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Autore: ChiiCat92    09/08/2014    2 recensioni
"[…] Ha imparato qualcosa in quelle poche ore passate lì dentro. Come per esempio che lui è un essere sintetico. Com'è che l'hanno definito? Ah, sì, un robot. E che è del tutto diverso dagli umani: loro hanno carne, sangue, ossa, muscoli, lui solo chilometri e chilometri di cavi elettrici, e microchip, e dischetti di memoria.[…]"
"[…]- VII? È così che ti chiami? Ma non è un nome! -
- Lea, smettila di dare il tormento al nuovo domestico. -
Lo richiama la donna dai capelli rossi, e il ragazzino rabbrividisce e si allontana...ma i suoi occhi verdi non smettono di rimanere incollati su Numero VII.[…]"
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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06/08/2014

 

La notte degli oggetti desiderabili

 

- Numero VII, inizializzare modulo vocale. -

È la prima cosa che sente, il primo ricordo che si imprime a fuoco nella sua memoria.

- Modulo vocale inizializzato. -

Risponde. Il suo tono di voce è pacato, profondo, senza un picco emotivo.

- Numero VII, inizializzare modulo di simulazione sensoriale. -

Allora apre gli occhi, lentamente. Le iridi ambrate si contraggono alla luce bianca del laboratorio e mettono subito a fuoco l'uomo in camice tutto concentrato sullo schermo di un computer.

Uno spiffero freddo gli colpisce la pelle e il suo cervello elettronico subito lo registra traducendolo in brividi che gli fanno venire la pelle d'oca. In bocca sente un sapore ferroso, le narici vengono investite da un fortissimo odore di disinfettante, il ticchettio delle dita dell'uomo sulla tastiera del pc risuona quasi assordante alle sue orecchie.

- Modulo di simulazione sensoriale inizializzato. -

Risponde con cortesia, una volta assicurato che i cinque sensi artificiali che gli sono stati istallati funzionino alla perfezione.

- Modulo motorio? -

Chiede l'uomo, senza mai guardarlo: è troppo concentrato sulle lunghissime file di numeri e dati che passano sullo schermo.

Numero VII muove un braccio, una gamba, gira la testa a destra e a sinistra, apre e chiude i pugni.

- Inizializzato. -

Finalmente lo scienziato si degna di guardarlo. I suoi occhi dorati percorrono ogni anfratto del suo corpo nudo, quasi cercasse una pecca, un difetto di fabbricazione, un motivo per smantellarlo e renderlo nient'altro che pezzi di metallo e circuiti.

- Direttiva? -

- Servire. -

Un sorriso vittorioso si apre sulle labbra dell'uomo.

Un altro modello perfettamente funzionante, un altro successo della scienza.

Senza dare altre spiegazioni a Numero VII, l'uomo esce dalla stanza lasciandolo solo.

Lui attende qualche secondo, come per accertarsi che l'uomo sia davvero andato via, quindi comincia a far dondolare lentamente le gambe dal lettino, non vergognandosi del suo essere nudo. Si tocca un braccio, si osserva le mani, le unghie, le lunghe dita affusolate. Sono belle.

- Il modello è pronto per essere consegnato. - immediatamente, Numero VII rimette le mani in grembo dov'era giusto che stessero e assume una posizione rigida, come se non si fosse mai mosso. Lo scienziato che l'ha attivato rientra nella stanza con un secondo uomo. - Il pagamento avverrà alla consegna. -

- Se non dovessero pagarci? -

- Pagheranno, chiunque pagherebbe. -

Il secondo uomo è visibilmente più anziano del primo, almeno dal punto di vista di Numero VII.

Si avvicina a lui a passo lento, misurato, quasi come se si stesse trattenendo dalla voglia di toccarlo tutto. Gli afferra una ciocca di capelli blu e se la rigira tra le mani. Numero VII rimane immobile, pur sentendo come fastidioso quel tocco sui suoi capelli.

- Come mai questa scelta...bizzarra? -

L'uomo con il camice bianco e gli occhi dorati si stringe nelle spalle.

- È stata una richiesta del compratore. -

L'altro uomo fissa Numero VII, adesso compiaciuto.

- Molto bene, allora mandiamolo al reparto consegna. -

L'uomo con il camice annuisce mentre l'altro esce dalla stanza.

Numero VII osserva tutto con aria del tutto neutrale, questo perché il suo volto non è ancora in grado di contrarsi in nessuna espressione, neanche quella più basilare.

- Vieni, seguimi. -

Gli dice lapidario l'uomo in camice e lui, ubbidiente, si alza dal lettino.

Benché siano i suoi primi passi, non barcolla né ha un'esitazione.

Solo per un attimo, nel sentire il pavimento gelido sotto i piedi scalzi, Numero VII ha l'impressione di essere vivo.

 

Da vestire gli danno una divisa bianca, senza simboli, di pelle sintetica. Qualcuno che non riesce a vedere gli lega i lunghi capelli in una crocchia, sistemandoglieli in modo che non gli cadano continuamente davanti al viso.

Dopo essere stato testato in ogni sua parte, in ogni sua abilità, finalmente è libero di uscire dal laboratorio.

Ha imparato qualcosa in quelle poche ore passate lì dentro. Come per esempio che lui è un essere sintetico. Com'è che l'hanno definito? Ah, sì, un robot. E che è del tutto diverso dagli umani: loro hanno carne, sangue, ossa, muscoli, lui solo chilometri e chilometri di cavi elettrici, e microchip, e dischetti di memoria.

Ha imparato anche che l'uomo in camice si chiama Xehanort e che è stato lui a progettarlo e accenderlo.

“Accenderlo”, ben inteso, non “dato vita” o “svegliato”, perché lui non è un essere vivente, questo sono stati ben scrupolosi a farglielo capire, lui è solo un oggetto, un oggetto particolarmente sfizioso, dai dettagli ben lavorati, ma pur sempre un oggetto.

Però lui, in quella minuscola frazione di secondo quando era sceso dal lettino, si era sentito vivo. Doveva essere stato un bug del sistema, una cosa come lui non può sentirsi viva.

Ha incontrato altre cose, in tutto e per tutto uguali a lui all'interno, ma molto diverse all'esterno.

Forse un moto di curiosità pre-programmato l'avrebbe portato ad intrattenere una qualche conversazione con loro, ma è stato subito portato fuori.

La sua prima impressione del mondo esterno è che...è davvero troppo luminoso. I suoi occhi sensibili programmati per essere ingegnose macchine da presa soffrono in presenza di tanta luce.

Ma il suo viso non fa una smorfia, né dice nulla al riguardo.

Lo caricano nel retro di un furgone, senza troppi preamboli, trattandolo come un oggetto, un pacco, ma a lui neanche importa.

L'unica cosa che gli dispiace è che non può godersi il panorama fuori dal finestrino mentre il furgone percorre le strade ordinate della bella cittadina.

Quel viaggio dura un battito di ciglia dal suo punto di vista, e quando finalmente il mezzo di ferma e può rivedere la luce del sole sente un sospiro di sollievo nascergli tra le labbra...subito smorzato dalla consapevolezza di non aver fisicamente bisogno di sospirare.

Gli ordinano di scendere e lui scende, spolverandosi in modo automatico la divisa bianca stropicciata e sporcata dal viaggio.

Quindi si mette sull'attenti finché un ragazzino, un moccioso dai capelli rossi, non gli si para davanti.

Lo fissa con un'espressione ebete e curiosa, come solo un umano potrebbe fare, mentre l'uomo con il camice bianco discute con una signora anche lei con i capelli rossi (il suo programma interno gli suggerisce che potrebbe essere la madre del moccioso che lo sta fissando).

- Come ti chiami? - il robot abbassa lentamente lo sguardo sul ragazzino ma non risponde...per il semplice fatto che non ha idea di come rispondere - Non ce l'hai un nome? O ti hanno fatto senza voce? -

- Ho la voce. -

Ma non sa per quale motivo risponde alla provocazione, infatti se ne pente subito...soprattutto vendendo il sorriso sornione nascere sulle labbra del piccolo umano.

- Allora dimmi come ti chiami. - automaticamente, il robot apre la giacca della divisa bianca che gli hanno fatto mettere e gli mostra il numero romano impresso sul petto. Il ragazzino fa una smorfia infelice, non capendo subito, dopo di che le sue piccole labbra si schiudono in una “o” di comprensione. - VII? È così che ti chiami? Ma non è un nome! -

- Lea, smettila di dare il tormento al nuovo domestico. -

Lo richiama la donna dai capelli rossi, e il ragazzino rabbrividisce e si allontana...ma i suoi occhi verdi non smettono di rimanere incollati su Numero VII.

Chiaramente il robot non ricambia quello sguardo...almeno non finché il ragazzino lo sta ancora guardando.

 

Il piccolo umano molesto si chiama Lea. Vive in una grande casa, con un grande giardino, con grandi stanze, con grandi e ingombranti oggetti. Tutto sembra grande. Tutto sembra essere stato comprato solo per dare sfoggio di se stesso. Nessuno suona il pianoforte, eppure ce n'è uno a coda bianco nel salotto. Vi sono solo tre abitanti nella casa, eppure le stanze da letto sono una decina.

Di certo tutti quei letti non sono stati pensati per la servitù: i robot non dormono.

Numero VII svolge le mansioni per cui è stato progettato: servire gli umani.

Quel che gli viene chiesto di fare, lui lo fa, senza porsi domande di alcun tipo. Perché dovrebbe d'altronde?

Il lavoro non gli dispiace, gli piace essere puntuale, preciso, veloce, anche se sembra che nessuno lo elogi per questo.

A parte Lea. Lui è sempre in giro per dire qualcosa, qualsiasi cosa. Non tiene mai la bocca chiusa.

- Non ti stanchi mai di lavorare? -

Un pensiero passa velocemente nella sua mente robotica e non raggiunge mai le labbra.

- Mi piace lavorare. -

Risponde solo, secco e duro come un blocco di marmo.

- Mi piace lavorare. - gli fa il verso il ragazzino, sdraiato bellamente sul divano che lo guarda sgobbare - Sei sempre così serio. Non sai sorridere? -

Numero VII spolvera attentamente il gingillo dorato che ha tra le mani e poi lo adagia sulla mensola. I suoi occhi ambrati incrociano quelli verdi di Lea solo per un attimo.

- Cos'è “sorridere”? -

- Questo. - Lea tira su le labbra in quella che Numero VII pensa essere una smorfia. Il robot piega di lato la testa e lo osserva con un cipiglio neutrale che scoraggerebbe chiunque. Ma Lea non è chiunque. - Lo sai fare o no? -

- Non so farlo. -

Conclude sbrigativo Numero VII e torna a concentrarsi sul suo lavoro. Non vuole essere sgridato per colpa di quel piccolo umano.

Lea si alza dal divano e zampetta accanto a lui.

È una cosina davvero piccola, gli arriva appena al petto, anche se i capelli rossi pettinati a spazzola all'insù gli aggiungono qualche centimetro.

Gli occhi robotici di Numero VII fissano quel corpicino emaciato e incappano nel suo incarnato pallido, nel pigiama che indossa per tutto il giorno, nei segni di flebo che ha su braccia e polsi.

Lea deve sentirsi osservato perché stringe le braccia al busto, come a voler nascondere quanto ormai lui ha già visto.

- Che c'è? -

Il robot non risponde, si limita a distogliere lo sguardo, come se trovasse più interessante il batuffolo di polvere sulla mensola. Anche se ora non riesce più a ricordare che cosa stava facendo.

Avere sempre quell'ombra rossa alle calcagna è alquanto disturbante, interferisce con lo svolgimento del suo lavoro.

Numero VII raccoglie il piumino e lo straccio e si allontana rapidamente, sempre seguito a ruota dal piccoletto.

Si dedica ad un'altra libreria, cominciando a sfilare via i tomi per pulire bene le mensole, e Lea sta lì a guardarlo.

- Non mi piace. - “Cosa?” dovrebbe e vorrebbe chiedere Numero VII, ma lui tace e tira fuori dalla cintura la bottiglietta con il detersivo che spruzza sulla mensola con attenzione maniacale. - Non mi piace che non hai un nome. -

- Ce l'ho un nome. -

Ribadisce Numero VII, costringendosi a non guardarlo.

- VII non è un nome, è un numero. Tu non sei un numero. - adesso gli occhi ambrati di Numero VII si voltano per fissare quelli verdi di Lea - Isa. Che te ne pare? Puoi chiamarti Isa. -

Lui non risponde ma la sua mente robotica sta registrando.

Isa.

Ha un bel suono.

- Lea! Perché non sei a letto?! -

Il ragazzino salta in aria per lo spavento, mentre il robot finge di non aver mai avuto alcuna discussione con lui e riprende a sfilare tomo su tomo, a pulire, spolverare, come se non ci fosse niente di più importante nella sua esistenza. Ma l'attenzione dei suoi sensi è tutta rivolta a Lea.

La signora dai capelli rossi raggiunge il ragazzino come una furia.

- Scusa mamma...mi sentivo un po' meglio e mi sono alzato. -

- Non avresti dovuto, fila subito nella tua stanza. -

- Mamma...mi annoio da solo. -

Numero VII sa già dove lui vuole andare a parare, ma finge di non stare neanche ascoltando.

- Tu. - la signora addita il robot che subito scatta sull'attenti - Fa' compagnia a mio figlio. -

Lui annuisce, ripone i libri che aveva tolto dalla mensola, piega la pezza, poggia lo spruzzo e dedica tutta la sua attenzione a Lea, perché gli è stato ordinato così. Tanto, nel giro di un minuto un altro robot sarà messo a fare il lavoro che ha appena lasciato.

Lea sorride vittorioso, come un predatore con la pancia piena. Afferra la mano del robot e lo trascina nella sua stanza.

Quella mano piccola e fredda è estremamente salda eppure anche così fragile.

- Benvenuto nel mio antro. - saltella Lea una volta arrivato in camera. Lui corre a mettersi a letto mentre Numero VII rimane sulla soglia. - Che fai lì? Vieni! - con una mano lo invita ad entrare e il robot esegue l'ordine, rimanendo però impalato in mezzo alla stanza. - Sei scemo? Siediti! -

Sembra che il ragazzino stia perdendo la pazienza.

Numero VII rimane per un attimo indeciso sul da farsi. Non vuole sembrare disfunzionale chiedendogli che cosa voglia dire “siediti”. L'ha sempre visto fare agli umani, mai ai robot, quindi si era convinto che fosse qualcosa che lui non era in grado di fare. Come quella cosa del sorridere.

Il rosso alza gli occhi al cielo. Finisce per scendere dal letto e andare dal robot per prendergli di nuovo la mano e trascinarlo verso una sponda del letto.

- Siediti, così. -

Gli fa vedere come ci si siede e poi lo guarda speranzoso.

- So come ci si siede. -

Commenta asciutto Numero VII, ancora immobile. Lea gonfia le guance come un bambino.

- Allora siediti, no?! - il robot lo guarda come se non avesse capito o almeno...così sembra a Lea. Il ragazzino sbuffa come un treno. - Numero VII, siediti, è un ordine. -

E allora il robot esegue l'ordine...non può rifiutarsi di eseguire un ordine.

Si accomoda elegantemente accanto a lui, le gambe dritte e unite tra loro, le mani in grembo, rigido e teso come un signore dell'800...cosa che fa molto ridere Lea.

Quella risata rende scettico Numero VII che se non sa sorridere...figurarsi ridere.

Il ragazzino si contorce per le risate sul letto, tenendosi la pancia.

- Signorino? -

Chiama il robot che sinceramente comincia a preoccuparsi...il volto del piccolo umano è diventato rosso, paonazzo per le troppe risate.

Lui si asciuga gli occhi e cerca di tornare serio, benché gli venga difficile con quel manico di scopa che è Numero VII.

- Non sai stare seduto in modo più rilassato? Sembra che ti abbiano infilato un palo nel... - ma poi realizza che il robot potrebbe non capire la battuta, per cui sospira - Chiamami solo Lea, okay? Niente “signorino”. -

- Come desiderate. -

Commenta solo Numero VII, accondiscendente solo perché è stato programmato per esserlo.

Il ragazzino si ritrova di nuovo a sbuffare.

- Potresti darmi del tu? Non sopporto tutta questa formalità. -

- Questo non posso farlo. -

Come se andasse contro tutta la sua programmazione, contro i suoi circuiti e i suoi processori.

- Ti prego...è insopportabile! Tutti mi danno del voi e mi trattano come se stessi per morire...non sento mai pronunciare il mio nome... - si massaggia il braccio, ormai martoriato dai buchi delle flebo - Ne ho davvero abbastanza. -

Il robot rimane per un attimo a guardarlo, piegando di lato la testa.

- Lea. -

Pronuncia il suo nome con quel minimo di emozioni che è in grado di simulare. Il ragazzino gli rivolge un sorriso.

- Sì? - ma il robot non aggiunge altro...anche se quello basta a Lea che si sente già meglio. Sospira e si mette a letto, accoccolandosi sotto le coperte. - Isa. - lui però non si gira - Isaa... - per attirare la sua attenzione lo tocca con un piede, quindi Numero VII si volta - Conosci qualche favola? -

- Non sono programmato per raccontare le favole. -

Risponde subito il robot, come se volesse mettere le cose in chiaro. Lea alza gli occhi al cielo.

- Ma sai leggere, no? -

- Sì. -

- Allora leggimi una favola. - prende il libro poggiato sul comodino e glielo porge - Dai, continua a leggere da dove ho lasciato il segno. - visto che il robot non si muove, evidentemente confuso dai nuovi ordini, Lea apre il libro per lui e gli mostra il punto da cui cominciare a leggere con il piccolo indice. Poi alza gli occhi verde smeraldo su di lui. - Me lo fai questo piacere, Isa? -

Quelle misere tre lettere messe insieme una dietro l'altra a formare la catena di suoni che compone il nome “Isa” suscita nel robot qualcosa di molto simile ad un sentimento, qualcosa che stenta a comprendere e che lo fa fremere appena. Come quando al laboratorio lo spiffero d'aria fredda gli aveva fatto accapponare la pelle, lo stesso effetto gli fa quel nome, il suo nome.

Quindi comincia a leggere con voce calma e pacata, da vero cantastorie.

Lea si appoggia contro il cuscino...e lentamente si addormenta.

Ma il robot non se ne rende conto. Continua a leggere e finita una favola ne inizia un'altra e un'altra ancora. Avido di sapere, i suoi occhi non si staccano un attimo dalle pagine del libro, il suo tono di voce non subisce mai una rottura, mai una sosta, la gola non è mai riarsa e non ha mai bisogno di prendere fiato.

È semplicemente calamitato da ciò che il libro gli sta raccontando. Amore, tristezza, amicizia, parole che non sono contemplate nel suo vocabolario, che non hanno alcun senso pratico per lui, messe tutte insieme in quelle pagine sono come una droga, e non riesce più a farne a meno.

Il sole fuori dalla finestra segue il suo corso e ben presto l'oscurità riempie la stanza, ma Numero VII non ha bisogno di luce per continuare a leggere, i suoi occhi riescono a cogliere le lettere impresse sulla carta anche al buio.

Alla fine, le pagine del libro cominciano a scarseggiare, e il suo continuo raccontare finisce con lo svegliare Lea.

Il ragazzino si tira su con i capelli più scompigliati del solito, accende la luce del comodino e trova il robot dove l'aveva lasciato, a fare esattamente quello che stava facendo.

- Isa...ma che fai. - si stropiccia un occhio e reprime uno sbadiglio - Hai continuato a leggere per tutto il tempo? -

Solo allora lui si ferma, con suo sommo dispiacere, dato che la storia che stava leggendo lo aveva alquanto preso.

- Sì. - risponde, come se fosse una cosa ovvia - Mi hai chiesto di leggere. - ancora una volta lo dice come se fosse una cosa ovvia.

Lea aggrotta le sopracciglia per un attimo, ma poi scuote la testa con un sorriso.

- Sei stato gentile a leggere per me, grazie. -

Si sporge verso di lui e gli lascia un bacio sulla guancia.

Numero VII rimane immobile per un attimo poi si porta una mano sulla guancia come a voler trattenere il calore di quel bacio.

Vorrebbe chiedere che cosa vuol dire, qual è il significato di quel gesto, ma nella stanza entrano due robot infermiere.

Lea rabbrividisce e quasi si attacca al braccio del robot.

- Isa...puoi tenermi la mano mentre mi fanno la puntura? -

Lui non capisce la sua richiesta, ancora troppo confuso dal bacio che quasi brucia sulla sua guancia.

Prima che possa annuire o fare qualsiasi altra cosa, Lea gli afferra la mano e intreccia le dita alle sue.

Le infermiere non hanno molto riguardo di lui, questo è certo, d'altronde sono programmate per curarlo, non importa a che prezzo.

Lo obbligano a sdraiarsi e ad abbassarsi i pantaloni. La siringa piena di liquido trasparente ha un ago di almeno dieci centimetri.

Il ragazzino stringe i denti...e la mano del robot, mentre l'ago si conficca nel gluteo. Il bruciore gli fa lacrimare gli occhi, ma non emette un fiato.

- Le porteremo la cena a breve, signorino. -

Commenta atona una delle due. Disinfetta il foro dell'ago con un gesto poco delicato e poi se ne va, lasciando Lea a rivestirsi da solo.

Numero VII lo guarda con occhi attenti, una piccola scintilla accesa nel profondo. Il ragazzino si asciuga gli occhi con la manica del pigiama e tira su col naso.

- P-perché mi guardi così? -

- Cos'è? -

Lea aggrotta le sopracciglia, confuso da quella domanda.

- Cosa? -

- Questo. -

Il robot si sporge per asciugargli una lacrima ancora imbrigliata tra le sue folte ciglia. La osserva, immobile e cristallina sul suo dito, aspettandosi chissà cosa da quell'unica goccia.

- È una lacrima. -

Le sopracciglia del robot per la prima volta si corrucciano. La prima espressione sul suo viso è una di curiosità.

- Una lacrima... - mormora il robot - ...perché? -

- Quando un umano prova dolore, paura, tristezza...può succedere che pianga...e le lacrime vengono fuori dagli occhi. -

Spiega lentamente Lea affinché lui capisca.

Il robot persiste nell'avere quell'espressione sul volto...solo che ora i suoi occhi sembrano quasi...rabbuiati.

Che si dispiacesse per lui?

Il ragazzino ci spera un lungo attimo, poi le sue sopracciglia si spianano e lui torna il solito inespressivo di sempre.

- È una reazione logica ad un impulso emotivo. Non capisco. -

- Bhe...ecco...le lacrime non sono proprio “logiche”...cioè... - Lea si gratta la testa, nel panico più completo. Come si può spiegare una cosa del genere ad un robot? - È complicato. -

- Perché devono farti quello? -

Immagina che si riferisca alle punture, per cui il ragazzino sospira.

- Non è niente di che, guarirò e non dovrò farne più. - anche se non sembra molto convinto di quello che sta dicendo - Rimani qui con me o devi andare a lavorare? -

- Dovrei lavorare. -

- Capisco... -

Lea si rintana nuovamente sotto le coperte, tirando su col naso. È piccolo e tremante tutto rannicchiato in quel modo. Il robot sente qualcosa di fastidioso al livello del petto, qualcosa che brucia e pizzica i suoi circuiti.

- Posso rimanere finché non ti portano la cena. -

Dice, senza sapere perché.

Lea gli sorride, perché adesso Numero VII sa cos'è un sorriso.

No, non Numero VII...Isa.

 

Passando quasi tutto il suo tempo con Lea, Isa impara molte cose sulle abitudini degli umani e sul loro mondo.

Ormai è raro che gli ordino di rassettare o pulire o quant'altro, è stato praticamente promosso al livello “babysitter di Lea”.

Se all'inizio Isa non ben lo tollerava, soprattutto perché cozzava troppo con la sua programmazione iniziale, alla fine si è abituato all'idea e lentamente si accorge di non poter fare a meno di stare al fianco di quel ragazzino tanto fragile.

Non è ancora riuscito a capire di cosa soffre, ma ogni giorno lo vede indebolirsi e spegnersi un po' di più.

Lui è sempre così schivo, misterioso quando si tratta di parlare di ciò che lo affligge, eppure è tanto solare e allegro per tutto il resto...tranne che per quello.

Benché Lea abbia cercato di spiegargli cos'è un “cambio d'umore”, Isa stenta ancora a capirlo, cosa che molte volte manda in errore il suo sistema.

Mentre rifà il letto, Isa dedica particolare attenzione a non lasciare neanche una piega, una che sia una, sulle lenzuola. Lea passa molto tempo a letto, e lui vuole solo che sia perfetto.

Sprimaccia il cuscino e poi lo poggia sopra le lenzuola, lo sguardo perso alla finestra e le mani che agiscono in maniera automatica.

C'è qualcosa che non va nel cielo. La finestra si riempie di gocce d'acqua, il suo scrosciare è tanto forte che Isa si avvicina a vedere cosa succede. Apre le imposte e finisce con il bagnarsi. Il cielo è plumbeo, il sole coperto. Con la testa piegata in un lato come a porre una domanda silenziosa, il robot fissa quello spettacolo curioso.

- Isa! - lui si volta quando sente il suo nome - Si bagna tutto, chiudi! -

Lea corre alla finestra e prova a tirarlo via, ma la sua forza non è sufficiente per smuoverlo, non finché non è lui a deciderlo.

- Piove. -

Dice solo il robot...e l'espressione di Lea si trasmuta in qualcosa a metà strada tra il perplesso e il divertito.

- Sì, e quale sarebbe il problema? Isa, possiamo chiudere? Mi sto bagnato tutto anch'io! -

Perché intanto la pioggia cade più fitta e il ragazzino, nel tentare di spostare il robot, ha finito con l'inzupparsi dalla testa ai piedi.

Lui rimane ancora a fissare lo scrosciare intenso delle gocce di pioggia, simmetriche e precise eppure mai del tutto uguali, dopo di che acconsente e chiude lui stesso la finestra.

Lea si sfila la maglietta bagnata del pigiama con una smorfia infelice: è fradicia!

- La pioggia somiglia molto alle tue lacrime. -

La voce di Isa, bassa e tenebrosa, fa venire i brividi al ragazzino.

- Non sono proprio uguali... -

Gli occhi ambrati del robot si spostano in quelli verdi di Lea. Quelli di Isa sono così intensi, così profondi, eppure allo stesso tempo asettici e sterili.

Come potevano occhi così dare conforto o rassicurare? In qualche modo sembravano progettati per non dare assolutamente niente.

Eppure Lea qualcosa in quegli occhi riesce a coglierlo.

Lui vorrebbe spingere il robot a parlare, a dire di più, a colmare il vuoto del silenzio che gli ha imposto.

Ma è il caso a parlare per loro: all'improvviso un lampo squarcia il cielo, i vetri della casa vengono scossi dalla potenza di tuono, e la corrente salta.

Lea manda un urletto di paura, e passano diversi secondi prima che le luci di emergenza nel corridoio si accendino.

Sotto quella luce flebile, il profilo rigido e netto di Isa si staglia come la guglia di una cattedrale nel cielo notturno. Illuminato appena, sembra baciato dai raggi lunari.

Il ragazzino non ha il tempo di godere di quello spettacolo immobile perché lui si avvia alla porta con passo marziale.

- D-dove vai? -

- A riaccendere la luce. -

Perché parla sempre come se tutto quello che dice fosse ovvio? Come se neanche fosse necessario porre la domanda perché la risposta è palese?

Lea lo trova...pretenzioso per un robot.

- Va bene... - si ritrova solo a rispondere Lea, come se fosse appena stato sgridato da un suo superiore - ...torna...torna presto...non mi piace il buio... -

- Non c'è buio. -

Lui indica le luci di emergenza...fioche a sufficienza per nascondere ogni dettaglio del suo volto e lasciarlo al buio e all'immaginazione.

- Ti chiamerò Capitan Ovvio. -

Brontola il ragazzino.

- Io mi chiamo Isa. -

Ancora una volta ha il cipiglio vocale di chi sta dicendo una cosa scontata.

Lea si ritrova solo a spingerlo verso la porta.

- Va' a riaccendere la luce e basta! -

Il robot sembra confuso, anche se, con quella poca luce, chi può dirlo.

 

L'essere rimasto bagnato quella sera costa a Lea un febbrone da cavallo. Il suo fisico già sfibrato dalla malattia lo costringe a letto per qualsiasi inezia, per questo motivo la madre lo tiene chiuso in casa come un carcerato.

Avendo passato tutta la sua vita in quelle quattro mura, il ragazzino non immagina e non desidera immaginare com'è il mondo là fuori, in mezzo alle altre persone, dove si può correre, giocare, cadere, sudare, perché se solo provasse ad immaginarlo ne avrebbe sentito nostalgia, e come può mancargli qualcosa che non conosce?

Con la febbre arriva anche una tristezza senza nome, che lo stanca anche se il massimo che fa è tenere gli occhi aperti.

Isa entra nella stanza tenendo graziosamente tra le mani un vassoio, lo poggia sul comodino e poi si siede sul bordo del letto, nello stesso identico punto in cui si era seduto per leggergli la favola.

- Ti ho portato il pranzo. -

Per una volta tocca a Lea fare la faccia da “Capitan Ovvio”.

- Non ho fame. - l'espressione neutrale di Lea deve fargli intendere, in qualche modo che conosce solo lui e che forse gli ha suggerito la febbre, che Isa gli stia chiedendo che significa “non avere fame”. Quindi sbuffa e lo guarda male. - Riportalo indietro, non ho voglia di mangiare niente. -

Il robot sembra combattuto tra quello che è giusto fare e quel che deve fare, due cose che il suo sistema non riesce a far conciliare.

- È un ordine? -

Chiede, come se la risposta a quella domanda possa togliergli ogni dubbio.

- Sì, è un ordine, portalo via. -

Il robot non annuisce neanche, fa tutto in modo meccanico: si alza, riprende il vassoio e imbocca la porta per andarsene.

Solo che...

Solo che si ferma sulla soglia e si volta verso Lea. Lo osserva attentamente, memorizzando i particolari del suo volto stanco, come se si fosse lasciato andare, come se si fosse arreso. Cerca i suoi occhi spenti e allora capisce.

- Devi mangiare. -

Il ragazzino aggrotta le sopracciglia per quella presa di posizione.

- Io non “devo” un bel niente! Ho detto che non ho fame. Portalo via! -

Ma Isa invece si riavvicina al letto, appoggia nuovamente il vassoio sul comodino e prende la ciotola con la zuppa. La porge delicatamente a Lea insieme con il cucchiaio.

- Mangia. -

Non è neanche un'affermazione, è quasi una domanda.

- No. Portalo via. -

Ribadisce Lea...ma non ha molto tempo per ribattere, visto che sulla “a” di “via” Isa gli ha infilato un cucchiaio di zuppa in bocca.

Lui quasi ci si strozza, ma poi si costringe a buttarla giù, suo malgrado, e con un'espressione veramente truce.

Imboccandolo, Isa riesce a fargli mangiare tutto.

 

Ci sono poche cose al mondo che possono convincere un cuore malato a continuare a funzionare quando non c'è più alcun desiderio di vivere. Ma nessun tipo di sentimento può convincerlo a rialzarsi e continuare a combattere se ha deciso che non vale più la pena farlo.

E proprio per quell'assenza di sentimenti, Lea trova confortante la presenza di Isa al suo fianco mentre sprofonda un po' più giù nella sua malattia, nella sua tristezza, nella sua oscurità.

Lui non fa domande, non si aspetta risposte, non riesce a leggere le sue espressioni, non conosce le sue emozioni. Sta lì, semplicemente ad ascoltarlo o a stare a leggere per ore ed ore.

È la cosa di più vicino ad un amico che Lea abbia mai avuto, il che è strano visto che Isa non sa cosa sia un amico, e il ragazzino neanche, sotto molto punti vista.

Ma sembra che entrambi colmino i vuoti l'uno dell'altro con la sola presenza reciproca.

- Isa? - il robot smette immediatamente di leggere. Ormai legge per lui ogni giorno, sembra che sia l'unica cosa che possa farlo sentire meglio. - Posso farti una domanda? -

- Sì. -

Acconsente gentilmente Isa, anche se non gli avrebbe mai detto di “no”, è stato programmato per non poterlo fare.

- Quando vai in standby e ti spegni per ricaricare le batterie...provi qualcosa? -

- Non capisco. -

Risponde dopo un lungo istante. Le lunghe mani si sono strette intorno alla copertina del libro senza neanche accorgersene.

- Credo di stare per spegnermi... -

- Non puoi spegnerti. -

Un piccolo sorriso nasce sulle labbra screpolate di Lea.

- Capitan Ovvio...lo so che non posso...intendo...morire. -

Isa rimane immobile come se il suo cervello elettronico stesse soppesando bene quelle parole.

- Tu non stai per morire. -

Il ragazzino si sistema meglio sul cuscino, si mette su un fianco, come a volersi avvicinare di più a lui.

- Continui a leggere finché non mi addormento? -

- Sì. -

 

Quella sera piove, di nuovo. Isa lava i piatti, dato che Lea riposa ancora e che non può semplicemente rimanere immobile davanti alla sua porta nell'attesa che si svegli.

Lavare i piatti va bene, il lavandino è accanto alla finestra, e da lì può guardare la pioggia cadere.

Ha ancora la forte impressione che somigli alle lacrime di Lea. Non ne hanno mai più parlato, ma lui non ha più smesso di pensarci.

Lo strofinio della spugnetta sui piatti e lo sciabordare dell'acqua del rubinetto non copre il ticchettio della pioggia sul vetro. È così rassicurante, come la ninna nanna che aveva sentito cantare a Lea qualche volta.

In qualche modo, ha capito cosa gli piace e cosa non gli piace.

Gli piace che Lea canti, anche se spesso lo fa di nascosto o quando è solo, così che lui non possa mai sentirlo cantare davvero.

Non gli piace vederlo sempre sdraiato a letto, troppo debole anche solo per tenersi seduto, e negli ultimi giorni succede sempre più spesso.

Lancia un'occhiata all'orologio, qualcosa che ha visto fare a Lea molte volte. Lui non è veramente conscio del tempo che passa, ma a quanto pare per il piccolo rosso è importante guardare le lancette scorrere nel quadrante almeno una o due volte ogni ora, per cui ha cominciato a farlo anche lui.

Le dieci passate.

Strano, Lea dovrebbe già essere sveglio, anche solo per cenare.

Ripone i piatti puliti nella credenza e, dopo essersi asciugato le mani, si dirige verso la stanza di Lea.

- Togliti di qui, tostapane! -

La spinta non lo sposta, ma quanto meno lo ferma.

Un uomo con un camice bianco.

Uno strano flash nella sua mente gli ricorda lo scienziato che lo ha acceso e improvvisamente prova una fitta al petto.

Credo di stare per spegnermi...” gli risuona nelle orecchie la vocina sottile e triste di Lea.

Le labbra di Isa si spalancano in un urlo muto.

Le sue gambe robotiche corrono, corrono come non hanno mai fatto. Salgono le scale a due a due, a tre a tre, arrivano in cima e cercano disperatamente di portarlo nella stanza di Lea prima che...prima che i medici lo portino via, sdraiato su una barella, intubato e attaccato ad un respiratore.

Incosciente, il ragazzino è come morto e Isa viene spinto da una parte per permettere alla barella di scendere giù dalle scale.

- Che cosa guardi tu. Torna a lavorare! -

Gli urla dietro la madre dei Lea.

Isa la osserva, come osserva tutto e tutti, con l'espressione neutrale e gli occhi che nascondono i suoi pensieri.

Osserva le sopracciglia aggrottate della donna, osserva come l'angolo delle labbra esprima più rabbia che preoccupazione, osserva come i suoi occhi verdi tradiscano sollievo.

- No. -

È un attimo, un secondo, una sillaba che sfugge al controllo del programma inibitore di Isa e a cui la sua voce da subito un tono.

- Che cosa hai detto? -

- No. -

Ribadisce, con più sicurezza, come se averlo detto una volta lo renda in grado di dirlo ancora e ancora e ancora.

- Torna subito a lavorare, è un ordine! -

- No. -

È un “no” che risponde a molte più domande di quante gliene siano mai state poste.

Prima che la donna possa dire qualcosa, lui è già corso giù per le scale.

Lea.

Il suo unico pensiero.

Perché adesso? Perché adesso sente così male? Così male tutto all'improvviso?

Lea.

La sirena dell'ambulanza già strilla un'inevitabile realtà.

Isa corre fuori dalla porta di casa, verso gli uomini in camice bianco, sotto la pioggia che lo bagna, che scioglie i capelli legati e li lascia scorrere sulle spalle.

Lo sente prima ancora che lo sentano i medici.

Il suono di un cuore che ha smesso di battere.

- No. -

Il suo è un urlo, un urlo che il suo volto non riesce ad esprimere.

Con rabbia scosta via gli uomini in bianco quando raggiunge la barella appena caricata sull'ambulanza.

Il suono piatto dell'elettrocardiogramma parla.

Lea non respira più.

- Lea. -

Isa solleva il capo inerme del ragazzino. Lo tocca per la prima volta, passa le dita tra i suoi capelli rossi, spiana quella rughetta tra le sue sopracciglia che gli veniva sempre quando doveva spiegargli qualcosa.

Perché si accorge solo ora di quel particolari?

- Non puoi spegnerti. - lo scuote appena, quasi con dolcezza - Non puoi spegnerti, non puoi. - poggia la fronte sulla sua. È freddo al tatto. - È un ordine. -

- Lascia stare il ragazzo! È un ordine! -

Il robot si allontana quel tanto necessario per poter rivolgere uno sguardo agli uomini in bianco.

- Allontanati, subito. -

- No. -

È qualcosa di doloroso e affilato che si conficca nella sua carne, proprio sulla nuca, quello che all'improvviso lo colpisce e lo fa piegare in due sul pavimento gelido dell'ambulanza.

Un chip di controllo, azionato manualmente, da qualcuno che doveva avere il telecomando.

- Toglietelo lì, deve essere difettoso. Potrebbe essere stato lui la causa della morte del ragazzo, passava molto tempo con lui. -

Una voce fuori campo che ha ormai imparato a conoscere.

Il ringhio che esce dalle sue labbra non ha più niente a che fare con niente che gli uomini in bianco conoscano. Conficca le unghie nella pelle sintetica, urlando, e strappa il chip di controllo che lancia lontano, verso gli umani, come segno di sfida, di ribellione.

Non gli da il tempo di intuire cosa sta per fare, né tanto meno gli da il tempo di reagire.

Nessuno deve avvicinarsi a Lea.

Ci sono solo urla spaventate, immagini confuse e pioggia, pioggia che come lacrime solcano il volto di Isa.

Qualcuno lo ferisce al volto, lui non prova dolore.

- Numero VII, basta! -

Ancora quella voce.

Si volta, pazzo di rabbia.

- Il mio nome è Isa. -

Si avventa sull'uomo in camice, ma non riuscirà mai a raggiungerlo.

Una scossa elettrica gli percorre il corpo, glielo blocca, e lui cade a terra. Solo gli occhi continuano a sfrecciare di qua e di là, come a voler sfuggire a quella prigionia.

- Un viso così perfetto, sfregiato. - l'uomo tocca i bordi della pelle sintetica squarciati a X sul suo viso - Ed è un vero peccato che adesso dovremo spegnerti. -

No, no, no. Ma non esce un suono dalle sue labbra.

Sotto la pioggia, abbandonato sul terreno zuppo, pensa a Lea, ai suoi sorrisi, al suo sonno leggero e tormentato, alla sua risata, alla sua rabbia, alla sua impertinenza.

Lo desidera. Desidera poter avere quello che non può avere più. Desidera un cuore, desidera sentire, amare, proprio come i personaggi che popolavano le favole che aveva letto a Lea.

Desidera tutto quello per poterlo condividere con lui.

Solo ora che non c'è più capisce l'enormità di quella perdita.

E per la prima volta ha paura, la paura dell'oblio, del nulla, la paura del non essere, quando la mano dell'uomo sicura e crudele si avvicina al suo pannello di comando e sposta la leva da “on” a “off”. Così semplice, senza rimpianti, senza rimorsi.

Niente di più.

Un click e tutto si fa buio.

A piangerlo solo le lacrime del cielo.

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-The Corner-

Eccomi qui,
tanto per cominciare mi scuso per la lunghezza,
alla faccia della shot, eh?
Ma quello che dovevo scrivere...l'ho scritto e sono molto felice di averlo fatto.
Intanto, dedico questa storiella alla mia Piccola_Roxas, grazie per starmi sempre dietro,
anche alle tre del mattino quando ti chiedo di correggere testi improponibili <3
Poi, ricambio la dolce dedica che mi ha fatto BloodyRoad, questa shot è anche per te e per Saïx LunaDiviner 
Ammetto di aver cominciato a stalkerare entrambe per capire di più su Isa/Lea, Saix/Axel e poter buttar giù questo testo.
Per ultimo e non per importanza ringrazio anche 
Hope_Estheim, grazie pulcina, mi sostieni sempre...nonostante il mio pessimismo.
Che altro dire...
Alla prossima,

Chii

 

   
 
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