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Autore: Michan_Valentine    16/07/2014    4 recensioni
Hojo risveglia Vincent Valentine dal coma ben prima degli avvenimenti di Final Fantasy VII, ansioso di dedicarsi al Progetto Omega. Un anno dopo, Sephiroth ha sei anni e non vuole mangiare.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Sephiroth, Vincent Valentine
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun gioco
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Progetto Jenova: 5 anni dopo.

Buio. Vischioso buio. Ovunque. E il corpo rigido come un pezzo di legno. Si dimenò; ma un unico spasmo gli attraversò le membra. Roteò gli occhi al di sotto delle palpebre serrate: uno sforzo senza eguali. Qualcosa l’avvolgeva da capo a piedi. Gli scorreva sugli arti e lo sosteneva delicatamente. Era sospeso. Eppure quella sensazione non andò a rassicurarlo. Tentò di dimenarsi una seconda volta; e un altro, debole spasmo gli sconquassò il corpo. Delle voci provenivano da lontano. Attutite. Confuse. A fatica schiuse gli occhi e la luce l’accecò. Serrò nuovamente le palpebre e aprì la bocca. Voleva urlare, ma qualcosa gli inondò la cavità orale. Per un lungo, terribile istante gli sembrò di annegare. Si dimenò ancora, violentemente; disperatamente. E impattò contrò la dura, liscia consistenza di qualcosa

Ancora voci. Qualcuno stava guardando. Lo osservava mentre soffriva, mentre il liquido gli occludeva la gola e i suoi polmoni collassavano, esasperati. In un ultimo, violento spasmo piantò i palmi sulla superficie che lo costringeva e aprì gli occhi. Delle sagome bianche si stagliarono dall’altra parte del vetro, indistinte. Lucrecia…?

Sconfitto inalò, lasciando a quella roba la possibilità di invadergli le vie respiratorie; e con sgomento si accorse di poter respirare. Non ebbe il tempo di tranquillizzarsi. Il liquido iniziò a defluire e il suo corpo acquisì pesantezza. Toccò il fondo con i piedi, ma non riuscì a sorreggersi. Suo malgrado finì contro il vetro, riscoprendo ogni muscolo del proprio corpo intontito. Debole. Quasi atrofizzato. Annaspò in cerca d’aria. Quella vera. E il petto divenne un mare di fuoco. Batté le palpebre, ancora e ancora, cercando di riacquistare nitidezza.

Lo sportello s’aprì d’improvviso e finì bocconi per terra, debole e nudo come un verme. Gemette e si rannicchiò su se stesso alla stregua di una bestia ferita a morte.

“Ah!” esclamò qualcuno di cui a stento riusciva a distinguere i piedi; e quella voce stridula andò a ottundergli l’udito, a perforargli il cervello “Così ci incontriamo di nuovo… Vincent Valentine.” soggiunse quello; e gli piantò la punta della scarpa nel costato.

Sobbalzò e strinse i denti, trattenendo un sibilo di dolore. Vincent Valentine? Sì, era il suo nome. E quella voce…

“Professore, i parametri sono stabili. Respira autonomamente e non c’è necessità di terapia cardiotonica. Guardi lei stesso, è incredibile.” commentò un altro individuo. Sollevò stentatamente lo sguardo e nella penombra dell’ambiente intravide una cartella medica ricca di fogli passare da una mano all’altra. “Per sicurezza consiglierei di somministrare integratori salini ed elettroliti. E della creatina per favorire l’attività motoria.”

L’uomo che l’aveva colpito, il professore, assottigliò le palpebre e lasciò scorrere i suoi piccoli, pungenti occhi sulle scartoffie. La luce dei monitor si rifletteva sinistramente sui suoi occhiali ogni volta che annuiva fra sé, mentre valutava assorto le righe del rapporto.

Non sapeva di cosa stessero parlando o cosa ci fosse scritto su quei fogli, ma non gli sembrò nulla di buono. Tanto più che non riusciva a muoversi. Deglutì dolorosamente. La gola, i polmoni gli bruciavano terribilmente. E aveva la bocca secca. Deglutì ancora per scacciare la ruvida sensazione, inutilmente, e cercò di modulare i suoni.

“D-dove… mi trovo… dove…” la sua voce pervenne roca e bassa. In una parola: fioca. Come quella di un vecchio.

Non ottenne risposta. Il professore restituì la cartella all’altro individuo e ribatté, stridulo: “Non ce ne sarà bisogno. Ha una mente semplice. Tuttavia il suo corpo è speciale. Forte. E resistente, devo dire. Si riprenderà. Dopotutto sarebbe dovuto essere morto. Non è così, ragazzo?”

L’ultima parola gli riecheggiò nelle orecchie, carica di scherno, e solleticò ricordi sopiti. Un flash gli attraversò la mente e l’immagine di lei, di Lucrecia, si delineò con estrema nitidezza davanti ai suoi occhi. Eterea, nel suo camice bianco. Lo guardava dall’alto, le mani davanti alla bocca a coprire un urlo muto. Eppure agghiacciante. I lineamenti delicati del suo viso erano stravolti dal dolore; e negli occhi aveva lacrime e rimpianti. Perché lo guardava così? Uno sparo l’assordò, improvviso. Si raggomitolò maggiormente a terra e cacciò un gemito di dolore. Portò la mano al petto e affondò con le unghie nella pelle, annaspando di nuovo in cerca d’aria. Di rimando i polpastrelli incapparono in una lunga, regolare cicatrice che gli attraversava per intero torace e addome. Disegnando una y.

Ora ricordava.  Era andato a parlare con Hojo e quest’ultimo gli aveva sparato a tradimento, intimandogli il silenzio. Eterno. Poi era sopraggiunta lei
Hojo. Digrignò i denti e sollevò lo sguardo sul professore, carico d’astio.

“Tu…” ringhiò, a dispetto del poco fiato “Tu!” ripeté, con più rabbia. E qualcosa s’agitò dentro di lui. Qualcosa di più istintivo. Primordiale.

L’altro inarcò il sopracciglio e lo fissò con noncuranza e una punta di fastidio, come avrebbe fatto con del fango sulle scarpe. L’assistente invece sobbalzò e batté le palpebre, stringendo al petto la cartella coi dati.

“Dov’è lei!? Che c-cosa… che cosa le hai fatto?!” sputò; e fece forza sulle braccia, sulle gambe con tutta l’intenzione di alzarsi, agguantarlo per il bavero e sbatterlo sulla parete più prossima. Inutilmente.

Piombò nuovamente sul pavimento, esausto. Tremiti gli agitavano le membra sottili, deboli. Atrofiche. Per quanto tempo era rimasto immobile in quel contenitore? Troppo, in ogni caso; e ora il dubbio gli divorava l’animo. Assieme a qualcos’altro di cui ignorava l’entità; ma che percepiva dentro di sé. E che gli dava l’impressione di poter osare.  Di poter chiedere di più al proprio, debilitato organismo.

“Lei? Lei…” ripeté Hojo, passandosi le dita sul mento “Ah!” esclamò poi, come folgorato dalla risoluzione di un arduo enigma “Ti riferisci a quella donna, certo.” concluse; e s’aprì in un orrido, untuoso sogghigno “Ha fatto un favore alla scienza… ed è morta, tempo fa.”

Sgranò gli occhi, la bocca e un tremito più violento lo percorse da capo a piedi; mentre lo stomaco sembrava accartocciarsi su se stesso. Morta…? Scosse la testa. Una, due volte; e piantò le unghie a terra. No. No! Non poteva essere. Quel verme di scienziato stava mentendo! Soltanto il giorno prima l’aveva incontrata lungo il corridoio della Shinra Mansion e l’aveva vista arrancare e collassare, stremata dalla gravidanza e dagli esperimenti. Soltanto il giorno prima…
…ma quanti mesi, quanti anni erano trascorsi da allora? La risposta lo spaventò; e la possibilità che le parole di Hojo corrispondessero al vero si fece più concreta. E insopportabile. Un tarlo che l’insidiava e gli toglieva il respiro. Un chiodo piantato nella carne viva. Insinuato saldamente fra la rabbia e la disperazione.

“Sei un bugiardo!” urlò, scuotendo furiosamente la testa e rifiutando l’eventualità “Bugiardo!” reiterò, più forte; e stavolta la voce acquisì le temibili sfumature di un ringhio.

L’assistente fece un passo indietro e andò nervosamente con lo sguardo allo scienziato.

“P-professore, forse dovremmo…” accennò; ma Hojo gli riservò una smorfia e un verso di stizza.

Pusillanime.” rispose, sferzante “Se temi le conseguenze non otterrai mai risultati degni di nota.” continuò, finché l’altro chinò anche il capo; poi rise e tornò a puntare lui con i suoi luminosi occhietti “Vedi, ragazzo…  nella sua mediocrità la dottoressa Crescent ha avuto un’illuminazione. Un brillante colpo di fortuna, se vogliamo. E una tesi assurda e a dir poco ridicola si è rivelata improvvisamente attendibile. E interessante. Chi l’avrebbe mai detto!” lo scienziato si spostò, gesticolando, immerso in astrusi ragionamenti di cui non poteva, né voleva comprendere la grandezza “L’ho chiamato il Progetto Omega.” rivelò “E tu, Vincent Valentine, sarai la mia piccola, obbediente e utile cavia. Ah! Quella stupida non può nemmeno immaginare il favore che mi ha fatto! La mia geniale mente trasformerà la sua insignificante intuizione in una grandiosa scoperta! Un viaggio che innalzerà il mio superiore intelletto fino al mare di stelle e oltre!”

La risata di Hojo tornò a ottundergli l’udito, a perforargli il cervello. Serrò la mandibola, digrignò i denti e lo fissò con odio. Più l’altro parlava, più l’ira aumentava; e più l’ira aumentava, più il calore l’infiammava. E poteva avvertire il sangue scorrergli più velocemente nelle vene, rapido e violento come un fiume in piena; poteva sentire qualcosa battergli selvaggiamente nel petto e rimbombargli perfino nello stomaco, nelle orecchie; e poteva percepire i muscoli contrarsi in spasmi sempre più intensi, più frequenti... più vigorosi. Nemmeno se ne accorse, ma si acquattò al suolo ed espose i denti. Pronto al balzo.

L’assistente tremò e lasciò cadere a terra la cartella medica. Hojo invece non si scompose. Il sogghigno si delineò sul viso emaciato dello scienziato, che arrestò il passo, si sistemò meglio gli occhiali sul naso e lo fissò attentamente.

“Sì, così…” gli disse “Fammi vedere di cosa sei capace. Mostrami che cosa sei diventato.” continuò; e rise, insopportabile “Ah! Scommetto che la piccola mente di quella puttanella lamentosa nemmeno conosceva le vere potenzialità della sua scoperta. È morta nell’ignoranza, poveretta. Ma non temere… io farò di meglio.”

Non voleva ascoltare! Graffiò il pavimento. Ringhiò. E sentì la gola chiudersi in un doloroso, saldo nodo. Il viso di Lucrecia gli passò innanzi agli occhi. Bella, delicata. Fragile. Come il sorriso che le aveva illuminato i lineamenti la prima volta che si erano incontrati; e qualcosa di caldo gli bagnò le gote. Hojo l’aveva uccisa. E lui gli aveva permesso di farlo, quando invece avrebbe dovuto proteggerla. Una colpa troppo grave da sopportare: come le parole impietose dello scienziato. Scavò solchi. Urlò, fino a perdere il fiato. Urlò fino a lacerarsi la gola. Fino a che la voce non divenne un sordo, lugubre e implacabile ruggito. Inconsolabile. Mentre le membra s’ingrossavano, si dilatavano e ricompattavano, modellandosi in maniera innaturale. Inumana.

Infine balzò. Nella mente una sola, semplice consapevolezza: distruggere Hojo. E il mondo intero. Vide lo scienziato arretrare e spingere l’assistente innanzi a sé. Quello sgranò gli occhi, la bocca e urlò, paralizzato dal terrore. Un istante soltanto; poi calò gli artigli su di lui e lo dilaniò con orribile rumore. Percepì appena il calore, l’odore del sangue. Poi tutto divenne buio. Vischioso buio. E perse nuovamente coscienza di sé; affrancato da una frenesia di devastazione che gli apparteneva solo per metà.
 
***
 
Ansimò, inginocchiato fra membra maciullate e irriconoscibili, completamente ricoperto di sangue. Il petto gli si alzava e gli si abbassava a ritmo incredibile. La testa gli girava furiosamente, dandogli la sensazione che presto o tardi sarebbe collassato. Eppure il dolore e l’atrofia dei muscoli non erano che un lontano ricordo. Anzi, non si era mai sentito meglio; e ogni cellula del suo corpo sembrava urlarlo a gran voce, reattiva.

Tremò, deglutì e si portò le mani innanzi al viso. Su di esse il sangue si raggrumava, scuro. Che cosa aveva fatto? Che cosa era diventato? Un mostro, probabilmente. Lo stomaco gli si contrasse e l’acido gli risalì la gola, costringendolo a piegarsi in due e a ricacciare nient’altro che succhi gastrici. Gemette e si passò il dorso della mano sulla bocca, spingendo oltre lo sguardo. Nella stanza regnava il caos. I monitor erano distrutti, le scrivanie divelte, le attrezzature fatte letteralmente a pezzi; e profondi solchi si stendevano su tutte le superfici, come se una bestia feroce avesse sfogato su di esse l’aggressività. La porta blindata era invece ammaccata al centro, scardinata e bloccata in posizione sbilenca all’interno del vano che avrebbe dovuto chiudere. Rabbrividì.

Del rumore bianco si spanse per la stanza. Sconvolto ne cercò il punto di provenienza e sul soffitto intercettò altoparlanti e camere di sorveglianza ancora intonsi. Salvo per gli schizzi di sangue che ne imbrattavano la superficie. Qualcuno lo stava guardando. Studiando, sarebbe stato meglio dire.

“Giorno 1. Il soggetto si è svegliato dopo cinque anni di coma. Non si riscontrano deficit fisici, cognitivi e comportamentali. La rapida ripresa è da attribuire al Chaos Gene. Lo stress favorisce la comparsa della creatura ospite: Chaos. In questo stato il soggetto è fuori controllo.”

Scosse la testa e incurvò le spalle. Chaos…? Non capiva. Ma sapeva che era stato lui a compiere quello scempio. E con orrore tornò a fissarsi le mani; le ginocchia incollate al suolo e fra i resti, appesantite dal senso di colpa. Il pensiero tornò a lei. Lucrecia… la sua Lucrecia non c’era più…

“Che cosa… mi hai fatto…” sussurrò, svuotato; poi s’irrigidì, strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche e puntò con astio la telecamera che stava sulla sommità della parete.

Sapeva che il verme stava guardando, al sicuro da qualche parte in quella struttura.

“Che cosa mi hai fatto?!” urlò “Che cosa hai fatto a lei?! A Lucrecia! È così che si chiamava, omuncolo senz’anima! Non provi nemmeno un po’ di vergogna?!  Lei ti ha dato tutto! Tutto. Se stessa, un figlio… e…”

Ammutolì. Il bambino! Erano passati cinque anni, ma forse era ancora vivo. Chissà dov’era, chissà come stava.

“Dov’è?” chiese quindi “Dov’è il bambino. Il figlio di Lucrecia.” specificò “Voglio vederlo. Fammelo vedere… o giuro che butterò giù tutto. Ogni porta, muro o essere fatto di carne e sangue che si frapporrà fra me e lui.”

Forse era la disperazione a parlare; magari l’adrenalina; o forse la creatura che si annidava dentro di lui. Tuttavia in passato aveva già tentennato e nel preciso momento in cui aveva deciso di andare a parlare con Hojo, cinque anni prima, aveva ponderato di mettere da parte qualsiasi forma di diplomazia. E stavolta non c’era proiettile che avrebbe potuto fermarlo. Lo sentiva dentro, in ogni insignificante cellula di sé.

Non si stupì quando il rumore bianco tornò a spandersi per la stanza. Poi la voce di Hojo giunse dall’altoparlante: “Non vuoi proprio startene buono. Non è così, Vincent Valentine?”
 
Ah... ah... ah... =_='' Lol. Scusate. È che non ho potuto resistere. oo Certe idee vogliono venire fuori a tutti i costi. Solo che... boh... ora mi sento demoralizzata. ^^' Avete presente la pubblicità dei panini del Mc Donalds? Dove i panini sono bellerrimi e gustosissimi a guardarli? E poi quando andate al Mc Donalds vi danno lo stesso panino dieci volte più brutto e un'infinità di volte meno appetitoso? Ecco. oo A me è capitato lo stesso con 'sta roba scritta qua. ^^'' Nella mia mente sembrava la pubblicità del Mc Donalds... e poi, una volta butatta giù... <-<'' Boh. ç_ç Siate clementi. >_<
A proposito... Vincent potrebbe apparire un po' OOC. oo Però cappio, in questa situazione non ce lo vedevo proprio a restare calmo! xD Lol.
CompaH
   
 
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