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Autore: Tabheta    14/08/2014    1 recensioni
[Lievi accenni Ri/So/Kai]
AU in cui Riku, Sora e Kairi hanno passato la loro infanzia al Castello Disney, si sono conosciuti, si sono legati. Dal testo:
"Non aveva bisogno d’altro, finché era con i suoi amici, Sora difendeva loro stessi e il loro legame, mentre insieme sarebbero riusciti a difendere tutto, perché il principe e la principessa avrebbero protetto fino allo stremo il regno che il loro cavaliere custodiva con dedizione, il regno del cuore, dei loro cuori, Kingdom Hearts."
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kairi, Riku, Sora
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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#The White-Haired Prince
 
Ricordava con precisione la prima volta che lo aveva incontrato, era un ricordo ricorrente, vivido, che si srotolava nella sua memoria come la bobina di un film muto, proiettata nella sala cinematografica della sua mente.
Aveva cinque anni, un sorriso sdentato enorme e dei piedi, che da soli erano alti quasi quanto lui stesso, chiusi in due scarpe talmente strette che nella sua mente era affiorata più volte la fantasia di una loro ipotetica esplosione. Ovviamente le scintille sarebbero state caramelle, così tutti quelli che le avrebbero raccolte sarebbero diventati automaticamente suoi amici.
La cosa buffa era che anche adesso, che aveva dieci anni in più, il principio di amicizia scambiata per caramelle non gli sembrava poi tanto sbagliato, forse avrebbe dovuto cominciare a scrivere fin da subito la lista degli invitati al suo prossimo compleanno, perché tra tutti gli amici sparsi per i mondi rischiava di sicuro di dimenticarsi qualcuno.

A quel tempo era già diventato amico di tutta la corte, dal più umile servo al più facoltoso ciambellano, era praticamente impossibile che gli fosse sfuggito qualcuno, diciamo che il suo metodo di fare amicizia non era molto convenzionale: c’era il momento delle presentazioni e senza intervalli si passava a quello delle domande ossessive, a causa del quale era diventato l’incubo di tutto il palazzo reale, ma quella volta fu diverso.
Vide per la prima volta il bambino sconosciuto nell’atrio e dopo un momento di silenzio, che se fosse passato un qualsiasi servitore e l’avesse visto fermo e muto per più di cinque secondi avrebbe chiamato il medico di corte per una visita urgentissima, sorrise soddisfatto e gli si avvicinò grattandosi la testa appuntita per via dei capelli e tendendo una manina paffuta.
“Ciao io sono Sora, vuoi essere mio amico?”
Il bambino non gli rispose, rimase fermo immobile appoggiato al muro, come se non si fosse nemmeno accorto della sua presenza.
Sora era abituato alle persone che lo evitavano, a volte correvano proprio via quando lo vedevano, ma almeno lo salutavano. Forse la sua mamma non glielo aveva insegnato? Oppure era perché aveva i capelli bianchi? Sora non aveva mai visto qualcuno con dei capelli così, a parte quelli di Naminé, che erano di un biondo chiarissimo, ma non ricordava bene, era passato molto tempo da quando era andato a trovarla alla torre.
“Perché hai i capelli bianchi? Mamma dice che ogni volta che la faccio arrabbiare le vengono i capelli bianchi, anche tu sei arrabbiato?”
“No.”
Allora sapeva parlare! Forse con un po’ di tempo sarebbe riuscito anche ad insegnargli a salutare.
“Ma capelli così ce li hanno solo i vecchietti!”
“Non sono un vecchietto.”
Sembrava infastidito, probabilmente adesso lo aveva fatto arrabbiare davvero, la sua mamma gli diceva sempre di contare fino a dieci prima di parlare, anzi, nel suo caso fino a venti, il problema era che sapeva farlo a mente fino al dodici, poi doveva usare le mani e ci metteva una vita, quindi non lo faceva praticamente mai.
“Ora sei arrabbiato?”
“Ho detto di no.”
“E se non sei un vecchietto quanti anni hai?”
“Te lo dico solo se riesci a correre più veloce di me.”
Il bambino lo guardò in faccia per la prima volta, rivolgendogli un sorrisetto spavaldo, quello che col tempo si sarebbe evoluto in un vero e proprio ghigno. Lo stava sfidando? Nessuno poteva batterlo, era il più veloce di tutto il castello, aveva conquistato il titolo gareggiando contro Pluto, il cane di King Mickey, e visto che nessun’altro voleva correre contro di lui si era autoproclamato campione in carica.
“Facciamo a chi arriva primo in giardino allora!”
“Va bene, ma se vinco io tu cosa mi dai?”
“Se vuoi posso darti il mio dente! Mi è caduto proprio oggi!”
Sora frugò nelle tasche della sua salopette alla ricerca del prezioso tesoro.
Quella mattina stava pattinando con le scarpe sul liscio pavimento del salone, fresco di cera, quando un incontro molto ravvicinato con lo stipite della porta glielo aveva fatto volare via e non aveva ancora avuto occasione di metterlo sotto il cuscino in attesa della visita della fatina. Sperava proprio che stavolta non venisse Maleficent, l’ultima volta gli aveva lasciato un teschio di zucchero, ma era talmente realistico che non era riuscito a mangiarlo.
“Non lo voglio. Facciamo che se vinco dovrai fare tutto quello che ti dirò!”
Sora lo guardò perplesso. Che razza di condizione era mai quella? Ma Meglio così, si sarebbe goduto lui il regalo della fatina dei denti.
“Va bene, accetto! Allora pronti… partenza…”
“Via!”
Il bambino-dai-capelli-bianchi finì la frase al posto suo e partendo con un netto vantaggio si lanciò in una corsa sfrenata attraverso i corridoi. Sora, spiazzato e confuso, cercò di stargli appresso come poteva.
“Non è valido sei un imbroglione!” Gli urlò dietro offeso, cercando di non inciampare nei sui stessi piedi.
La sconfitta lo travolse come una valanga. Prima di quel momento non aveva mai avuto un vero e proprio avversario, quindi quella era stata la sua prima disfatta ufficiale, in un certo senso poteva esserne quasi felice.
Quando arrivò in giardino il bambino lo aspettava in piedi con una mano sulla grande quercia, come se avesse fatto tana, Sora si buttò stanco a terra facendo la sua miglior faccia offesa, con tanto di guance gonfie e broncio.
Vedendolo il bambino si mise a ridere, in parte per la vittoria, in parte per la sua faccia comica, si sentiva, come dicevano le dame a corte, oltraggiato.
“Che hai da ridere?!”
Cercò di suonare minaccioso, ma l’unico risultato che ottenne fu di far ridere il bambino più forte.
“Sei strano.” Gli disse, piegato sulle ginocchia per il troppo ridere.
Sora dubitava di essere il solo strano in quel castello, insomma, più della metà degli occupanti erano animali antropomorfi! Se era strano lui, per qualche sorta di connessione mistica, lo era pure il bambino-dai-capelli-bianchi.
“Tu sei strano! Non mi hai neanche detto come ti chiami…”
“Riku, ma puoi chiamarmi maestà.”
“Non sei mica il re!”
La sconfitta gli bruciava ancora nelle vene, come se al posto del sangue vi scorresse lava bollente, e Sora non gli avrebbe dato la soddisfazione di assecondarlo.
“Infatti sono il principe!” Disse tronfio.
Non sembrava affatto, pensò Sora, lo osservò meglio sperando di notare una delle caratteristiche del principe che si era disegnato nella sua mente. Nelle favole della buonanotte che gli raccontava la sua mamma i principi erano tutti uomini alti e coraggiosi che salvavano principesse da draghi e malvagi, ma Riku era un bambino proprio come lui! Aveva persino i capelli bianchi, era tutto sbagliato!
“Ah sì? E dov’è la tua principessa allora?”
“Non mi serve, le principesse sono stupide e non sanno combattere.”
Forse aveva ragione, ma dovevano pur essere utili a qualcosa, altrimenti i principi non sarebbero andati a salvarle, e non esistevano principi che non salvavano principesse.
“Se non ne hai una non puoi essere un vero principe.” Gli rispose saccente, cercando di indispettirlo.
“Allora da oggi farai tu la principessa.”
“Cosa?! No! Io voglio combattere e diventare un principe!”
“Devi fare tutto quello che ti dico.” Gli ricordò Riku, spavaldo come solo chi era abituato a vincere sempre poteva essere.
A Sora non piaceva quel gioco, lui voleva essere un principe, non una sciocca principessa, ma sentiva di non potersi rifiutare, dopotutto Riku aveva vinto, anche se in modo scorretto, che i tutti i principi in fondo non fossero molto onesti?
“E che cosa dovrei fare?”
“Non lo sai? Le principesse servono a baciare i principi.”
Quindi era questo che facevano, Sora era piuttosto deluso, esistevano persone che affrontavano draghi e cattivi per avere come premio uno schifoso bacio? Certo che gli adulti erano proprio stupidi.
“Ewww, che schifo!”
“Lo fanno tutti, anche mio padre e mia madre.”
Sora ebbe per un attimo la visione di King Mickey e Queen Minnie che si baciavano e si sentì ancora più disgustato.
“Ma di che sa un bacio?”
“Non lo so, vuoi provare?”
Intuì dal suo tono che lo stesse prendendo in giro, però considerò per un attimo l’idea seriamente.
Si avvicinò di scatto a Riku, con la bocca arricciata in una posa talmente innaturale che aveva la faccia congestionata e lui, più per la sorpresa che per altro, lo spintonò facendolo cadere a terra.
Sora si rialzò sfregandosi il sedere, indolenzito per il poco gentile scontro col suolo, e facendo un rapido check-in dei suoi organi, che si trovassero all’interno del suo corpo era un fatto irrilevante, tastandosi praticamente ovunque.
“Sei uno scemo!”
“Dove ti fa male?”
Gli si era avvicinato preoccupato, ma abbastanza orgoglioso da non palesare ulteriore interesse.
Sora colse al volo l’occasione e, appena fu a portata di tiro, gli schioccò un rumoroso bacio a stampo.
“Ce l’ho fatta!” Urlò praticamente in faccia a Riku, per qualche strana ragione gli sembrava di essersi così vendicato di tutte le angherie subite nel corso del pomeriggio.
“E’ umido.” Disse sfregandosi le labbra.
“Che?”
“Un bacio. E’ umido.”
Sora si era dimenticato di aver perpetrato quella pseudo vendetta a fine conoscitivo.
“Anche io ne voglio uno!”
Fra colui che lo dava e colui che lo riceveva c’era un abissale differenza nella mente di Sora, riceverli era da principi. Poi c’erano tipi di baci che non riusciva a catalogare, ovvero quello che sua madre gli dava al buongiorno, quello della bua, quello del bravo bambino e quello della buonanotte. Che sua madre fosse una principessa? Perché non ci somigliava affatto, anzi lo spaventava anche il solo pensiero che una principessa potesse essere così, gli avrebbe fatto la ramanzina in continuazione.
“Mi spiace principessina, prima dovrai riuscire a prendermi!”
Con uno scatto fulmineo Riku aveva ripreso la sua corsa.
Sora afferrò la situazione con qualche secondo di ritardo, il tempo di urlare un ‘Riiii-kuu’ lamentoso e gli era alle calcagna, dimentico della stanchezza.
 
 
*
 
 
#The White Princess and the Shining One
 
Fin da quando era bambino Sora aspettava le visite alla torre in uno stato di ansia esaltata, sapeva che quello era un posto speciale a cui il re permetteva l’accesso solo in rari casi, e il fatto che fosse uno di quelli lo faceva sentire speciale a sua volta.
La torre era un luogo dove il tempo non esisteva, gli anni passavano e ogni volta che ci tornava, varcata la soglia, si sentiva ancora come se avesse cinque anni e stesse per vedere quel luogo per la prima volta, persino l’atmosfera che vi si respirava dentro non era normale, Sora lo realizzò gradualmente, visita dopo visita, anno dopo anno, sembrava che le pareti volessero risucchiarlo e intrappolarlo lì per sempre.
Poi c’era la stanza bianca, pianeta anomalo di una galassia anomala, in cui finiva e cominciava tutto.

In quella stanza, dove il pavimento, persino i muri, sembravano fatti di nulla, c’era una bambina. Era bianca, pallida, evanescente, talmente delicata da sembrare una bambola, tanto che quando Sora gli aveva teso la mano per presentarsi aveva esitato a stringergliela, per paura potesse sgretolarsi in mille pezzi.
La bambina passava le giornate seduta al tavolino bianco della sua stanza bianca, guardando fuori dalla finestra il mondo colorato, desiderando che quei colori tingessero anche lei.
Fu dopo la prima visita di Sora che cominciò a disegnare, e ben presto la stanza si riempi del bianco dei fogli e del colore sfumato dei pastelli.
A volte, quando andava a trovarla, Sora la guardava disegnare, per ore, talmente infinite che quando sua mamma veniva a riprenderlo gli sembrava che fossero passate settimane.
I soggetti dei suoi disegni erano sempre gli stessi, li avrebbe definiti bizzarri, lei li chiamava Nobody. Gli aveva detto che non possedevano un cuore ed erano alla ricerca di qualcuno o qualcosa che potesse restituirglielo, su quei fogli Naminé intesseva le storie di quelle persone che, dimenticate dal mondo, si erano rifugiate sulla carta per prolungare la loro vuota esistenza.
Diceva che esistesse anche un suo Nobody, si chiamava Roxas e a differenza sua era biondo, gli aveva fatto persino un disegno in cui c’erano loro due che si tenevano per mano e glielo aveva affidato, come se attraverso di lei l’involucro vuoto del Nessuno si stesse finalmente ricongiungendo al cuore. Ripose quel disegno in uno dei mille cassetti della sua stanza e non lo cercò più.
Per rallegrarla durante le sue visite, gli raccontava delle sue avventure insieme a Riku e delle bravate che combinavano insieme, riempiva i racconti di promesse, di come un giorno avrebbe giocato anche lei insieme a loro, quando il re avrebbe dato il permesso anche a Riku di andare a trovarla, che sarebbe stata la loro principessa e l’avrebbero protetta dai malvagi, di solito quel pensiero riusciva a farla sorridere.
Una delle cose che gli piaceva di lei era il suo sorriso, bello come un cristallo e altrettanto fragile, ma si era accorto che ogni volta che tornava diventava più spento e lei sempre più triste, come se un tarlo la stesse consumando dall’interno, aveva paura che un giorno avrebbe trovato un mucchietto di polvere ad attenderlo.
A dieci anni il re gli disse che non c’era più bisogno di andare alla torre, perché Naminé non c’era più.
Non pensava potesse essere vero, ma il tono addolorato di King Mickey non gli aveva lasciato dubbi. Quel giorno stesso cominciò a cercarla per il palazzo, appellando anche l’aiuto di Riku, ma Sora era convinto che non l’avrebbe trovata in nessun altro luogo che non fosse la torre, Naminé era un’entità delicata, i colori dell’esterno non facevano per lei, avrebbero finito per abbagliarla fino a disintegrarla, che si fosse avventurata fuori e fosse stata consumata da tutta quella luce? Sciolta come un piccolo fiocco di neve.
Aveva deciso di tornare da solo alla torre, quel luogo che era sempre uguale, per accertarsi che Naminé non fosse ancora là, era così pallida che poteva essersi mimetizzata col bianco della stanza e passare inosservata agli occhi di King Mickey.
Il silenzio che lo accolse fu come il più familiare degli amici, quante volte avevano spezzato la quiete di quel luogo con rumore di risate. Percorse automaticamente il corridoio che lo separava dalla stanza bianca, povero di ornamenti come tutto, in quell’ala del castello, stonava quasi rispetto al colorato arredamento dell’intero palazzo.
Trovò la porta della stanza bianca spalancata, in tutte le sue visite, non aveva mai visto quella porta aperta più di uno spiraglio, a volte doveva perfino bussare e aspettare il permesso di Naminé per entrare. 
Colta l’anomalia della situazione, Sora cominciò a temere, la stanza bianca non potendo avere lui, aveva risucchiato lei, preda più facile e soprattutto debole. Per quanto volesse illudersi, sapeva che quella fragile bambina non sarebbe durata in eterno, troppo delicata per affrontare la vita, come un fiore dall’esile stelo.
Sbirciò oltre la porta con terrore cieco e in quel momento la vide: luce, rischiarava tutta la stanza con cieco fulgore, inconsapevole del suo splendore. C'era una ragazza, seduta al tavolo di Naminé, con i disegni di Naminé tra le braccia, guardava fuori dalla finestra di Naminé, ma non era Naminé, le assomigliava però.
Lei lo guardò e sorrise, un sorriso che illuminò la stanza bianca, tingendola di quei colori che gli erano stati negati, era bello come quello di Naminé, ma sembrava avere la forza necessaria per durare in eterno. Lo invitò a sedersi al tavolo con lei con un semplice gesto della mano e Sora, ipnotizzato, la raggiunse immediatamente.
“Kairi.” Gli disse in un soffio, talmente breve che a stento fece in tempo a capire.
Ripeté più volte nella mente il suo nome: un suono armonioso e deciso.
“Sora.”
Lo disse tendendole la mano, gli riportò alla mente l’incontro con Riku, anni prima, solo che, a differenza sua, la ragazza gliela strinse, poi tornò a guardare fuori dalla finestra con sguardo assente.
“Era mia sorella sai.”
Non gli sfuggì il tono malinconico della sua voce.
“Non ti ho mai visto nella sua stanza.”
“Mia madre non voleva che la vedessi, così mi ha portata via dal castello.”
Non comprendeva, perché Naminé era stata isolata a quel modo? Viveva in un mondo tutto suo, era vero, ma non faceva del male a nessuno, voleva solo essere capita.
“Perché viveva qui?”
Dopo anni aveva finalmente avuto il coraggio di chiederlo.
“Era debole, mi hanno detto che era certo che sarebbe vissuta poco. Non volevano che la vedessi così, ma in questo modo non sono neanche riuscita a salutarla.”
Copiose lacrime cominciarono a solcare il volto della ragazza, l’impatto con la realtà travolse Sora come la più violenta delle tempeste. Sentiva di voler piangere, ma doveva essere forte, dopotutto voleva diventare un principe no? Avrebbe reso Naminé fiera di lui.
“A me non lo è mai sembrata.”
“Sono contenta che non fosse sola.”
Kairi lo guardò tra le lacrime, per un attimo l’immagine di Naminé si sovrappose alla sua.
“Ho promesso a Naminé che sarebbe diventata una principessa un giorno.”
“Sarebbe stata felice.”
“Diventalo tu, anche per lei.”
Gli sorrise di nuovo, un sorriso così luminoso che per un attimo gli sembro che la tristezza fosse stata spazzata via per sempre.
 
 
*
 
 
 #The Knight who Wanted to Protect Everything
 
Sora ci aveva messo molto a capire che quello del principe non era un ruolo adatto a lui, dieci anni, esattamente.
In tutto quel tempo erano cambiate molte cose: Riku, con suo sommo disappunto, era diventato il perfetto stereotipo del ragazzo impossibile, alto, muscoloso e di una bellezza avvilente, tanto che quando gli andava vicino pareva una mela acerba, Kairi era invece in costante evoluzione, più passava il tempo più assumeva le forme di una donna e abbandonava quel guscio che era il suo corpo da bambina, un bruco che si trasformava in farfalla.
Erano i suoi migliori amici, ma quando vedeva quanto stessero cambiando fisicamente, si sentiva lasciato indietro, a volte era così ingenuo da pensare che quei giorni sarebbero potuti durare per sempre, ma si era reso conto che le cose mutavano, maturavano.
Riku era un principe a tutti gli effetti, ormai persino nella sua testa quando pensava ad un principe gli veniva in mente il suo aspetto, Kairi una bellissima principessa, e lui? Non c’era posto per lui in quello scenario idilliaco, mentre il principe sarebbe partito al salvataggio della bella principessa, lui sarebbe rimasto a palazzo, impalato come uno stoccafisso.
Aveva deciso di ribellarsi al sistema che aveva costruito nella sua mente da quando era giunto a questa conclusione, avrebbe combattuto, avrebbe protetto ciò che per lui era importante con le sue stesse mani, i sudditi, il palazzo e il legame con i suoi amici, fino alla fine.
Annunciò loro che sarebbe partito un pomeriggio, mentre osservavano insieme il tramonto dal balcone del salone,
Riku era come al solito seduto sul bordo, una gamba penzoloni e le braccia appoggiate ai lati, al suo fianco Sora era invece appoggiato di spalle al balcone, con Kairi alla sua sinistra, che con la testa sui gomiti, appollaiati al muretto del balcone, guardava l’orizzonte rosato.
“Vado ad allenarmi per un po’ dal maestro Yen Sid.”
Sora si sentii come un soldato che per primo si lanciava contro l’esercito nemico, in quel caso i suoi due migliori amici, che sapevano diventare più pericolosi di un’ intera armata se combinati.
“Pensavo volessimo andare in spiaggia domani.”
Gli sembrava ovvio che Kairi non lo stesse affatto prendendo sul serio.
“Non avevi detto che volevi andare ad esplorare nel bosco?”
Riku le fece compagnia, si stavano beffando di lui e, come se niente fosse, cominciarono un inutile discussione su dove sarebbero dovuti invece andare il giorno successivo.
“Smettetela! Guardate che dicevo sul serio, io!”
Il fatto che avesse accompagnato quelle parole con il solito broncio infantile, non aiutò ad affermare il suo proposito.
“Andiamo Sora, se fai i capricci anche con me quando ti chiedo di allenarci con la spada…”
“Non è vero! Accetto sempre una sfida!”
“Infatti l’unico modo per smuoverti è quello!”
La risata cristallina di Kairi ruppe la serietà, apparente, della discussione.
“E dire che quando eravate piccoli non litigavate mai, eravate così carini quando giocavate al principe e alla principessa!”
Kairi continuò a ridere, questa volta con più enfasi, mentre le sue parole riaccendevano ricordi imbarazzanti.
“Che c’entra questo adesso!”
Sora diventò di un rosso acceso, occhieggiò Riku, sperando che non si ricordasse di quei vergognosi pomeriggi di gioco che erano durati fino ai dodici anni.
“Argomento scomodo principessina?”
Quel demonio se li ricordava bene invece, e non aveva paura di ritorcerglieli contro, anzi era divertito, che non si ricordasse che era stato proprio lui a volerlo per quel ruolo? Lo ammonì con il solito “Riii-kuu” sdegnato che stroncò la discussione sul nascere.
Dopo quell’attimo d’ilarità iniziale calò il silenzio.
“Perché vorresti andartene?” Gli chiese Kairi rompendo quello stato di calma apparente, mentre guardava nuovamente l’orizzonte, il tono serio stavolta, quasi di rimprovero.
Dacché la conosceva l’aveva vista osservare tutti i pomeriggi il tramonto con aria assente, quando Sora le aveva chiesto a cosa pensasse aveva risposto con una sola parola: casa.
Kairi non era del palazzo, era cresciuta altrove, tra la gente comune, in un clima spensierato e meno serioso di quello di una corte e ne sentiva spesso la mancanza, quando erano più piccoli Sora e Riku le chiedevano spesso di raccontare loro di come fosse fuori, tra il popolo, e a lei si illuminavano sempre gli occhi, era bellissima.
Quando erano cresciuti avevano poi potuto avventurarsi da soli fuori dal palazzo, ma per quanto avessero esplorato non avevano ancora trovato quel paesaggio che avrebbe potuto colmare lo sguardo assente di Kairi.
“Voglio diventare forte abbastanza da proteggere tutti.”
“Non sei da solo.”
Kairi lo guardò negli occhi, in quell’intenso azzurro mare sorgeva un sole dalla luce calda e piacevole, brillavano di determinazione, luminosi come lo era la sua intera essenza.
Sora pensò che, fintanto che quello sguardo sarebbe stato rivolto su di lui, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa.

Riku invece non aveva distolto l’attenzione da lui dall’inizio, da quando si erano conosciuti probabilmente, quando Sora si voltò versò di lui, cercando la sua presenza, lo vide fermo sempre nella stessa posizione, ma stavolta lo stava guardando intensamente, gli occhi verde chiarissimo, che sapevano leggerlo alla perfezione, gli scavavano in profondità fin dentro le viscere. Non ebbe bisogno di parole, bastò un occhiata perché Riku gli trasmettesse la sua stabilità, lui non lo avrebbe mai abbandonato, era il suo punto fisso, un faro in mezzo all’oscurità.
Sora era loro grato, il suo sguardo ricolmo di cieco affetto, come quello di un cucciolo, il fatto che potesse contare su di loro in qualunque momento lo scaldava dall’interno come fuoco liquido, più potente di qualunque motore, erano loro la sua forza, i suoi amici, poteva non essere cresciuto quanto loro due negli ultimi anni, ma se c’era qualcosa che era maturato era il suo cuore.
Era lui l’anello che li teneva uniti e faceva sì che il loro legame non si indebolisse, lo proteggeva dalle intemperie, lo curava e lo rafforzava nei momenti difficili, era il cavaliere che lo difendeva.
La sua però, a differenza di quella degli altri cavalieri, era una spada formata da sorrisi, da ricordi, dal sostegno delle persone a lui care, poteva sembrare fragile o debole, ma in realtà era l’arma più potente di tutte.
Non aveva bisogno d’altro, finché era con i suoi amici, Sora difendeva loro stessi e il loro legame, mentre insieme sarebbero riusciti a difendere tutto, perché il principe e la principessa avrebbero protetto fino allo stremo il regno che il loro cavaliere custodiva con dedizione, il regno del cuore, dei loro cuori, Kingdom Hearts.
 
 
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•Fat’s space
Ciao, se sei arrivato a leggere fino a qui sono già più che soddisfatta, vuol dire che hai letto tutta la mia storia, e per questo ti ringrazio. Di solito non pubblico, ma ho deciso di migliorare me stessa e il mio stile di scrittura, pertanto sarei felice se, qualora trovassi qualcosa da correggere, me lo dicessi lasciandomi un tuo pensiero, in modo che possa crescere come scrittrice e magari un giorno trovare il mio proprio stile.
Grazie per l’attenzione, che Kingdom Hearts sia con te! ;)
  
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