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Autore: SunliteGirl    07/08/2014    6 recensioni
Si sono conosciuti a una festa, Lovino e lui.
L'ha capito subito che sono fatti l'uno per l'altro, quando ha incontrato i suoi occhi, quando ha sentito la sua voce d'angelo avvolta dalle fiamme dell'Inferno.
L'ha osservato a lungo dalla finestra della sua stanza. Ha visto ogni singola sfumatura del suo essere.
Ma arriva il momento in cui la pazienza non è più sufficiente, il momento in cui non si può più stare fermi a guardare la persona che si ama sbagliare.
Ed è l'alba che sta aspettando, avvolto dall'oscurità della notte e un proiettile d'argento fra le dita, mentre guarda il suo Amore.
...
Era marcio il suo Lovino.
È marcio. È marcio dentro, il mio Lovino.
Il suo colore preferito era il rosso.
E allora perché si è innamorato di un paio di occhi verdi?
...
Prima classificata all' "Ispirazione musicale contest", indetto da _juliet sul forum di Efp
Storia partecipante al contest "Questione di secondi" indetto da MichiGR sul forum di EFP
[Stalking; accenni Spamano]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Prussia/Gilbert Beilschmidt, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Autore: SunliteGirl
Titolo: Rotten 
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi : Prussia (Gilbert Beilschmidt), Sud Italia (Lovino Vargas), Spagna (Antonio Fernandez Carriedo)
Genere: Drammatico, Introspettivo
Rating: Arancione
Avvertimenti: Tematiche delicate, violenza, possibile OOC 
Contesto: AU
Canzone scelta: Nessun Dorma; possibilità inserita: non c’è lieto fine 
Note dell’autrice: alla fine della storia, per evitare eventuali spoiler!

 

 

 

 

 

 

Rotten

 

 

 

 

 

Il proiettile argenteo scivolò lungo il palmo della sua mano, per poi precipitare nel vuoto. Ma prima di raggiungere con un tonfo cristallino il pavimento di marmo bianco, liscio e freddo, delle dita lo afferrarono per poi riportarlo sulla mano destra, ancora aperta e leggermente inclinata. 
La debole luce che penetrava dal vetro della finestra chiusa rifletteva dei bagliori sul piccolo oggetto metallico. Gli occhi del ragazzo raggomitolato sulla poltrona di pelle nera li fissavano attenti, mentre ripeteva il monotono gioco che lo aveva tenuto impegnato nell’ultima ora. C’era musica nella stanza, ma le sue orecchie  sembravano sorde a qualsiasi suono. Si sentiva come una falena intrappolata in una stanza buia, attirata mortalmente da ogni misera fonte di luce.
Ed era proprio la luce che stava aspettando, con una pazienza quasi maniacale. 
Ma forse sarebbe stato più corretto dire innaturale. Lui di pazienza non ne aveva mai avuta per nessuna cosa in tutta la sua vita. Si era sempre preso quello che voleva nel modo più veloce possibile, nel modo più impulsivo possibile. 
Glielo diceva sempre anche il suo maestro di scherma, tanti anni prima, quando si lanciava contro il suo avversario con il fioretto alzato e un sorriso beffardo sulle labbra, colto dall’irruenza tipica dei ragazzini. Ogni volta che faceva cadere a terra il suo nemico, il più delle volte qualche bambinetto che si metteva subito a piagnucolare, rimaneva basito nel vedere un’aria di rimprovero sul volto del maestro, invece che orgoglio. 
“Sei troppo impaziente, Niemand. Pensi che andrai mai da qualche parte nella vita comportandoti in questo modo?” diceva, e lui sentiva la rabbia montargli dentro.

 

Niemand. Nessuno.

 

Si era abituato con fatica a questo nome durante gli anni del liceo. Glielo avevano inculcato a forza, insieme ai pestaggi nei bagni della scuola e le gomme da masticare incollate ai capelli, e alla fine era pure quasi arrivato a crederci, di essere un Niemand.
Ma erano loro i nessuno. 
Avrebbe voluto affrontarli in un uno contro uno, quei bastardi senza palle.
Visualizzava sempre la stessa scena nella sua testa.

 
Un pugno ben piazzato in faccia, il setto nasale che emette un musicale fragore di ossa spezzate, un fiotto di sangue a bagnare le nocche della mano stretta a pugno, esecutrice di sentenze, la bocca dell’avversario piegato si apre in un rantolo di dolore.
E lui dice,  

Vediamo… Chi è ora il Niemand, eh? 
Come ci si sente ad essere pestati dall’albino culatone, eh?
Eh?

 

Lui era sempre stato impaziente. Ma aveva letto da qualche parte che l’Amore cambia molte cose, anche il carattere delle persone, e negli ultimi tempi aveva imparato a crederci. Un Niemand, esattamente come una persona malvagia e ingiusta, può cambiare, diventare magnifico, se al suo fianco ha la persona giusta. Ma occorreva pazienza. Pazienza e sangue freddo. Solo così si ottengono gli obbiettivi prefissati, diceva il suo maestro di scherma.
Il proiettile atterrò un’altra volta sul palmo della sua mano sinistra, e la luce tanto attesa finalmente si accese.
Gli bastò spostare appena il viso, la sua figura celata dalle tenebre e dalle tende pesanti accostate ai lati della finestra, per vederlo.
Il suo Amore era fatto di grandi occhi nocciola screziati di verde, di capelli dalle sfumature ramate, di labbra sottili e spesso piegate in un broncio adorabile, di pelle dorata e di spalle magre. Un’anima di fuoco in un corpo così esile, così facile da spezzare.
Il suo Lovino, lambito dall’aria della notte come se fossero le braccia di un amante geloso.
L’ osservò appoggiarsi con i gomiti alla ringhiera del balcone, una tazza di colore rosso fra le mani. Era la sua tazza preferita, quella rossa. Lui lo sapeva perché ogni mattina e ogni sera Lovino si affacciava al piccolo terrazzo del suo appartamento sorseggiando del caffè, rigorosamente di marca italiana, con aria pensosa, e la tazza che portava con sé era sempre quella. Il rosso era anche il colore di molte scarpe, camicie e sciarpe del ragazzo. Era il colore di cui si imporporava tutto il suo viso quando era preso da forti emozioni. 
Doveva essere il colore preferito di Lovino, e lui lo considerava un segno del Destino.

 
I miei occhi sono rossi.

  

Lovino era un ragazzo abitudinario, seguiva dei riti speciali durante la giornata, e a lui piaceva guardarlo soprattutto alle prime luci del mattino. Si stiracchiava sempre come un gatto selvatico, il sole che baciava la pelle del suo torso nudo, e poi si passava le dita magre fra i capelli scompigliati, mentre si sforzava di tenere aperti gli occhi carichi di sonno. 
Una visione talmente innocente da fargli venire la pelle d’oca, con le membra in subbuglio.
Era stato fortunato a trovare quell’appartamento, situato proprio di fronte a quello del suo Amore, solo una strada stretta e qualche centinaia di metri a separarli. 
Altrimenti sarebbe stato difficile vederlo tutti i giorni. 
E lui sarebbe morto senza il suo Lovino.

 

«Ciao». 
Si sentiva nervoso, ed era strano. 
Era strano come quel ragazzo, visto per la prima volta solo qualche minuto prima, potesse farlo sentire così. Come se fosse nessuno, tanto piccolo da poter essere schiacciato sotto la suola di una scarpa. 
Lo vide sollevare un sopracciglio, un’aria annoiata sul volto ovale.
«E tu chi saresti?» chiese, e lui si sentì morire.
La sua era una voce d’angelo.
«Io sono…»
Fu zittito dal cenno della sua mano. 
«No, non dirmelo. Non m’importa».
Una voce d’angelo, nel corpo di un demonio.
«Che cazzo vuoi?»
«Io… Io volevo solo…»
S’impappinò. Non gli era mai successo.
Forse era colpa di quegli occhi di fuoco. Lo facevano sentire insicuro.
Gli facevano desiderare cose strane.

 
Prenderlo per mano, allontanarlo dalla folla, dalla festa caotica,
baciarlo piano su quella bocca sudicia di imprecazioni… 
E poi, e poi gli avrebbe chiesto di essere il suo ragazzo.
Sarebbe stato solo 
suo.

Mio, mio, mio.  

 
La sua mente vorticava più veloce di un tornado, vedeva cose appartenenti a un futuro lontano,  fatto di occhi color cioccolato

 e labbra sottili da baciare

 e pelle morbida da carezzare.

 
«Perfetto… Perché i pazzoidi capitano sempre a me?».
Sbatté le palpebre nell’udire la voce dell’altro, distraendosi dalle sue visioni.
«Ora me ne vado».

Cosa? No, non puoi andartene! Tu sei mio.
«Ma ci vedremo ancora, non è vero?» chiese a voce alta, l’agitazione e la paura che gli stordivano le orecchie come se avesse i timpani pieni d’api.
«Sì, sì, come vuoi» disse il ragazzo, girato di spalle, agitando la mano.
Aveva promesso. Il che significava che anche lui voleva rivederlo.
Per lui non sarebbe mai stato un 
niemand. 
Sorrise, gli occhi puntati sulla schiena magra del ragazzo.
Francis, un suo compagno di corso che aveva assistito a tutta la scena dal tavolo degli  alcolici, gli si avvicinò ridendo. Gli diede una pacca sulle spalle, con fare consolatorio. 
«E così hai conosciuto Lovino Vargas, uhm? Ha un bel caratterino, il ragazzo… Sai, il mio amico Antonio Carriedo, non so se lo conosci, ha una cotta per lui da una vita. Una volta era ubriaco fradicio, ci ha provato con lui e, be’, è stata una scena 
très épique, perché il caro Lovino gli ha rovesciato addosso il drink che stava bevendo e poi…»
Francis continuò a parlare, ridendo tra una frase e l’altra, ma lui aveva smesso di ascoltare da un bel pezzo.
Lovino Vargas.
Che grande coppia sarebbero stati, loro due. 
Gli sarebbe bastato aspettare con pazienza, e presto lo avrebbe capito anche Lovino.

 

  
Una musica soave si diffuse nella stanza buia, avvolgendogli il corpo con il suo calore. 
Non era mai stato un tipo da Opera, lui preferiva i suoni duri, veloci, acuti e strazianti del rock. Quando aveva sedici anni, la sua ossessione per quel genere di musica era talmente forte che aveva imparato a suonare la chitarra elettrica da autodidatta, seguendo le indicazioni di un libro che aveva rubato da una bancarella di libri usati. Di soldi per comprarlo non ne aveva più, dato che aveva speso tutti quelli racimolati per la sua Diavoletto, una Gibson SG nera e lucente e che profumava così tanto di nuovo, nonostante il precedente proprietario gliel’avesse consegnata con dei graffi sul body e qualche corda spezzata. C’era un piccolo pulcino giallo dipinto qualche centimetro sotto il ponte della chitarra, alla destra del jack d’uscita. Con il tempo si aggiunsero delle striature viola, frasi di canzoni, e polvere.
Lovino aveva cambiato anche questo, di lui. 
Aveva preso i suoi 45 giri,

Pink Floyd, Led Zeppelin, AC/DC, Queen, The Doors, The Clash

la sua Gibson SG, le cassette e i cd e pure il manuale usato rubato al mercatino, e li aveva gettati in una pila che ora se ne stava accatastata in un angolo del salotto.
Lovino gli aveva insegnato ad ascoltare la vera melodia. Melodia fatta di armonia, equilibrio, eleganza e potenza. 
Ben presto lo scaffale accanto all’impianto stereo era stato riempito di dischi ed enciclopedie sull’Opera italiana, comprati con parte della paga mensile ricevuta per un lavoro che odiava e che riteneva degradante per le sue capacità, un insignificante commesso di un altrettanto insignificante negozio di elettrodomestici. 
Quello del melodramma era per lui un universo a parte, incantevole e affascinante, tutto da scoprire. Proprio come Lovino.
L’aria che stava risuonando nella stanza in quel momento era la sua preferita. Nessun Dorma. In qualche modo gli ricordava se stesso, e Lovino.

 
Chissà se anche lui si sarebbe abbandonato al suo amore come la principessa Turandot con Calaf, il Principe Ignoto.

 
Mentre guardava Lovino attraverso il vetro della finestra e le sue dita continuavano il loro gioco con il proiettile, le labbra cominciarono a muoversi senza che se ne accorgesse. Le parole gli si erano forgiate nella mente con tanta forza che le sussurrò con estrema facilità, come se fossero nella sua lingua madre. Seguiva la voce di Pavarotti, cantando in un lieve mormorio, un tono talmente basso che si disperdeva senza che potesse essere udito. 
«Tu pure, o Principessa, nella tua fredda stanza guardi le stelle, che tremano d’amore e di speranza…»
Lovino si portò la tazza alle labbra, distogliendo per un attimo lo sguardo dal cielo notturno e desolato. C’erano poche stelle quella notte.
Gli sarebbe piaciuto sentire Lovino cantare Nessun Dorma.  Aveva una voce bassa, sensuale, e dalle sfumature esotiche, eppure sembrava sempre in imbarazzo quando la liberava, quasi temesse di ricevere delle critiche o si ritenesse incapace. Cantava solo quando era da solo, le cuffie nelle orecchie e gli occhi chiusi, completamente assuefatto dalla musica che stava ascoltando. A volte si metteva anche a ballare. E lui si sentiva felice, perché era in grado di vedere un lato di Lovino che nessun altro avrebbe mai conosciuto.
Lui sapeva molte cose del suo Lovino, cose che chiunque altro ignorava.
Lo aveva osservato mentre sistemava le sue piante nel terrazzino, mentre se ne prendeva cura e a volte, pensando di essere solo, sussurrava loro parole accarezzandone le foglie verdi. Aveva visto la gioia nei suoi occhi quando un giorno era tornato a casa con un vasetto pieno di terra e una minuscola pianticina di pomodori. Sapeva quali erano i suoi libri preferiti, perché l’aveva osservato leggere decine di volte gli stessi volumi, fino quasi a consumarli. Lo aveva guardato cucinare i suoi piatti preferiti attraverso la finestra che dava sulla piccola cucina dalle pareti bianche, dipingere sul terrazzo usando contrasti di colori vivaci e scuri, per poi gettarli a terra e distruggerli una volta finiti. E conosceva i suoi momenti di fragilità, quelli in cui spalancava con forza la porta-finestra che dava sul balcone e, dopo essersi rannicchiato vicino alle sue piante quasi potessero fargli da scudo, scoppiava a piangere tenendosi la testa fra le mani. Sapeva che questi momenti avevano qualcosa a che fare con il fratello che lo veniva a trovare ogni tanto, e degli amici che a volte portava con sé. Erano molto simili nell’aspetto, ma Lovino sembrava sempre guardare con protezione mista a invidia il fratello dall’aspetto sorridente e gioviale, quasi fosse geloso del modo spontaneo in cui sembrava attrarre chiunque incontrasse sulla sua strada. 
Lui conosceva Lovino meglio di chiunque altro. Vedeva le sue insicurezze, vedeva la sua forza. Ma allora perché?

 

Lo aveva seguito lungo la strada affollata, cercando di non perderlo di vista, e poi era entrato in una stradina secondaria lasciandosi guidare dai passi del ragazzo.
Lovino era entrato in un negozio di musica, uno di quelli poco frequentati, e aveva salutato il commesso con un cenno dalla mano. Non doveva essere la prima volta che ci andava, a giudicare dalla naturalezza con cui cominciò a girare fra gli scaffali pieni di cd e dischi in vinile, sfiorandoli appena con le dita mentre ci passava accanto. 
Lui cominciò a girare per il negozio, stando attento a non farsi vedere mentre osservava gli spostamenti di Lovino, fino a quando non trovò il coraggio di avvicinarsi.
Si sentiva le mani sudate.
Lovino stava scrutando con aria assorta i volumi riposti con cura sullo scaffale, le sopracciglia aggrottate e l’indice che tamburellava sulle custodie. Dopo qualche attimo di ricerca il suo volto si illuminò e subito sfilò un 45 giri dalla pila ordinata. 
Si avvicinò a lui un po’ troppo velocemente e Lovino, alzando lo sguardo, per la sorpresa lasciò cadere a terra l’album.
Nervoso e in imbarazzo, si chinò subito a raccogliere il disco. Era ricoperto dal cellophane e sulla copertina, a lettere grandi, c’era scritto il nome “Luciano Pavarotti”.  Dopo un attimo, lo porse a Lovino, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi.
La mano gli tremava.
Lovino prese l'album con un’espressione confusa sul volto, borbottando un «Grazie».
Rimase impalato, senza avere il coraggio di alzare lo sguardo o di dire qualcosa al ragazzo che gli stava di fronte. 
Erano passati quattro mesi dalla prima e ultima volta in cui si erano parlati.
«Io ti conosco» disse Lovino dopo qualche attimo di silenzio. «Sei quel tizio strano della festa».
Alzò lo sguardo, gli occhi spalancati e il corpo improvvisamente caldo e rinvigorito. E così il suo Lovino si ricordava di lui!
«Mi hai riconosciuto» esclamò, senza riuscire a frenare il sorriso entusiasta che gli spuntò sulle labbra.
«Be’, non ci sono molti tipi come te in giro».
Lo guardò con sorpresa e Lovino sbuffò, alzando gli occhi al soffitto.
«Mi riferivo ai capelli e agli occhi» disse, prima di mostrare un sorrisetto beffardo. «E alla faccia da idiota che ti ritrovi».
Non si lasciò abbattere dalle parole del ragazzo, il suo sorriso non crollò nemmeno per  un istante.
«Sono felice di rivederti, Lovino. Sai, mi stavo chiedendo se…»
«Come fai a sapere il mio nome? Non mi sembrava di avertelo detto». Ora Lovino lo guardava con un’ espressione diffidente e allarmata. Non gli lasciò il tempo di rispondere. «Che ci sei venuto a fare qui?» disse un attimo dopo, portandosi il disco in vinile al petto, quasi volesse proteggersi.
Sentì montare il panico.
«Sono venuto a prendere dei dischi» rispose, troppo velocemente.
Lovino inarcò un sopracciglio. 
«Allora buone compere, bastardo». 
Fece per superarlo, ma lui non lo lasciò passare. Gli si parò davanti e Lovino si immobilizzò, gli occhi spalancati… Forse per la paura?
«Avevo sperato di rivederti» disse, cercando di darsi un’aria più sicura, «Vorrei che tu uscissi con me… Anche solo per un caffè, o una passeggiata, per me non è importante, voglio solo…».
Lovino distolse lo sguardo, fissandolo sullo scaffale alla sua sinistra. 
«Senti, non è niente di personale» lo interruppe, portandosi una mano alla tempia. «Non mi va di uscire con nessuno, è chiaro? E poi, credimi, te ne pentiresti».
«Io non…»
Lovino diede un’occhiata all’orologio con il cinturino rosso che portava al polso.
«Cazzo, sono in ritardo» sussurrò, poi alzò lo sguardo e si rivolse a lui, con voce più alta e decisa, «Ora vado, ho da fare, perciò lasciami passare, idiota».
Si fece da parte e lo vide passargli accanto, senza degnarlo di un’occhiata.
Sentì una feroce rabbia montargli dentro.
«E il mio nome?» chiese alla schiena di Lovino, le mani strette a pugno, «Il mio nome non lo vuoi sapere?».
«Non m’interessa». 
Si diresse alla cassa senza nemmeno voltarsi a guardarlo.

 

All’improvviso, tutto peggiorò.
Seguiva spesso Lovino, o quando i turni del lavoro glielo permettevano, per lo meno. 
Il ragazzo all’inizio non diede cenno di averlo visto, e lui non cercò di avvicinarlo in alcun modo, ancora scosso dal loro precedente incontro. Passarono i mesi e poi, un giorno, accadde.
Aveva seguito Lovino nel negozio dove andava a fare la spesa abitualmente. 
Il cuore gli si gelò dentro al petto, gli occhi si sbarrarono per la rabbia cieca.
Era sicuro che Lovino lo avesse visto. I loro sguardi si erano incrociati per alcuni secondi, ma poi il ragazzo si era voltato, senza riconoscerlo. O facendo finta di non riconoscerlo.
Come se fosse un 
niemand. 
Da quel giorno, Lovino cominciò ad accorgersi di lui.
Per strada, nel negozio di musica, in biblioteca, al supermercato, al parco.
Lovino lo guardava, spalancava gli occhi per un attimo, e poi subito distoglieva lo sguardo
.
Non capiva perché facesse così.
Non capiva perché Lovino avesse paura di 
lui, l’unica persona che lo amasse davvero.
Non comprendeva perché, ora, non appena lo vedeva cercava subito di andarsene il più velocemente possibile.
Non comprendeva perché, da un giorno all’altro, avesse cambiato casa.
Gli ci erano volute due settimane per scoprire dove si fosse trasferito, in un inutile tentativo di scappare lontano da lui.
Dopo la rabbia iniziale, la gelosia e l’odio, che l’avevano spinto a rimanere chiuso nella sua camera da letto per giorni, senza mangiare e senza andare a lavoro, aveva 
capito.
Aveva capito che non doveva più seguirlo, o Lovino avrebbe continuato ad avere paura di lui, invece di capire che erano anime gemelle, loro due, destinati a rimanere insieme per sempre. 

 È insicuro, pensò, crede di non meritarmi. 
Pensa che io lo lascerò. Ecco, sì, ha paura di amare, il mio Lovino.
Gli avrebbe fatto cambiare idea. Bastava solo avere pazienza.

 

Il proiettile venne stretto dalla mano chiusa a pugno, tanto forte da lasciare un segno rossiccio sulla pelle bianca. Gli occhi rossi fissavano la scena che si era parata davanti a loro con disgusto, rabbia, gelosia.
Lovino aveva spalancato gli occhi per la sorpresa quando lui lo aveva abbracciato da dietro, posando un bacio lieve sulla sua spalla. Lo vide dire qualcosa agitando la mano che non era intenta a stringere la tazza, le gote rosse per l’imbarazzo, e lui rise, prima di baciarlo lievemente sulle labbra. Il nemico appoggiò la guancia sulla spalla di Lovino e disse qualcosa, vicino al suo orecchio. Un’espressione sconosciuta si dipinse sul volto del suo Amore. Il broncio sparì, mutò in una risata, che dalle labbra sottili arrivò fino agli occhi. 
C’era qualcosa che il suo nemico conosceva di Lovino, e che lui non era riuscito a ottenere. Quel sorriso luminoso e spontaneo e liberatorio sulla bocca morbida, le guance rosse non per la rabbia ma per il dolce imbarazzo, lo sguardo di chi darebbe la vita per proteggere la persona che gli sta accanto. 
E tutto ciò il suo Lovino lo stava donando alla persona sbagliata. 
Sentì un conato di vomito risalirgli la gola quando Lovino si voltò, la schiena appoggiata contro la ringhiera del terrazzo, e si lasciò baciare da quella bocca che non era la sua, infilando le dita in capelli scuri che non erano i suoi, facendosi stringere da braccia che non erano le sue.

 
Era marcio il suo Lovino.
È marcio. È marcio dentro, il mio Lovino.

 

Il suo colore preferito era il rosso.
E allora perché si è innamorato di un paio di occhi verdi?

 

Inspirò profondamente e chiuse gli occhi, distogliendo lo sguardo da quella scena che si era ripetuta davanti a lui per troppo, troppo tempo.
Il suo Lovino era marcio dentro. Lo aveva catturato con il suo sguardo di fuoco, la sua voce d’angelo in un corpo di demone, ma lui lo amava ancora.

 
Lui era abituato a ottenere sempre quello che voleva.

 
Poteva aiutarlo. Aiutarlo a capire che non era troppo tardi, che poteva ancora perdonarlo, che lo avrebbe amato comunque, anche se era corrotto, sudicio, anche se non lo meritava. 
Avrebbe aspettato il sorgere del sole. Come Calaf con Turandot, anche lui sarebbe andato da Lovino per reclamare il suo amore. Aveva atteso abbastanza.
E Nessun Dorma faceva risuonare le sue ultime note.

 
Dilegua, o notte! 
Tramontate stelle, tramontate stelle!
 All’alba vincerò.

 

 

 

 

 

Suonò il campanello.

 

Entrare nell’appartamento era stato più facile del previsto. Aveva approfittato della ragazza che ogni mattino usciva dall’edificio per fare jogging e le aveva chiesto se poteva aprirgli lei la porta, dal momento che doveva andare a trovare la nonna che stava al quarto piano e i problemi all’udito le impedivano di sentire il citofono suonare. La ragazza, con i capelli raccolti in una treccia e un bel viso dalle guance piene, rise e gli disse che “Sì, non c’è alcun problema. Non vorrei che la nonna aspettasse troppo”. Non era mai stato un problema per lui trattare con le ragazze.  Sembravano affascinate da lui, in qualche modo, probabilmente per via della sua altezza, o del suo bell’aspetto, o della sicurezza che emanava. Qualunque fosse il motivo, spesso gli tornava utile… Come in quel momento.
La ragazza gli aprì la porta con la chiave e lui la salutò con un sorriso ammiccante
.

 

Aspettò qualche minuto. Sentì delle voci dall’altra parte della porta, una imprecazione, una risata, e poi si ritrovò davanti il nemico.
Accadde tutto all’improvviso. Prima c’era la porta in mogano, e un attimo dopo ecco che due occhi color smeraldo, assonnati eppure così vivi, lo stavano fissando.
Il nemico sollevò un sopracciglio. 
«Sì?» chiese, e, Dio, la sua voce era così fastidiosa. 
Avrebbe voluto tirargli un pugno, rovinare quel bel faccino allegro.
Strinse la mano a pugno, vicino al rigonfiamento nella tasca della sua giacca, cercando di darsi una controllata.

 
Non ora non ora non ora non ora.

 
«Sto cercando Lovino». 
Provò piacere nel vedere un’ombra ricadere sul volto del nemico. A quanto pare la sua allegria e gentilezza non erano perenni come sembrava. 
«Chi sei? Che cosa vuoi da lui?».

Oh. Qualcuno qui è geloso. Eh? 
Hai paura? Eh?

 
Sorrise, e il nemico lo guardò con un’espressione diffidente. Prima che riuscisse a dire qualcosa, però, un’altra voce li raggiunse.
«Antonio, allora, chi cazzo è a quest’ora del mattino?»
Il volto di Lovino apparve alle spalle del nemico. Gli occhi assonnati, i capelli spettinati, i segni del cuscino impressi sulla guancia. Cercò di non guardare quelli di ben altro genere che gli marchiavano la pelle, dal collo fino alla spalla. Doveva mantenere il controllo. Non era ancora giunto il momento.
Lovino spalancò la porta del tutto, parandosi accanto al nemico.
«Ha detto che vuole vedere te» disse Antonio, continuando a fissarlo con diffidenza.
Il ragazzo spalancò gli occhi. Occhi che lentamente si riempirono di terrore.
«Cazzo» sussurrò. 
Accadde tutto in pochi attimi.
Lovino afferrò la porta e la spinse con forza, cercò di chiuderla, ma lui fu più veloce. Infilò un piede nella fessura ed esercitò tutta la potenza di cui era in grado per spalancarla di nuovo. Lovino indietreggiò, tirando con sé il nemico, fino ad addossarsi alla parete di fronte. Il suo Amore fissava la glock 26 che aveva estratto dalla giacca e che ora stava puntando verso di loro, con le labbra dischiuse, gli occhi sbarrati e le narici dilatate.
Il nemico sembrava sperduto, combattuto fra il terrore e la sorpresa.
«Madre de Dios!» esclamò, come se si fosse risvegliato all’improvviso da un sonno profondo, e si parò davanti a Lovino. «Che fai?! Mettila via! Sei pazzo!»
Non ascoltò le parole del nemico. Continuò a fissare Lovino, infastidito dal fatto che Antonio gli impedisse di vederlo bene. Se ne stava zitto, le gambe che tremavano, e lo guardava. Lo guardava, finalmente. Gli venne da sorridere.
«Lovino, guarda cosa mi costringi a fare» disse, prima di richiudere la porta dietro di sé con un calcio. Lovino sussultò e lui si sentì montare dentro una nuova ondata di rabbia incontrollabile. «Cazzo, perché non lo vuoi capire che è con me che devi stare!» urlò, avanzando di un passo. La canna della pistola puntava direttamente alla testa di Lovino, che continuava a fissarlo in silenzio.
«Ma chi sei?!» il nemico continuava a parlare. Lo stava facendo innervosire.
Puntò la pistola verso Antonio, «Se non stai zitto ti ammazzo».
«Ma cosa…»
«Cazzo, Antonio, stai zitto!». La voce di Lovino uscì stridula dalla sua gola, mentre la sua mano si artigliava al braccio del nemico, spingendolo da parte. «È me che vuoi, no?» disse, fissandolo dritto negli occhi rossi, «Allora lascia stare lui. Fammi quello che vuoi, ammazzami pure, ma non fargli nulla. Non a lui. Ti prego».
I suoi occhi nocciola si annebbiarono, fino a quando non cominciarono a sgorgare delle lacrime che andarono a rigargli le guance. Si sentì morire dentro nel vedere il suo Lovino piangere. 
«Come pensi… Come potrei farti del male, Gott, io ti amo!»
Lovino rimase immobile, il volto stravolto. Le lacrime continuavano a scendere.
Per un attimo pensò di lasciar perdere tutto, di andarsene, di lasciarlo. Ma non poteva permettersi attimi di debolezza, non poteva distogliere l’attenzione dal suo obiettivo. Aveva aspettato troppo a lungo.
«Sono venuto qui per dimostrarti che lui non ti amerà mai quanto ti amo io. Hai commesso un errore, Lovino, lo sai? Eh, lo sai?»
Ora aveva di nuovo paura. Lo capì quando si parò davanti al nemico, quasi volesse proteggerlo con il suo corpo, quasi sperasse che con lui davanti non avrebbe sparato.

 
Così marcio.
Così marcio e così ingenuo, il mio Amore.

 
«Guarda cosa mi costringi a fare, Lovino» sussurrò un’ultima volta. Immaginò il proiettile argenteo essere sparato fuori dalla canna della pistola, conficcarsi nella carne, il sangue a investire le pareti, gli abiti, le mani. Avrebbe potuto sparare al nemico, eliminare l’ostacolo che si frapponeva fra lui e quello che era il suo grande Amore. 
Ma aveva anche un’altra possibilità.
Lovino avrebbe avuto per sempre sulla coscienza il peso della sua scelta. 
«Allora, lo vuoi sapere il mio nome?».
Lovino scosse la testa, le fiamme nel suo sguardo non ancora del tutto domate dalle lacrime.
«No?»

 
«Niemand. Come ci si sente ad essere un Niemand? Eh, perdente?»

 
«Peccato».
Si premette la canna della pistola contro la tempia. 
Le stelle del mattino gridarono sopra la sua testa. Le sentì appena, un attimo prima di premere il grilletto. 
Il nome suo nessun saprà, e noi dovremo, ahimè, morir, morir!
E poi la luce si spense insieme ai suoi occhi.

 

 

 

 

 

Spazio soleggiato dell’autrice mentalmente labile


Salve a tutti! SunliteGirl’s here!

Era da un po’ che volevo scrivere una storia con questo tema. La paura che mi bloccava era sempre quella di cadere nel poco realistico, nell’esagerato, nel melodrammatico, o di non saper trattare il tutto con l’adeguata sensibilità… E così, per il mio primo obbrobrio tentativo, ho scelto il bellissimo concorso Ispirazione musicale contest indetto da _juliet sul forum di Efp, ovviamente sul mio amato fandom di Hetalia :D *volano coltelli*

Ad avermi entusiasmata di questo contest, oltre la meravigliosa scelta delle canzoni da parte della giudiciA (dico, citatemi i Queen e i Pink Floyd e il mio cuore sarà vostro forever end ever ) , è stato il contenuto del “pacchetto” da me scelto, Nessun Dorma. Infatti, oltre a dover inserire la canzone nella storia, la scelta comportava anche un obbligo (il protagonista doveva rimanere anonimo e il suo nome mai essere rivelato, la storia doveva essere ambientata di notte, mentre il protagonista attende l’alba e quello che essa porterà) e una possibilità (la mancanza di lieto fine). L’ho trovato geniale e la mia ispirazione è volata verso l’Infinito e Oltre *^*
Amo Turandot, amo Puccini, amo Nessun Dorma. Ho dovuto scegliere questa canzone, avevo un debito con il mio cuore u.u 
Potrei fangirlare all’infinito, perciò la chiudo qui.

Comunque ancora non mi so spiegare da dove sia uscita questa OS. Sono passata da una storia in cui si parlava di una tenera storia d’amore liceale (Spamano, obviously) a… questo. Probabilmente è colpa del mio gusto per le cose inquietanti che ogni tanto riaffiora xD
Ho pensato a lungo a come gestire l’obbligo. Probabilmente usando la prima persona invece della terza mi sarei complicata di meno la vita, ma io rido in faccia al pericolo, ahahahah (?).  L’idea del “nessuno”, l’insicurezza di Gilbert e la sua paura più grande, mi è venuta sia pensando all’aria Nessun Dorma (Nessuno, Nessun Dorma, l’avete capita? :D no?… ok), ma anche allo stato di Prussia come Nazione. Lui, infatti, non è più nessuno dal momento in cui è sparito, cancellato dalla cartina, e da qui deriva il senso di impotenza, la debolezza del personaggio Gilbert.

Come potete vedere ho usato anche la possibilità, benché non obbligatoria, ovvero l’assenza di lieto fine. Diciamo che, dal momento che Gilbert in versione “pazzoide stalker” si suicida, Lovino e Antonio hanno un mini lieto fine, ma in ogni caso il povero Lovino (e pure Antonio, credo) rimarrà per sempre traumatizzato, e chi gli potrebbe dare torto?  

Sì, le mie storie sono sempre la fiera della felicità

Nel caso qualcuno se lo fosse chiesto (?), Lovino distrugge i quadri una volta finiti per il complesso che prova nei confronti di suo fratello. In realtà sono convinta che lui sia bravo esattamente quanto Feli, ma che la sua insicurezza lo spinga a vedere sempre i lavori di suo fratello come migliori. Non ci posso fare niente, Lovino è talmente tenero che se me lo ritrovassi qui davanti lo spupazzerei tutto il giorno *^*

Gibson SG: Non sono una intenditrice di strumenti musicali, ma a scanso di equivoci specifico che mi riferisco alla chitarra elettrica solid body prodotta dalla Gibson a partire dagli anni sessanta. Sono chiamate "Diavoletto" per la forma del corpo della chitarra
Mi scuso per eventuali errori tecnici nella descrizione, mi sono basata su quanto ho trovato in Internet (= Wikipedia) ^^”

glock 26: è una pistola automatica di piccole dimensioni. Non mi intendo nemmeno di armi, perciò ho cercato in Internet quello che c’era da sapere e l’ho scelta in quanto mi sembrava piccola e adatta alla scena descritta :D

Qui trovate tutte le informazioni :D 

http://it.wikipedia.org/wiki/Gibson_SG
http://it.wikipedia.org/wiki/Glock_26


Non assicuro che le parole in tedesco siano giuste. Cioè, sono sicura sul Gott (=Dio), ma non sono sicura se niemand sia usato come sostantivo o aggettivo o pronome o cosa e nemmeno se ci voglia la lettera iniziale maiuscola o minuscola. Mi sono basata su quanto ho letto in Internet, dato che non ho mai studiato tedesco e chi avrebbe potuto darmi una mano è in vacanza xD La fortuna mi sorride xD

La competizione per il concorso è dura, quindi a questo punto spero davvero per il male minore possibile XD 
Spero non faccia troppo schifo, davvero. Grazie a tutti coloro che l’hanno letta (*^*), spero mi lascerete anche un parere, per farmi sapere che ne pensate (Vi piace? Dovrei darmi alla macchia?). Se qualcuno mi sapesse dire anche se niemand è corretto per l’utilizzo nella storia, ve ne sarei grata, come anche accetto critiche costruttive sul tutto :D (ma non siate crudeli, abbiate pietà di me ;_;)

 
Baci, e a presto

  
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