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Autore: northerntrash    18/08/2014    2 recensioni
"Grazie per aver ascoltato" disse Thorin, alzandosi in piedi. "Spero di poter ricambiare il favore, un giorno."
L'uomo nel letto non rispose, ma dato il fatto che era in coma da più tempo di quanto Thorin lo conoscesse, non fu del tutto sorpreso.
Bagginshield Modern AU | SlowBurn | Not a somnophilia story | Storia originale su Archive of Our Own | 38 capitoli
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Bilbo, Dìs, Fili, Thorin Scudodiquercia
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note della Traduttrice
Salve gente, qui parla KuroCyou. Ebbene si, l'ho fatto. Ho preso in mano il progetto di una multi-chapter. Precisamente una da 38 capitoli (mi voglio tanto male). Questa sarà l'ultima storia di quest'autrice a venir tradotta - almeno finchè lei non pubblicherà altro - poi probabilmente passerò ad altri autori. Avevo anche avuto l'idea di tradurre una wip, e se ho tempo penso lo farò, ma per ora cominciamo questo viaggetto con i due soliti idioti qui presenti :D Come comunicato nelle tag di AO3 della storia, l'angst sarà presente in minuscole quantità, quindi se volete una lettura rinfrescante e che vi porti felicità, siete nel posto giusto!
Cercherò di pubblicare, salvo imprevisti, almeno una volta o due a settimana - ho davvero bisogno di darmi una regolata perchè ho altro da fare damn me.
Come al solito, per appunti sulla traduzione mandatemi un messaggio privato qui o sul mio account principale,
e trovate la storia completa in originale qui.
Buona lettura!

 


 

One-Sided Conversations

by Northerntrash
traduzione di KuroCyou
 
Capitolo 1
 

Thorin non era completamente sicuro di dove stesse andando; aveva detto a Frerin che sarebbe andato a prendere un caffè, ma appena aveva chiuso la porta della stanza d'ospedale dietro di sé - chiuso, non sbattuto, nonostante quello che implicavano le espressioni di membri dello staff di passaggio - si era girato nella direzione opposta rispetto alla caffetteria piena e rumorosa, incapace di affrontare né gli Americano annacquati né i volti segnati dello staff e degli stanchi e infelici visitatori dell'ospedale che la caffetteria gli avrebbe offerto. Ci era già passato, solo mesi prima, e non era preparato per farlo di nuovo.

A questo punto sembrava che avrebbe potuto finire per andarsene con due certificati di morte invece di uno di nascita, e quel pensiero aumentava l'irremovibile fitta di rimorso nel suo petto, la conoscenza di stare ancora fallendo, anche diciotto anni dopo aver provato la prima volta l'amaro gusto della perdita.

Il pensiero che chiunque, chiunque gli rivolgesse un sorriso compassionevole o una parola di conforto era troppo.

Il pavimento di linoleum bianco rifletteva le luci al neon, il brillante bagliore incrementava il dolore che si era accumulato nella sua testa senza sosta per tutto il giorno.

Evitando gli occhi di tutti quelli che incrociava, vagò per i lunghi, tranquilli corridoi.

Gli ospedali erano inutilmente labirintici, pensò: non c'era mai un progetto semplice, piuttosto un dedalo di corridoi e scalinate intrecciati, come se non si volesse far sapere alle persone dove stessero andando, come se si pensasse che essere persi avrebbe reso l'esperienza in qualche modo più facile. Forse lo era per certa gente - forse se riuscivi a distrarti con i progetti dei piani e illogici segnali d'indicazione potevi dimenticare il vero motivo per cui ti trovavi lì.

Forse era solo lui, però; Frerin aveva sempre detto che aveva un orrendo senso dell'orientamento.

Si sentiva fiacco, svuotato, come se avesse potuto dormire per un anno se solo fosse riuscito a convincersi a chiudere gli occhi; se avesse potuto, avrebbe dormito per tutta la durata dell'anno precedente. Aveva aggiunto troppi carichi alle sue spalle già pesanti, pensò; si stava piegando sul punto di spezzare.

Certi giorni si sentiva come se la sua schiena fosse fisicamente piegata, che camminasse curvo sotto tutto quel peso.
Si strofinò una mano tra i capelli, arruffati da troppe ore dello stesso movimento.

Un dottore di passaggio gli rivolse un piccolo sorriso comprensivo, e fu improvvisamente tutto troppo: vide un uscio aperto, una stanza vuota, e ci si infilò dentro, chiudendo la porta sommessamente dietro di sé e lanciandosi su una sedia contro il muro opposto, lo schienale colpì la carta da parati blu pallido con un forte tonfo. Silenzio. Aveva bisogno di silenzio.

Aveva bisogno di cinque minuti senza dover guardare Fili raggomitolato e addormentato sotto il cappotto di Thorin in una sedia scomoda perché non c'era altro posto dove andare per lui, cinque minuti senza il tamburellare dei piedi di Frerin e gli occhi grandi e pieni di paura di Vivi e il mormorio dei dottori in cerca di risposte, in cerca di consensi, bisognosi di sapere cose che ora non riusciva a farsi venire in mente. Cinque minuti senza il tremito della sua stessa paura, che gli scorreva dalla mente lungo la schiena finché tutte le ossa del suo corpo sembravano dilatate, fuori misura e mal-funzionanti, lasciandolo a ruotare attorno al proprio asse di calma.

Chiuse gli occhi.

Doveva dormire, e doveva mangiare, e doveva spegnere il cervello per qualche ora così che potesse elaborare quello che era successo, così che potesse tenersi abbastanza saldo da impedirsi di agire come se fosse già in lutto, quando no c'era ancora nulla per cui esserlo.

Aprì di nuovo gli occhi, spostando lo sguardo attraverso la stanza, e si irrigidì.

Quella che aveva creduto essere una stanza vuota era di fatto occupata - decisamente - da una persona stesa sul letto, completamente immobile e collegata ad un mucchio di macchinari che ronzavano sommessamente. La stanza era spoglia della solita attrezzatura di un paziente, senza biglietti o bouquet o libri; non c'erano valige sul piccolo scaffale nell'angolo e nessun vassoio della cena sul tavolo pieghevole, anche se aveva visto lo staff distribuire i pasti serali mentre vagava.

Solo la figura sul letto, nulla più che i contorni di un corpo sotto strati di coperte, e l'ombra di capelli su un cuscino; poteva vedere poco altro.

"Io…" cominciò, pensando di scusarsi per essere piombato dentro, ma la porta si aprì con un click prima che potesse dire niente, e un infermiere entrò, i capelli argentati e curati tirati indietro sul suo viso. L'infermiere lo fissò perplesso per un momento, prima di sorridere con calore.

"Le mie scuse" disse, prendendo la cartella appesa ai piedi del letto. "Non mi aspettavo di vedere qualcuno qui - non riceve molte visite."

Thorin si agitò un po' nella sedia scomoda, sentendosi incredibilmente fuori luogo - non sarebbe dovuto essere lì, nella stanza di un uomo che non conosceva nemmeno. Non sarebbe dovuto essere lì in generale: doveva essere a casa, nell'appartamento dietro l'angolo rispetto alla tentacolare casa di famiglia, dove la macchina di Dis sarebbe dovuta essere ancora intatta nel vialetto. Era domenica - si sarebbe dovuto preparare per andare in giro con Dis e Vivi per cena, come facevano ogni settimana. Avrebbe dovuto essere pronto a leggere per Fili, a lamentarsi con Frerin del suo appuntamento col dottore la settimana successiva, a ricontrollare gli schizzi dei design che avrebbe dovuto mandare al fabbro come prima cosa il lunedì mattina.

Non qui.

"No?" disse, quando l'infermiere lo guardò di nuovo, chiaramente aspettando una risposta di qualche tipo mentre controllava ciò che riportavano i macchinari intorno al letto. La sua voce non sembrava la sua, roca e incerta, ma l'infermiere non sembrò notarlo, continuando con l'efficienza di qualcuno abituato al suo compito.

L'infermiere scosse la testa. "Ne aveva un po' quando è arrivato, ma non ha parenti stretti e la maggior parte delle persone…" lasciò cadere, e sospirò. "Sono passati mesi ormai, ed è un grosso impegno per la gente, continuare a venire. In particolare quando… beh, quando non sai se si riprenderà mai."

Thorin annuì, e la sua risposta doveva essere bastata, perché l'infermiere sorrise, e cominciò a rivoltare le coperte.

Distolse gli occhi quando il petto dell'uomo fu visibile, e l'infermiere slegò il lacci della sua camicia d'ospedale per controllare qualcosa, mormorando un'approvazione a qualsiasi cosa avesse visto - punti, forse o qualcosa di peggio.

"Sono sicuro che apprezzerebbe molto la tua visita."

Thorin si chiese per un momento se dovesse confessare, che non conosceva l'uomo e non aveva avuto intenzione di essere lì, ma l'improvvisa pesante tristezza nello sguardo che gli fu lanciato fu abbastanza per frenargli la lingua. Cosa avrebbe risolto, oltre a turbare un membro dello staff dall'aria stanca?

"Lo conosci bene? Non sono certo di averti mai visto qui?"

La pose come una domanda, per cui Thorin fu grato, e distolse gli occhi mentre scuoteva la testa. L'infermiere sembrò prenderla per quello che era, una silenziosa ammissione di non voler parlare, e si limitò a coprire di nuovo l'uomo. Annotò qualcosa sulla cartella, e rivolse a Thorin un piccolo sorriso mentre la rimetteva a posto e si avviava verso la porta.

Esitò per un momento sull'uscio, spostando lo sguardo tra Thorin e il letto.

"Ti lascio, allora. Lui… non c'è bisogno che tu ti sieda lì, sai. Si pensa che sentir parlare le persone possa aiutare. Gli lasciamo la radio accesa, a volte. Puoi andare lì, sederti vicino a lui."

Thorin annuì, non fidandosi completamente della sua lingua. L'infermiere continuò a sorridergli per un lungo momento, e Thorin si tirò in piedi.

Se avesse potuto, se ne sarebbe andato, ma in quel momento il pensiero di deludere l'infermiere era solo un altro peso che si sarebbe aggiunto sul suo collo.

Fece un passo verso il letto.

L'infermiere chiuse la porta dietro di sé con un silenzioso click, lasciando Thorin a sentirsi forse persino peggio di quando si era infilato nella stanza. Non solo era riuscito ad interrompere la quiete di quello che era apparentemente qualche povero tizio in coma, aveva anche inavvertitamente convinto un infermiere ben intenzionato di essere lì per vedere l'uomo, quando in realtà aveva solo cercato di nascondersi dalle proprie responsabilità ed emozioni.

Davvero non aveva bisogno di più senso di colpa, quel giorno tra tutti.

Prese la cartella che l'infermiere aveva rimesso a posto, dando un'occhiata alla data di ammissione: tre mesi e mezzo prima.

L'uomo nel letto era pallido e magro, anche se c'era una certa morbidezza nei suoi lineamenti che suggeriva fosse stato un po' più paffuto prima di essere ricoverato; suppose che quel tipo di cosa fosse normale, nei pazienti in coma, anche se la sua conoscenza medica era limitata all'occasionale ri-scorsa di un vecchio episodio di Dr. House. Era difficile valutare l'altezza dell'uomo da dove stava disteso, coperto quasi completamente dalle lenzuola, ma Thorin pensava che fosse più basso di lui, anche più sottile. C'era qualcosa di vulnerabile nel modo in cui se ne stava steso lì, la schiena dritta invece di lievemente incurvata come ci si potrebbe aspettare da qualcuno che stava semplicemente dormendo.

"Mi dispiace" disse all'uomo "per averti interrotto."

L'uomo non rispose, e Thorin si ritrovò a fissare il viso spento e liscio per un momento. Era stranamente senza età, spogliato di tutte le preoccupazioni e sentimenti; avrebbe potuto avere dieci anni più di Thorin, o dieci anni meno. Non aveva modo di sapere.

"Io… io avevo solo bisogno di sedermi in un posto tranquillo per un po', senza nessuno che mi parlasse o che mi chiedesse se c'era niente che possano fare, o…"

Scosse la testa, prima di lanciare di nuovo un'occhiata al letto. I capelli dell'uomo erano tagliati molto corti, senza dubbio per rendere le cose più facili agli infermieri: erano di un colore tra il castano e il biondo, senza essere l'uno o l'altro, e avevano una leggera leggerezza anche così corti che suggeriva potessero arricciarsi se gli fosse permesso di crescere.

C'erano leggere linee agli angoli della sua bocca, come se sorridesse tanto, ma ora il suo viso era molle, impassibile.

Non c'erano reazioni alla sua presenza e con un'ultima occhiata alla porta, Thorin si sistemò sulla sedia vicino al letto, sfogliando le annotazioni sulla cartella ancora una volta.

La maggio parte era scritta in un linguaggio tecnico e medico che non capiva: sembrava esserci una specie di tabella di turni, e una lista di cose con lunghi nomi che Thorin sospettò potessero essere medicazioni di qualche tipo, ma incontrò cose che riusciva a capire, qui e là, alcune stampate e alcune nella grafia mezza-illeggibile di un senza dubbio frettoloso dottore.

 Condizione comatosa

Ferita alla testa

Non reattivo

B. Baggins

Chiuse la cartella prima di poter impicciarsi ulteriormente: non era compito di quest'uomo fornirgli distrazioni in tempi del genere, anche se ne aveva davvero bisogno e, con tutta probabilità, non lo avrebbe mai saputo.

"Non sono davvero qui in visita" Thorin cominciò di nuovo, "Solo non sapevo come dirlo all'infermiere. Sono qui con mia sorella. Lei è…" si interruppe ancora, mentre la crescente spossatezza dopo giorni insonni calava su di lui. La paura che aveva cercato di combattere dalla telefonata che era arrivata quella mattina presto pressava sul suo petto, rendendogli difficile respirare.

"Ha avuto un incidente d'auto," disse all'uomo addormentato. "È andata in travaglio prematuro. Il bambino ce l'ha fatta, e pensano che starà bene, ma hanno detto che c'è bisogno di tenerlo qui per parecchie settimane, se non mesi."

L'uomo - il signor B. Baggins - non disse nulla.

Ovviamente.

Thorin reclinò in dietro la testa, chiudendo gli occhi.

"Lei... i nostri genitori sono morti quando aveva dodici anni, e io diciannove, sono diventato il tutore legale. Suo e di mio fratello."

Si sforzò per un momento per non mostrare sul suo volto come si sentiva, ma poi ricordò: non c'era nessuno a guardare. Strinse gli occhi.

"Mio fratello è quasi morto solo tre mesi fa. Pensavo che lo avrei perso, come i nostri genitori. È stata colpa mia, sarei dovuto andarlo a prendere, ma ero in ritardo… e ora lei, i dottori ci hanno detto che potrebbe morire, è in sala operatoria ora e…"

A questo punto normalmente la gente saltava nel discorso, con parole rassicuranti o sorrisi comprensivi o - peggio - contatto fisico non voluto. Aveva ricevuto più pacche sulle spalle e imbarazzati mezzi abbracci dopo la morte dei suoi genitori di quanti ne potesse sopportare.

Il pomeriggio grigio faceva poco per illuminare l'atmosfera della piccola stanza d'ospedale, il pulsare muto delle macchine era un sottofondo stranamente tranquillizzante. Suppose di aver passato troppe ore in ospedale nei mesi recenti se trovava il suono di equipaggiamento ospedaliero effettivamente rilassante.

C'erano fiori sul davanzale della finestra; di stoffa.

Si chiese se venissero dall'ospedale, o da un visitatore: forse uno che non passava spesso, e pensava di affievolire il rimorso delle visite infrequenti con un regalo duraturo.

Lo fece sentire stranamente infastidito.

"Mio fratello è stato rapinato, fuori da una stazione del treno: gli hanno rubato la borsa ma ha provato a contrattaccare, e l'altro aveva un coltello. Lo dovevo andare apprendere, era stato via per lavoro, ma ho fatto tardi.
Fece una pausa, e si accigliò.

"Non so perché te lo sto dicendo."

Thorin aspettò un momento di più, ancora quasi aspettandosi che l'uomo si svegliasse, lo guardasse, gli rispondesse.

"Mi dispiace," disse ancora, alzandosi in piedi. "Ti lascio stare."

Ma mentre chiudeva nuovamente la porta dietro di sé si sentì inondare da uno strano senso di calma, come se avesse dormito a lungo in una fresca stanza scura.

Raddrizzò le spalle, sentendosi un po' meglio, e si fece strada verso il resto della sua famiglia per aspettare notizie.

---------------

Sette settimane dopo -

Si rese vagamente conto di uno strano bip, e lo sgradevole calore di troppe lenzuola, come se fosse stato steso troppo fermo in una calda notte d'estate per troppo a lungo.

Si accigliò, e provò a muoversi, ma era come se un grosso peso premesse giù il suo corpo, ed era quasi impossibile muovere le membra anche solo di poco.

"Non preoccuparti" arrivò una voce tranquillizzante, calma e melodiosa. "Non cercare di muoverti troppo, prova solo ad aprire gli occhi."

Cercò di rispondere, ma si sentiva la bocca incredibilmente secca, e non riusciva a far lavorare la lingua correttamente.

Occhi. La voce aveva detto che doveva aprire gli occhi.

Era molto più difficile di quanto sarebbe dovuto.

Tutto sembrava che dovesse fare male, ma rimanesse insensibile allo stesso tempo. Cos'era successo?

La luce fu quasi abbagliante quando riuscì infine ad aprire gli occhi, il mondo galleggiò lentamente a fuoco.

L'unica cosa che vide, prima di essere costretto a chiudere di nuovo gli occhi, furono dei fiori di un pallido arancio-oro, leggermente afflosciati, in un vaso accanto al suo letto.

   
 
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