la tua memoria, Heinz Braumann. 
E così nel nome di mio figlio. 
 Quando tornai a Stoccarda, amore mio, dovetti riprendere la mia vita. Non era la trincea a mancarmi – come potrebbe -, ma era la nostra comune sofferenza, la nostra inquietudine, che ora era sostituita da un flebile e biancastro vuoto. 
Io e Else avremo un figlio in settembre. 
Si chiamerà Heinz Christian Mueller.
E so che un giorno morirà anche lui. 
Ti amo.
Ti bacio. 
E ora che ho scritto questa lettera, la butterò nel fiume, perché essa possa scorrere, in eterno. Tra le spighe di grano, tra la fame, tra la Germania distrutta da ciò che disprezzavi. 
Guerra alla guerra mi sussurrasti, una volta, dopo avermi baciato. Nel buio, nascosti, condividendo quell'attrazione istintivamente animale, abbandonandoci al nostro unico rimasuglio di umanità. 
Ora che il vento mi passa fra i capelli che ho lasciato crescere, e le nuvole s'ingrigiscono, annunciando un temporale, provo una nuova completezza. 
E tutto quello che accadrà, dopo, non sarà importante. 
Ora so che tutto quello che ho vissuto era generato da una menzogna ed è grazie a te che l'ho capito, Heinz. 
E tutto quello che conta è che io, - ora e per sempre - sono completamente, totalmente, devoto a te: ti prometto e te lo giuro, che io non sarò mai un martire. Sarò un amante. 
E nulla cambierà questo fatto.
Non lo cambieranno tempeste, né piogge, né guerre, né morte. 
Perché io ti amerò anche quando esse cesseranno di esistere insieme al mondo che le porta. 

Tuo, 
Christian



 
Angolo Autrice.

Whoa, ho appena scritto la mia prima slash.
Ebbene sì, è stato complicato.
Non volevo farla ricadere in un cliché, specialmente per il contesto storico complicato in cui è.
Con questo breve racconto ho appunto voluto descrivere la situazione di due amanti in un contesto crudele, che vuole rinnegare l'umanità del sinoglo individuo.
Questa è la storia di due giovani che vogliono essere più di dei soldati.
Inoltre Christian, che prima si era iscritto all'accademia militare, era preso dalla foga generale in quel momento e nell'istante in cui si è accorto cosa fosse la guerra veramente ha rinnegato tutto quello in cui aveva creduto pur di conservare la sua umanità.
Spero di aver fatto un lavoro decente e, se siete arrivati qui siete degli eroi perché mi immagino quanto questa storia debba essere un macigno ahahahah, ma mi andava di scriverla e me lo sentivo.
Perciò l'ho fatto.
Quindi, questa non è una storia da fangirling, ma è una storia che nasce da un sentimento che sento molto radicato nella mia coscienza.
Quella dell'individualità di ogni essere umano attraverso il suo pensiero e questo si manifesta anche attraverso il sentimento amoroso.
Ebbene.... Spero di non avervi rotto troppo- ma credo di sì AHAHHAH - e spero che questa storia vi sia piaciuta o almeno vi abbia lasciato qualcosa.
Un bacio e alla prossima,


Marlene C. Ludovikovna
   
 
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