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Autore: RobynODriscoll    04/08/2014    14 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Epilogo
 
21 Marzo 1514. Monteriggioni.
 
Era da quella mattina che volevo dirglielo, ma sapete com'è fatto Martino. Non è semplice tenerlo fermo per più di due minuti, né trovare un attimo sereno ma sufficientemente serio per il genere di notizia che stavo per dargli.
Mio marito aveva trascorso l'ultimo mese in Cappadocia, ed era tornato da appena due giorni. La maggior parte delle ultime ore le avevamo trascorse nel nostro letto, intenti a recuperare il tempo perduto. Perché non gliel'avevo detto allora, nell'intimità della nostra camera? Be', un po' perché non avevo trovato le parole, e un po' perché non ne avevo ancora la certezza: insomma, non sarebbe stata certo la prima volta che il mio ciclo femminile saltava un mese. Che ne avesse saltati due, però, era decisamente più insolito. Quella mattina, mentre Martino e gli altri erano indaffarati per i preparativi del banchetto, la levatrice mi aveva visitata nella riservatezza del nostro casale, togliendomi ogni ulteriore dubbio.
Come mi sentivo a riguardo? Confusa, decisamente. Non che non lo volessi: l'avevo sperato, soprattutto per Martino. Sapevo quanto avrebbe desiderato una famiglia numerosa, come quella da cui proveniva. Tuttavia, come vi ho detto, sapevo anche che gli infusi che avevo assunto nel corso degli anni per evitare proprio quell'eventualità potevano avere danneggiato la mia capacità di concepire. Mi ero messa il cuore in pace, ormai.
A quanto pare, troppo presto.
Una volta che la levatrice se ne fu andata, rimasi a sedere sul letto, con le mani abbandonate sul materasso e gli occhi incollati alle ginocchia. Iniziai a pensare che non ero pronta, che non lo sarei stata mai. Che non avrei potuto più arrampicarmi sui tetti e che avrei dovuto rinunciare alle missioni attive per moltissimo tempo. Iniziai a lasciarmi travolgere dal panico, e mi passai la mano sulla fronte gelida, poi sul viso. No, non era il momento. Sarei stata una madre terribile. Non sapevo nemmeno da che parte cominciare.
«Ecco dov'eri. Ti abbiamo cercata dappertutto questa mattina.» Zia Claudia si affacciò alla porta della mia stanza con la solita aria battagliera che assumeva quando si incaricava di portare un compito a termine. «Faresti proprio di tutto per evitare di aiutarci,  vero?»
Le sorrisi pallidamente. Era un giorno di festa a Monteriggioni: Emilia avrebbe compiuto tre anni. Non volevo rubare quel giorno, che apparteneva di diritto alla mia figlioccia: perciò, mi ripromisi mentalmente di non cedere e di non parlarne con zia Claudia. Non ne avrei fatto parola con nessuno, se non con mio marito, fino all'indomani.
Lo sguardo acuto di zia Claudia mi scrutò. “Stai bene?”
“Sì...sono solo un po’ stanca.”
“Hai spesso dei piccoli malori, ultimamente.” Inquisitoria come sempre quando voleva celare la preoccupazione, la zia marciò verso di me e mi toccò la fronte. Poi, mi guardò negli occhi. “Sei molto bella.”
Accennai ad un sorriso. “Lo dite come se fosse una novità!”
“Radiosa, direi quasi. Insolito per te, molto insolito.”
Perfetto. Avevo fatto un ottimo lavoro nel nascondere il mio segreto.
“Zia, io...”
“Devi dirmi qualcosa, Bianca?”
“Deve dirvi cosa, madre?”
Lisabetta entrò zufolando, con un sorriso leggero a distenderle i lineamenti. Mia cugina avrebbe compiuto tredici anni quell’estate, e dal boccio di bambina già iniziava a fiorire una rosa stupenda. I suoi lineamenti regolari, uniti agli intensi occhi scuri, dagli angoli un po’ inclinati verso il basso, che aveva ereditato dal padre, catalizzavano gli sguardi sul suo volto; il suo sorriso pronto che si apriva tra le adorabili lentiggini le dava un’aria di allegra grazia. Si appoggiò allo stipite, e mi rivolse un’occhiata scandalizzata quando si rese conto che non ero ancora vestita.
“Bianca, cosa fai! Veronica ha bisogno del tuo aiuto con gli addobbi, ti cerca da un’ora.”
Mi strinsi nelle spalle, alzandomi per raggiungere il guardaroba. “Se Veronica mi cerca, Veronica mi avrà! Mi aiuti a scegliere un abito, Betta?”
Mia cugina annuì con entusiasmo: adorava i capi di vestiario, aveva ereditato dalla madre il gusto per gli abiti, le stoffe e gli accostamenti.
“Bianca.”
La voce della zia era seria. Mi guardò per un lungo momento. Io cercai di mantenere il sorriso spensierato in viso.
Infine, zia Claudia sospirò. “Ne riparleremo,” disse, prima di uscire dal casale – non senza aver raccomandato a Lisabetta e me di fare più in fretta possibile.
Una volta che fu uscita, sospirai a mia volta. Betta stava estraendo alcuni dei miei abiti, ricordo di quando ero stata una dama alla corte di Mantova.
“Oh, questo!” squittì, mostrandomi un abito di broccato azzurro, con ricami di perle di fiume sul corpetto e sulle maniche.
Sorrisi. “Pensavo che il tuo colore preferito del momento fosse il rosso.”
Lei storse il nasino all’insù. “No, è superato ormai. Ora ho scoperto i pregi delle tonalità del blu. Metterà in risalto i tuoi occhi!”
Mi stava allacciando i lacci del corpetto, quando disse: “Ti ho salvato solo provvisoriamente, sai? La mamma tornerà                                                                                                                                                                                                                                                               alla carica stasera, dopo la festa.”
Roteai gli occhi al cielo. “Tua madre sa sempre come ottenere le informazioni che desidera...ma stavolta dovrà aspettare domani.”
“Guarda che se vuoi che sembri sorpresa dovrai sforzarti un po’ di più per nasconderlo.”
Mi voltai di scatto verso di lei, dando un involontario strattone al corpetto. “Come?”
Mia cugina mi rivolse un sorriso furbo. “Non sono una bambina, Bianca, sai? Ho incrociato la levatrice mentre venivo qui. Non ci sono casali dove abitino altre possibili future madri, nei dintorni.”
“Tu...non dovresti nemmeno pensare a quante possibili future madri possono esserci nei dintorni, santo cielo!”
“Perché?” Il volto di Lisabetta era tutto innocenza. “Sono abbastanza grande da sapere che i bambini non si trovano sotto i cavoli...questo non vuol mica dire che io conosca i sordidi dettagli!” ammiccò, per poi ridere.  Quindi, si fece di nuovo seria. “A parte, ecco, se te lo chiede mia madre. Nel qual caso, sono certa che i bambini germoglino sotto le foglie del cavolo, e non ho idea che esistano dei sordidi dettagli.”
Questo strappò a me una risata di cuore, facendomi dimenticare che probabilmente avrei dovuto preoccuparmi del fatto che la mia cuginetta fosse così perspicace. Non potevo farci niente. Adoravo la sua mente acuta e la sua lingua pronta, che la rendevano un meraviglioso insieme dei caratteri dei suoi genitori.
Fino a quel momento, pensai, era andato tutto bene. Avevo incontrato soltanto due dei miei famigliari quella mattina, e tutte e due avevano carpito senza difficoltà il mio segreto.
Facendole promettere che non avrebbe parlato delle sue intuizioni con nessuno, la scortai al borgo. Qui, rimasi sorpresa di vedere che nello spiazzo antistante la Villa, dove ci eravamo allenati tante volte da ragazzi, erano stati eretti dei pali da cui grondavano decorazioni di fiori, drappi di stoffe vivaci e nastri colorati intrecciati tra loro a formare arzigogoli complicati.
Veronica se ne stava in basso, nel suo vestito in amoerro verde oliva, le braccia incrociate al petto che le appiattivano l’abito sull’addome, evidenziando la sua nuova gravidanza. Era incinta di cinque mesi, elegantissima, e più agguerrita che mai.
“Si può sapere che stai combinando, con quelle mani da scimmione? Così rovinerai tutto, smettila subito!”
L’oggetto di tali amorevoli consigli era nientepopodimeno che mio marito, arrampicato al palo. Martino si sorreggeva solo con la forza delle gambe, mentre le sue mani così graziosamente descritte cercavano di sbrogliare il goffo nodo tra due drappi.
“Aspetta solo che scodelli il pupo” brontolò, senza smettere di sorridere per un attimo “e te sfido a duello, sa’?”
“Umph. Potrei batterti anche con il pancione, ma hai ragione, sarebbe troppo umiliante per te.”
Quando Agamennone e Veronica ci avevano annunciato di attendere un altro figlio, eravamo stati felici, certo. Eppure, avevo visto subito quell’ombra di invidia nello sguardo di Martino. Ne avevamo parlato. Il succo del suo discorso era stato: ti amo, voglio stare con te, se un bambino arriverà sarà qualcosa in più, se non arriverà pazienza. Non è che non credessi alle sue parole, davvero. Erano i suoi occhi, a non crederci. Sapevo che mi avrebbe sempre amato e non mi avrebbe mai fatto pesare quella mancanza nel nostro rapporto, ma per lui era molto più importante di quel pazienza detto con noncuranza.
Trattenni appena l’istinto di sfiorarmi il ventre. Martino sarebbe stato felice. E io? Perché non riuscivo ad esserlo?
“Posso parlare con lo scimmione due minuti?”
“Questa visione ‘n azzurro me po’ pallà quanto vole” ammiccò Martino, fischiando mentre squadrava il mio vestito.
“Aspetta, lavativa: ho del lavoro anche per te.” Veronica si voltò verso di me con il suo sguardo più esigente. “Sangiovese o Chianti?”
“Perché scegliere?”
“Ottimo, puoi portare gli orci di entrambi alla Villa, allora. Il mastro vinaio li ha appena scaricati...in totale non sono più di venti, tranquilla.”
Puntellai le braccia sui fianchi. “Ci hai preso per i tuoi schiavi personali?”
Lei sbattè i grandi occhioni castani. “Oh. Perdonami. Vorrà dire che li porterò da sola...ci metterò un po’ di tempo, ma dopo tutto credo di potercela fare. Se il bambino non scalcia troppo non dovrei avere problemi...”
“Smettila. Sei tremenda quando cerchi di fare la vittima, non ti si addice.”
Lei sogghignò. “Se non ti va puoi sempre delegare.  È una tattica che sto iniziando ad apprezzare.”
Fu allora che Emilia arrivò correndo, per aggrapparti alle gonne della madre. “Mamma! Mamma!” urlò, eccitata. “Papà mi ha fatto il regalo più bello del mondo! Mi ha regalato il sole!”
Agamennone seguiva la sua bionda figlia di qualche passo. Si strinse nelle spalle. “Non proprio il sole, Emilia. Solo un modo per guardare il sole.”
Raccolse la bambina tra le braccia, e le calcò sul naso un paio di occhialetti a molla come quelli che portava Jacopo. Le lenti, però, erano state annerite, probabilmente sulla fiamma. Al mio sguardo perplesso, Mennone replicò: “Così non si rovinerà gli occhi. Ha sempre il naso per aria.”
“A chi somiglierà mai?” sospirò Veronica, cercando di celare un sorriso.
“Ehi! Milla, bbella de zio, guarda ‘n po’ quassù? Io ce sto pe’ davero, pe’ aria, artro che ‘r sole! So’ pure più bbello, eh?”
Attraverso le sue lenti annerite, Emilia fissò Martino che la salutava con la mano, e disse, tutta compita. “No zio, tu non sei per aria come il sole. Sei solo arrampicato su un palo.”
Ed ecco la logica infallibile e un po’ cinica di sua madre che si manifestava. Scoppiammo tutti a ridere, e mentre le pizzicavo la guancia, lo giuro,  avevo dimenticato perché ero venuta fin lì.
Poi, Martino scese dal palo, e il mio cuore fece un balzo fino alla gola. Non era certo vestito a festa come noi altri: i pantalonacci da lavoro erano sgualciti, la camicia era aperta sul petto e arrotolata sulle maniche...tuttavia, lo ammetto, offriva uno spettavolo molto più seducente di tutti i completi eleganti che potesse indossare.
Per scherzo, mi rivolse un inchino elaborato.
“Allora, mia bella madama...posso aiutarvi con quegli orci di vino?”
“Non ce n’è bisogno” si affrettò a dire Agamennone, ma io lo fermai. “Non dire sciocchezze, ci rendiamo utili volentieri. Ci vediamo tra un attimo.”
Con quella scusa, trascinai via Martino. Lui afferrò una grossa anfora e se la sistemò in spalla; quindi, con la mano libera mi aiutò a portarne un’altra su per i gradini che portavano alla Villa.
“Sta’ attenta, ‘a rossa s’è messa a comannà ‘n casa tua” scherzò mentre salivamo la scalinata.
“Ah, lo sai che è tutta scena. E poi direi che possiamo lasciarle l’illusione del comando, il giorno del compleanno di sua figlia.”
“E se poi je dà alla testa? Se ce fa appennere quelle schifezze de nastri e nastrini pure fori dar casale?”
Gli sorrisi. “No di certo. Il casale è territorio proibito, lì prendiamo le decisioni solo io e te.” Mi fermai un attimo, facendo cenno di poggiare l’anfora. Lui credette che fossi stanca, e ne sembrò stupito. “A proposito di decisioni...devo parlarti di una cosa.”
Lui ricambiò il sorriso. “Dimme tutto, Biancarè. Finché ‘r capo nun ce vede, sbrigate!”
Non sospettava minimamente di cosa stessi per parlargli, ne sono certa. E non lo avrebbe saputo ancora per un po’, perché una voce tuonò dall’arena di addestramento:
“Perdio, non ci posso credere! Uno torna dopo quattro anni di prigione e trova che vi state riproducendo come funghi!”
Bartolomeo. Bartolomeo d’Alviano...era libero. Ed era qui!
Martino dovette notare la mia commossa sorpresa, perché poggiò anche il suo orcio.
“Me sa che dovemo rimannà...m’o dici più tardi, d’accordo?”
Annuii. Sì, glielo avrei detto più tardi.
Scoprii presto che zio Ugo non aveva portato da Venezia soltanto Bartolomeo, ma anche la mia adorata Suor Teodora.  Se salutai quest’ultima con un bacio e un abbraccio affettuoso, quando fu il turno del condottiero gli gettai le braccia intorno al collo taurino, e lui mi sollevò, stringendomi forte.
“La mia seconda Bianca preferita!” rise, con il suo vocione che rimbombava nel petto cavernoso. Dio, quanto mi era mancato. Era stato prigioniero dei francesi per quattro anni, ed era stato rilasciato da pochi mesi soltanto. Gli scrutai il volto: non portava segni evidenti di privazioni e sofferenza. Se conosco Bartolomeo, credo che appena libero abbia ripreso a divorare la vita a grandi morsi, fino a cancellare ogni traccia di quella lunga prigionia che gliela aveva quasi portata via.
Gli chiedemmo di raccontare del rilascio; lui, invece, si avvicinò con una sorta di stupita venerazione alla piccola Emilia, che stava in braccio a suo padre. “Che io sia dannato...”
Entrambe Veronica e Suor Teodora gli rivolsero un’occhiataccia. L’omone tossì. “Voglio dire: accidentaccio...chi è questa bella madamina?”
Emilia guardò suo padre. Agamennone annuì, per incoraggiarla a parlare. Lei sgranò i grandi occhi scuri: di solito era piuttosto timida con gli estranei. Tuttavia, Bartolomeo doveva starle simpatico: continuava a fissare i suoi baffi.
“Sono Emilia, messere. E tu chi sei?”
Mi aspettai che il mercenario scoppiasse in un’altra risata e scherzasse, invece parve inspiegabilmente commosso. Chinò un poco la testa, e con i modi più cortesi che gli avessi mai sentito usare disse: “Bartolomeo d’Alviano, madamina Emilia: per servirvi.”
Quindi, strizzò l’occhio a Veronica. “Interessata a combinare un matrimonio? Entro la fine dell’anno potrei avere un promesso sposo da offrirvi.”
La mia amica inarcò un sopracciglio. “Vi state davvero offrendo di fare da sensale a mia figlia, Maestro?”
Entrambi Ugo e Suor Teodora risero. La donna poggiò una mano sul braccio del condottiero.
“Quel che il nostro comune amico vuole dire, è che lui e la signora Pantasilea aspettano un figlio.”[1]
Le esclamazioni di sorpresa e gioia esplosero tutte insieme. Ci furono congratulazioni e pacche sulla spalla.
“Devo rendervi la vostra spada, Maestro!” esclamai, ricordando in quel momento della mia omonima di acciaio che riposava nella teca d’onore dell’armeria di mio padre. “La rivorrete, ora che siete libero...un giorno vorrete darla a vostro figlio.”
Lui scosse forte il capo. “No, tienila tu. Quando mio figlio sarà abbastanza grande, verrà a reclamarla da te...a condizione che ti batta in un duello alla pari.”
“E se fosse una figlia?” lo rimbeccò Ugo.
Bartolomeo sospirò. “Se sarà una figlia, dovrà sconfiggere Bianca in un duello impari. Per tutti i diavoli danzanti dell’inferno, ragazza mia: se prende anche solo la metà dell’astuzia di sua madre, dovrai partire avvantaggiata per riuscire a batterla!”
Risero tutti, di nuovo. Io sorridevo, ma dentro mi sentivo in qualche modo...confusa. Tutti intorno a me sembravano avere bambini, con una serena noncuranza che mi sorprendeva. Eravamo guerrieri. Eravamo assassini. Avremmo portato dei figli in un mondo che era in pace solo transitoriamente. Come potevano essere tutti così calmi?
Come sempre estremamente ricettiva ai cambi di umore di chi la circondava, Suor Teodora mi prese a braccetto, e sussurrò al mio orecchio: “Mi accompagneresti alla chiesa del borgo, mia cara? Il viaggio è stato lungo, sento il bisogno di raccogliermi in preghiera prima di prendere parte ai preparativi della festa.”
La chiesa non era esattamente il mio luogo preferito di Monteriggioni, ma fui felice di avere una scusa per allontanarmi un momento dagli altri. Dovevo elaborare la notizia di Bartolomeo, quando ancora non avevo elaborato del tutto quella che presto avrei dovuto dare a Martino.
 
La strada era breve, ma Suor Teodora riuscì in quel lasso di tempo a chiedermi di Leonardo. Mi rilassai un po’, raccontando ciò che Ilaria aveva scritto di lui nelle ultime lettere. Il mio nipotino aveva compiuto da poco quattro anni, adorava i cani e già giocava con una spada di legno; si sbucciava spesso le ginocchia, ma inghiottita la paura con il primo fiotto di lacrime si metteva a ridere e si rialzava di nuovo: niente avrebbe potuto tenerlo lontano dal raggiungere ciò che voleva.
“È un tratto di famiglia,” sorrise la suora. Io distolsi lo sguardo.
“Immagino di sì.”
“E dimmi, lui e sua madre verranno, quest’oggi?”
“Non credo. Dopo...” Sospirai, prendendomi un attimo per riformulare la frase. “Nell’ultimo anno Ilaria ha voluto prendere le distanze. Mi scrive, ma preferisce non incontrarci. Con tutto quello che è successo, io...non riesco a biasimarla.”
“Capisco.”
Eravamo sulla soglia della chiesetta. Io mi fermai. Le dita sottili di Teodora si strinsero più forte intorno al mio braccio.
“Ti prego, entra con me.”
“Io non...”
“È un posto come un altro dove possiamo parlare in pace, non credi?” Mi strizzò l’occhio. Io battei le palpebre.
“D’accordo.”
Osservai la devozione con cui Teodora si inginocchiò di fronte all’altare, facendosi il segno della croce  e giungendo le mani in preghiera. Le sue labbra danzavano sulle parole di un inno silenzioso. La osservai, senza replicare nessuno di quei gesti che erano così estranei a tutto ciò che ero. Pur essendo stata un’Assassina per la maggior parte della sua vita, Teodora non aveva mai perso la sua fede. Come poteva esserci riuscita?
Quando ebbe terminato la sua preghiera, Teodora mi fece un genno gentile per chiedermi di aiutarla a rialzarsi. Le fui accanto. Che strano pensare a lei come un’anziana suora. La ricordavo ancora quando, bellissima e ammaliante predicatrice del Vangelo della Carne, faceva ingelosire mia madre con la sua presenza al Palazzo della Seta, e mi spiegava che, nonostante  il suo goffo imbarazzo nei miei confronti, mio padre mi amava.
Sedemmo su una panca, e Teodora mi prese la mano.
“Ed ora, vuoi dirmi cosa ti turba tanto?”
Serrai forte le labbra, e abbassai gli occhi sulle mie ginocchia. Mi era impossibile guardarla in viso e non sentirmi ancora una bambina smarrita.
“Questa mattina ne ho avuto la conferma. Sono incinta.”
“Oh, Bianca!” La stretta della sua mano si fece più forte, la voce suonava incrinata da una risata commossa. “Bartolomeo ha ragione, non vi possiamo lasciare un attimo da soli!”
Poi, visto che non mi univo alla sua allegria, si fece di nuovo seria. “Capisco. Non lo sa ancora nessuno?”
“Sto cercando il momento giusto per dirlo a mio marito.”
La suora annuì.  Dopo un attimo di silenzio, disse: “Il primo anniversario è passato da poco.”
Ero sorpresa, ma non poi tanto. Forse, mi stupì di più la rapidità con cui il mio cuore comprese ciò di cui stava parlando. Possibile che la causa di quella sorda sofferenza fosse proprio la data appena trascorsa?
“L’undici marzo di un anno fa, io ho ucciso mio fratello.”
“Per misericordia, Bianca. Perché stava soffrendo.”
“Gli ho piantato una lama nel cuore, come mi ero ripromessa di fare. Mi è spirato tra le braccia, come avevo sognato per tanto tempo nelle mie fantasie di vendetta.”
“E quando l’hai fatto, hai provato gioia?”
Scossi il capo, e serrai forte le palpebre. “Io non capisco, sorella. Veronica e Agamennone avranno un secondo bambino molto presto, e anche Bartolomeo diventerà padre, e...come sanno che saranno bravi genitori? Come possono essere certi che i loro figli non soffriranno per i loro errori? La guerra ricomincerà, prima o poi, e le vite di questi bambini potrebbero finire in prima linea, e...”
“Bianca, ora ascolta.” Teodora mi alzò il viso. Mi zittii, quando incontrai i suoi occhi. “Tu meriti di essere felice. Quello che è successo non è colpa tua. I tuoi figli non sono condannati a seguire la tua strada, né quella di tuo fratello. È vero, cose orribili possono accadere, come quelle che hanno diviso te e Vanni...ma ogni nuovo futuro è ancora tutto da scrivere, ed è qualcosa su cui vale sempre la pena di scommettere. Dai a te stessa un’opportunità...dalla a questo bambino.”
Cercai di ricacciare indietro le lacrime, e le posi la domanda che veramente mi schiacciava il cuore.
“Riuscirò ad essere una buona Assassina e una buona madre nello stesso tempo?”
Lei sorrise.
“Ora ti dirò una cosa che non ti ho mai detto. Sai che conoscevo tuo padre da diverso tempo, prima che tu venissi al mondo, sono stata tra coloro che l’hanno iniziato all’Ordine. Ebbene: da quando sei entrata nella vita di Ezio, tu l’hai cambiato. L’hai reso un guerriero più coscienzioso, un capo più attento, un uomo migliore. Apri il cuore a tuo figlio, Bianca...tutto il resto verrà da sé.”
La abbracciai, forte, seppellendo il volto sulla sua spalla. Erano passati più di vent’anni, e ancora mi sentivo più sicura nel suo abbraccio. Erano passati più di vent’anni, e ancora Suor Teodora aveva mille cose da spiegarmi sull’amore.
 
Non ebbi occasione di parlare con Martino per tutto il pomeriggio, e tanto meno quando la festa iniziò. Ci furono i giochi, le corse con i sacchi, l’albero della cuccagna. Quel giorno l’Ordine smise la sua divisa bianca e rossa per vestirsi a festa, e celebrare la vita di Emilia, che ci aveva riportato la primavera. Era davvero un’occasione straordinaria: Diamante beveva serena e scambiava facezie con Ugo e Claudia, Oreste era stato convinto da una snervante Lisabetta a suonare il liuto, Guido giocava spensierato con gli altri bambini e Niccolò invitava, titubante, una ragazzina del borgo a danzare. Anche io ballai, e mi divertii, escludendo ogni pensiero cattivo dalla mente: ma non toccai il vino. Quando, con la testa che ancora girava per l’ultima danza in cui Martino mi aveva trascinato, gli chiesi di sedermi e infliggere le sue doti di ballerino a qualche altra dama, lui mi lasciò con un bacio sulle labbra. Osservai la sua figura splendidamente modellata mentre si allontanava. Aveva cambiato la tenuta disordinata di poco prima in un farsetto nero e bronzo, camicia di un bianco brillante, calzamaglia e stivali. Era stupendo. Lo amavo da morire. E, adesso che Teodora aveva messo pace nel mio cuore, non vedevo l’ora di confessargli il segreto. Fantasticavo sul momento adatto. Forse, dopo l’avrei trascinato nei giardini, strappandolo a quel clima di festa che tanto amava. O forse lo avrei fatto quella notte, dopo aver fatto l’amore nel nostro casale.  Mi versai dell’acqua, una scelta a cui Rosa, seduta accanto a me, inarcò il sopracciglio.
“Chi sei, tu? Cosa ne hai fatto di mia figlia?”
Le sorrisi, dopo aver preso un refrigerante sorso. “Mamma, ti prego. Non sono così dedita al vino come credi.”
Rosa mi rivolse un sogghigno, poggiando il gomito sul tavolo e il mento sul pugno.  “No, mi riferivo al sorriso. Ti dona, sai? Dovresti fare pratica più spesso.”
Posai il bicchiere, e mi sistemai le ciocche che erano sfuggite dalla semplice acconciatura. “Ne ho tutta l’intenzione. Chissà, forse potrei riuscire a farvi sorridere tutti quanti, molto presto.”
Mia madre ammiccò. “Vuoi dire che finalmente hai deciso di dire a tutti del bambino?”
Sentii la mia bocca che si schiudeva, come quella di un idiota. Non era possibile...anche lei!
“Come l’hai...”
“Sono tua madre, Bianca. L’ho capito prima ancora che tu avessi il primo sospetto...stavo solo aspettando di vedere quanto ci avresti messo a confessare.”
La situazione era tutt’altro che divertente; eppure, spinta dall’euforia che la danza e il clima di festa mi avevano lasciato addosso, scoppiai a ridere. “Zia Claudia, Lisabetta, perfino Teodora...e tu, naturalmente! Credevo di essere così brava a mantenere i segreti.”
“Non questo genere di segreti, e non alle donne della tua famiglia.”
Rivolsi un’occhiata a Ezio, intento a scambiare motteggi con Bartolomeo dall’altro capo della tavolata. “Anche lui lo sa?”
Rosa storse il naso e mi scoccò un’occhiata complice. “Bianca, è un uomo. Ed è tuo padre, il che significa che non può nemmeno concepire l’idea.”
“Credete che non ne sarà felice?”
“Oh, lo sarà. Ma gli ci vorrà un po’ per accettare che sei davvero diventata grande.”  Mi prese la mano, la strinse. “Cosa aspetti? Vai a dirlo a Martino.”
“Ma...la festa...è il giorno di Milla...”
Rosa mi rivolse uno di quei sorrisi enigmatici che rendevano il suo volto impareggiabilmente bello, con tutte le sue rughe.
“È un giorno di felicità, e di quella non ce n’è mai troppa. Coraggio...” Mi indicò che Martino si era seduto accanto ad Agamennone, e stava tenendo banco mentre raccontava una delle sue mirabolanti avventure in Francia, infarcita di dettagli fantasiosi che naturalmente non avevano alcuna attinenza con la realtà.
Sospirai, e mi alzai dal tavolo, decisa. Mia madre aveva ragione. Era il momento di dirglielo.
“Biancarella, meno male che sei arrivata!” sospirò Veronica. “Cerca di spiegare a questo pazzo che i liocorni non esistono, e non può averne visto uno abbeverarsi nella Senna.”
Martino storse le labbra in una smorfia giocosa. “A Vero’, sei ‘r pubblico più lagnoso che c’ho avuto mai! E rilassate ‘n po’ pe’ ‘na vorta.”
“A me piaceva la storia. E anche a Emilia, fino a che è riuscita a tenere gli occhi aperti” aggiunse Agamennone, cullando tra le braccia sua figlia che, nonostante il rumore tutto intorno, sbadigliava forte e gli sonnecchiava sulla spalla. Accarezzai i capelli di Emilia. Povera piccola, aveva giocato così tanto quel giorno che ora era estenuata.
“È ora di portare la piccola a letto” annunciò Veronica.
“Posso farlo da solo” si offrì Agamennone, ma sua moglie accennò ad un sorriso.
“Non se ne parla. Ricordi? Abbiamo promesso di non spezzare più nessun rito. “ Veronica si rivolse a noi. “Torniamo tra dieci minuti. Nel frattempo, non farti convincere da tuo marito dell’esistenza della Chimera.”
“La Chimera? Ma certo che esiste!” scherzai, poggiando le mani sulle spalle di Martino. “Ne ho sposata una.”
“Ah, ah. Morto divertente, Biancarè. Se io so’ ‘na chimera, tu sei...”
“...un’arpia, lo so. Puoi cambiare mostro mitologico, ogni tanto? Altrimenti è difficile per me trovare nuovi modi per prenderti in giro.”
Mentre i nostri amici si allontanavano, feci per sedermi nella sedia lasciata vuota da Agamennone. Martino non me lo permise, e mi attirò invece a sedere sulle sue gambe. Mi strinse per qualche istante.
“Stai annanno benissimo, Biancarè.”
Gli accarezzai i ricci neri, scrutandolo intensamente. Possibile avesse capito anche lui, dannazione?
“Che vuoi dire?”
“Vojo di’ che so che oggi è stata ‘na giornata difficile pe’ te, ma stai reaggendo benissimo. Nun te devi fa’ probblemi, ‘o sai. Er pupo nostro ariverà quanno sarà ‘r momento ggiusto.”
Il cuore mi si strinse in una morsa. Dolce Martino, così attento e tenero.
Gli baciai le labbra con delicatezza.  “Forse il momento giusto non è così lontano.”
Lui mi guardò con aria interrogativa.  Mi chiesi se davvero non avesse colto, o se non volesse sperare. Così, sorridendo, mi sporsi sul suo orecchio, per sussurrare:
“La levatrice l’ha confermato stamattina. Presto sarai papà.”
Solo un attimo di silenzio, teso, emozionato, perfetto.
Poi, esplose il suo grido.
«Sei incinta?»
Sì, lo gridò proprio, e tutta la sala si voltò come un solo uomo verso di noi. Mi ritrovai, imbarazzata e confusa, a fissare tutti quei volti...
...ma non feci in tempo nemmeno a protestare per tanta veemenza, perché Martino si alzò in piedi, con me in braccio. Scoppiò a ridere, facendomi girare come un pazzo, tanto che strappò una risata anche a me mentre mi aggrappavo alle sue spalle. Poi si fermò, mi lasciò scendere, continuando però a tenermi stretta. Mi guardò negli occhi. Fui travolta dall'enorme amore che vi lessi dentro. Sentii le labbra tremare, e per fermarle cercai le sue. Il suo sorriso contro il mio sorriso.
Martino ricambiò con intensità, e mi sorrise ancora, come un bambino.
 «Core mio...dimme che nun sto a sognà.»
Scossi la testa. «È tutto vero.»
Mi accarezzò il viso con tanta commossa dolcezza che quasi mi venne da piangere. Davvero avevo pensato, anche solo per poche ore, di non volere questo figlio?
Mio marito si rivolse alla sala che vociava intorno a noi. 
«Aò, ma avete sentito? Biancarè aspetta 'n pupo! Diventiamo genitori!»
A quella conferma, nella sala dei banchetti esplose letteralmente un boato. Tutti quei volti che amavo erano deformati dall’allegria, dall’entusiasmo...per me, perché la mia felicità era la loro.
Proprio in quel momento, Veronica e Agamennone si affacciarono di nuovo alla porta del salone. Lui era pietrificato dalla notizia che non si aspettava, mentre Veronica, sorniona, incrociò le braccia al petto e disse:
“Non ci credo. Ha aspettato tanto tempo, e lo annuncia mentre non ci sono?”
Come volevasi dimostrare, l’aveva capito anche lei.
“Bianca, Martino...”
Mi volsi. Mio padre si era alzato in piedi per raggiungerci.
Il suo sguardo. La luce che riverberò dal suo viso, dopo tanto tempo...i suoi occhi scuri che si fecero lucidi.
«Congratulazioni» disse, con voce soffocata. Cercò di trattenersi, ma poi non resistette, e ci abbracciò entrambi. Mi persi in quell'abbraccio, felice come quando, da bambina, avevo saltato dal tetto di Villa Auditore stretta al suo petto.
Non era poi molto diverso. Adesso mi trovavo sul punto di spiccare un altro salto della Fede...e, nonostante fossi ormai una donna, avevo ancora bisogno di che lui fosse lì, con me. Pronto a prendermi se qualcosa fosse andato storto.
 
Ed ecco come finisce la storia di Bianca Auditore da Monteriggioni: con il più classico dei nuovi inizi. Per una volta, mi attende una missione senza morte; il sangue versato sarà soltanto il mio, un tributo pagato alla vita. Nessun requiescat in pace. Ci sarà tempo,  dopo, per il riposo e la pace. Adesso è il momento di amare con tutte le mie forze; di lottare, di ridere, di pianificare nuove strategie, di nutrire il mio bambino. E' tempo di insegnargli a camminare, poi partire per una missione; tempo di tornare e affrontare il suo astio perché si è sentito abbandonato, tempo di ascoltare le sue prime parole e la sua voce che mi chiama. Di fermarmi e pensare: Dio, questo capolavoro l'ho fatto io. Prima di me, di Martino, del nostro amore, questa creatura non c'era. Ed è per questo che vale la pena svegliarsi ogni giorno. È per dargli un mondo migliore che vale la pena combattere, lottare, e indossare la lama celata al mio polso. Perché anche lui, o lei, un giorno possa scegliere in libertà il suo destino.
E’ così che dovrebbe andare, sempre. Per ogni vita tolta si dovrebbe restituirne al mondo un’altra. Per ogni dose di dolore, riceverne una uguale e contraria di gioia, per non soccombere alla tristezza e trascinarsi senza scopo nell’esistenza.
Il bambino mi ha dato un nuovo scopo. I miei vecchi obiettivi sono tutti portati a termine, ormai. Insieme ai miei Fratelli di Lama, ho messo sul soglio di Pietro il figlio di Lorenzo il Magnifico. Ho finalmente compreso una scintilla dell’enigma che mio fratello è sempre stato per me, e la sua morte ha dato un nuovo senso alle parole vendetta e perdono. No, non mi sono vendicata e no, non l’ho perdonato. Ma ora che se n’è andato capisco che avrei voluto parlargli di più, quando potevo farlo.
Cerco di espiare il mio perenne senso di colpa verso Vanni ogni giorno. A volte visito la sua tomba nella campagna romana; quando sono a casa a Monteriggioni, vado nella radura dove giocavamo da bambini, e resto lì, il più delle volte senza parlare, cercando di carpire nel vento la sua voce che ho sempre ascoltato troppo poco. Gli ho promesso che insegnerò a suo figlio e al mio tutto quello che posso, e che farò di tutto per non metterli mai l’uno contro l’altro, e che saranno amici per sempre. Amici, come non siamo stati noi due.
L’arrivo del mio bambino ha aiutato anche mia madre a superare quello che è successo. Non è facile, per lei, sapere che uno dei figli di Vanni cresce lontano da noi, e l’altro – Margherita lo ha chiamato Lorenzo – probabilmente non lo vedrà mai. Ora che può fantasticare sul nipotino che io sto per darle, è rinata. Finché c’è qualcuno più debole da proteggere, Rosa ce la farà.
Mi preoccupa di più mio padre.
www                                                                                                                                                                                                                                                          Ezio Auditore da Firenze ha ricevuto troppi colpi dalla sorte, senza mai piegarsi. Nemmeno questo l’ha piegato, ma ho l’impressione che qualcosa gli si sia rotto dentro. Non ha più pianto dal giorno del funerale di Vanni. Almeno, non davanti ai miei occhi.
Non visita la sua tomba, lui non crede a queste cose. Lo ricorda a modo suo, salendo all’alba sul pennacchio più alto del tetto della villa. Spesso mi unisco a lui, e lo farò fino a che il mio ventre gonfio non mi ostacolerà nell’arrampicarmi.
Ieri, per la prima volta durante una di quelle albe annacquate su Monteriggioni, abbiamo parlato di ciò che è successo.
Lo vedo subito, lui è triste. Non di una tristezza passeggera, ma di un dolore sottile che gli si incide sul volto, gli irrora le rughe, si riversa negli occhi scuri. Questo senso di vuoto non se ne andrà mai. E’ un peso che vorrei sollevare dalle sue spalle, ma non posso.
«Il suo spirito è sempre stato inquieto. So che la colpa di questo è mia» dice Ezio.
Io mi stringo nelle spalle. «Voi ci avete dato l’opportunità di vivere, e noi abbiamo scelto da soli la nostra strada.»
«Tu sei sempre stata più forte. O incosciente, forse. Ma dopo tutto è la stessa cosa.» Guarda con un misto di reverenza e stupore la rotondità che si intravede sotto la mia camicia da uomo, appena sopra la cinta. «Perché ti vesti come tua madre? Sei una donna, accidenti. Ormai dovresti averlo capito.»
Sorrido del suo scherzo. Gli prendo la mano e me la porto sulla pancia. Per la prima volta, sento mio figlio scalciare per salutare il nonno.
­Ezio chiude gli occhi. Le sue ciglia tremano leggermente.
«Hai già pensato a un nome?»
Stringo forte la mano che sta sul mio grembo. «Se sarà maschio, si chiamerà come l’uomo a cui devo tutto.»
«Martino? No, bambina, non farlo…ti confonderesti tra padre e figlio, la tua casa sarà un inferno.»
«Non è Martino.»
«Allora Agamennone? Veronica ne sarà gelosa.»
«Ezio. Si chiamerà Ezio.»
Mio padre mi guarda, stupito. Poi, accenna a un ghigno. «Ezio Semeraro da Monteriggioni. Non suona affatto male.»
«Sarà un assassino, come noi.»
«E’ probabile.»
«E ci odierà.»
«Sicuramente.»
«Ma un giorno capirà il Credo. Lo accoglierà nel suo cuore, e allora riuscirà a perdonarci molte cose.»
Poggio la testa sulla spalla di mio padre. Tutto è iniziato su questo tetto, con il mio primo Salto della Fede.
Ricordo quel giorno. I piedi in bilico sul guano di piccione, le mie braccia spiegate, pronte al tuffo. Già civettavo con la Morte, a soli sei anni. Cercavo di sedurla, di sconfiggerla, per sentire che la mia vita non avrebbe mai avuto fine. Mio padre era lì, e mi ha salvato dalla mia incoscienza. Da quel giorno in avanti, è sempre stato così tra noi: io mi butto sul sentiero della vita e lui cammina un passo dietro di me, pronto a prendermi se qualcosa rischia di andare storto.
Ogni volta è la stessa emozione, con il Salto della Fede. Ogni volta il dubbio fa parte di te. Il carro di fieno sarà lì, o non ci sarà?
Ezio, figlio mio che vivi dentro di me…non possiamo saperlo. E’ un atto di fede.
Quando sarai grande abbastanza, ti stringerò tra le braccia e spiccherò il volo insieme a te. Le mie carni ti proteggeranno mentre ti insegno come spiegare le ali. Come mio padre ha fatto con me. Sarai al sicuro, vedrai. Ti guiderò sulla via del Credo, e tu non cadrai: non se io posso impedirlo.
Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Nonostante ciò che ho visto e ciò che ho fatto, io non credo che il mondo sia marcio, né che sia necessario distruggere il genere umano per ricominciare. Il bene e il male sono cose reali: c’è chi li chiama Dio e Demonio. Io credo che coesistano dentro di noi, che siamo creature imperfette nate dalla fantasia di un demiurgo annoiato. I colpevoli vanno puniti, gli innocenti assolti. Il fatto che io sia in grado di scegliere chi sia l’uno e chi sia l’altro non fa di me una divinità…solo un essere umano.
Finché esisterà la possibilità di giudicare cosa è bene e cosa male,
finché potrò scegliere cosa sacrificare e cosa salvare,
finché avrò la dignità di decidere della mia vita e della mia morte,
niente sarà reale, e tutto sarà lecito, ed io dovrò decidere di volta in volta cos’è giusto. Sarà necessario, per indicare la strada a mio nipote e ai miei figli. Perché non si perdano come Vanni. Perché non si perdano come me.
Mi chiamo Bianca Auditore. Sono figlia di un assassino e di una ladra, sorella di un traditore, moglie di un uomo rifiutato dalla sua stessa madre. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato. Prima di lui, avevo sempre pensato al peccato come una macchia nera. Ma sbagliavo; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante.
Come il foglio del destino che ognuno di noi deve scrivere.
Come i fiori che lascio ogni volta che posso sulle tombe dei miei cari.
Come l’attimo prima di compiere una scelta, e l’istante in cui ti svegli da un sogno; come tutto ciò che non è ancora stato ma potrebbe essere. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini.
Ed è questo il segreto del Salto della Fede, il suo vero significato.
La nostra vita non è prima di tuffarci, né quando atterriamo. Si consuma tutta mentre siamo in volo.
 
 
[1] Sono stata piuttosto sorpresa di apprendere che Livio Settimio D’Alviano nasce proprio nel 1514…non potevo non inserirlo, in questo epilogo-nursery ;)
 

Bianca come il Peccato
Fine.

NdBlackFool.
Siamo arrivati alla fine. Avevo pensato a tanti discorsi da fare, e invece...eh, invece non riesco a scrivere, no, a pensare mezza parola coerente. Che emozione premere quella piccola casella, "completa"...dopo tanti anni. Non e' sempre stato semplice: piu' volte sono stata sul punto di mollare. Se non l'ho fatto e' stato grazie a persone specialissime. A Ilaria, che mi ha dato sempre nuovi stimoli e nuovo entusiasmo per andare avanti con la storia, e con pazienza e costanza ha ascoltato le mie lamentele, betato tutti i nuovi capitoli, ispirato nuove idee con le sue splendide illustrazioni. A Giulia R. e Giulia S., che con i loro consigli hanno contribuito a farmi superare tanti blocchi da scrittore, e senza il cui contributo tante cose sarebbero andate diversamente (ci pensate che Martino all'inizio non doveva essere il Bianca-Boy?): grazie per esserci sempre e sostenermi in ogni circostanza, nella scrittura ma soprattutto nella vita.
L'ultimo grazie va a voi, che avete seguito le avventure di Bianca&Co fino a qui. Grazie a chi ha recensito, chi ha commentato sulla pagina facebook, chi si e' fermato soltanto a leggere. Dopo quattro anni spesi con Bianca e con voi, ho riacquistato fiducia in me stessa come scrittrice, e deciso che dopo tutto vale la pena tentare ancora. Il merito e' vostro. Sono cresciuta con i personaggi della fanfiction, tante cose nella mia vita sono mutate radicalmente in questi anni. Alcuni di voi mi hanno fatto sapere che per loro e' stato lo stesso, e non c'e' niente che mi commuove di piu' di questo pensiero: abbiamo seguito un percorso di crescita, e con questa storia che ci accomuna in un certo senso abbiamo camminato questo sentiero insieme.
Vi lascio con un abbraccio, e la promessa che ci ritroveremo. Mi ci vorra' un po' di tempo da dedicare ad altri progetti che ho messo in secondo piano fino ad ora, ma tornero' a scrivere del mondo di BCP prima o poi. Tutta questa gente che ha popolato la mia testa e il mio cuore per tanto tempo finirebbe per lasciare un vuoto troppo grande: il loro e' solo un arrivederci. E anche il mio.

A presto.


Laura.
   
 
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