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Autore: TheHeartIsALonelyHunter    23/08/2014    2 recensioni
[Partecipa al contest a turni "1 su 24 ce la fa!" indetto da ManuFury]
Era sempre stata troppo concentrata a vedere le sfumature della morte per accorgersi di quelle della vita.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Clove
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '1 su 24 ce la fa!'
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Nick sul forum/ Nick su EFP (segnalare quello che si vuole avere sul Banner): TheHeartIsALonelyHunter
Tributo: Clove
Turno: Quinto turno
Titolo Storia: Yellow bricks (Trying to build)
Pacchetto (se presente): Contenitore Giallo
Genere: Introspettivo, Lieeevemente Dark
Rating: Giallo
Avvertimenti: What if?
Pairing (se presente):
Note (facoltative): (Da leggere dopo) Dunque, ho deciso di inventare questo What if? in cui Clove ha vinto gli "Hunger Games" e mi sono chiesta "cosa avrebbe fatto?". E da qui è nata tutta l'idea. Spero sia chiaro cosa volevo intendere e spero di aver usato bene la frase che mi è stata assegnata. So che la seconda scena è un po' "slegata" dal resto, ma mi piaceva l'idea dell'intervista durante il Tour della VIttoria. Ho cercato comunque di ricollegarmi al colore giallo anche in quella scena. Spero che il titolo non sia un totale disastro, ma diciamo che sono partita da quella per scrivere quindi spero sia attinente.


Mattoncini gialli.
La casa che stava sorgendo a ritmo forsennato nel mezzo del Villaggio dei Vincitori, una tra le tante che, come funghi spuntati in gruppo e completamente identici, punteggiavano quel terreno venerato e a un tempo temuto, era in mattoni gialli.
Clove aveva sempre odiato il color giallo, con tutta sé stessa, sin da quando era nulla più che un batuffolo scattante di muscoli con in mano un coltello più grande della sua mano. Era un colore che sapeva di acidità, che le faceva storcere il naso, che la lasciava disgustata e indispettita come nessun altro colore, il giallo e quella sua dannata pretesa di essere un colore allegro e solare.
Era il colore del piscio dei gatti, il giallo, di quella malsana tonalità malaticcia che aveva visto spesso in casa sua.
Era il colore della pelle di sua madre, tendente a un verdognolo malsano e assurdamente inquietante, quando beveva un bicchierino di troppo e le sue mani scheletriche si tendevano verso di lei con brama cacciatrice.
Era il colore del campo di girasoli che si vedeva dalla finestra della sua camera (l’unica cosa che, Clove ne era certa, fosse stata veramente sua), lì in lontananza, troppo distante per essere raggiunto, troppo vicino per non essere visto e per non sfiorare la sua fantasia.
Era il colore dei capelli della prima bambola che avesse mai avuto, quella piccola e minuta creaturina che le avevano affidato, col suo sorriso trasognante e sempre uguale sul viso e gli occhi azzurri e limpidi che la guardavano e le dicevano “Ti voglio bene”. Quella era stata anche la prima bambola che aveva decapitato, dopo aver avuto ovviamente cura di tagliarle quella chioma orribilmente gialla.
Clove incrociò le braccia al petto, gli occhi a contemplare il cantiere che le sorgeva davanti in tutta la sua maestosità decadente e leggermente inquietante che avevano solo gli scheletri delle case in costruzione o in disfacimento. Strano quanto fosse diventata attenta a quei dettagli così poco importanti, alle piccole cose del mondo che prima non aveva mai neppure notato. Era sempre stata troppo concentrata a vedere le sfumature della morte per accorgersi di quelle della vita.
Solitamente nel Distretto 2 c’era sempre una casa pronta per i quasi sicuramente vincitori, ma lei non aveva voluto accettare la dimora che le era stata assegnata (una delle tante ville sfarzose, uguale a ogni altra che ci fosse nel Villaggio dei Vincitori) per un semplice capriccio da diva che si era voluta concedere solo per fare un po’ di scena, per ricordare che aveva vinto lei gli “Hunger Games” e si meritava quello e altro.
“Voglio qualcosa di nuovo”, aveva detto davanti alle telecamere a testa alta e sguardo fisso a scrutare con arroganza ogni singolo essere che la circondava e le premeva addosso per sapere di più, di più, sempre di più. Se lo poteva permettere, in fondo. Era la vincitrice degli “Hunger Games”.
“Voglio qualcosa di mio”, aveva ripetuto ad ogni giornalista che le si fosse avvicinato per conoscere altri dettagli della sua vita e che aveva liquidato con un gesto della mano e un “Si levi di mezzo”. Se lo poteva permettere, in fondo. Era la vincitrice degli “Hunger Games”.
Alle domande sul suo futuro, Clove aveva risposto sempre con un’alzata di spalle noncurante e un “Non lo so, forse sposerò un riccone e avrò cento bambini” detto con quanta mena convinzione avesse e l’aria di qualcuno a cui non importava davvero. E in fondo era vero: non le importava nulla del suo futuro, assolutamente nulla.
Sentì il vuoto che la accompagnava dall’istante in cui era scesa dal treno che l’aveva riportata nel Distretto 2 ingigantirsi di nuovo e espandersi nel basso ventre, inghiottendo ogni altra sensazione e lasciandola un attimo senza fiato. Richiuse gli occhi con rabbia e ficcò i denti nel labbro inferiore con forza, costringendosi a un altro respiro e a un altro istante di vita. La consapevolezza che era almeno la terza volta da quando la giornata era iniziata che doveva obbligarsi a far funzionare a dovere i polmoni la paralizzò un attimo sul posto.
Si passò le mani sulle braccia nude, rimpiangendo il maestoso cappotto con la pelliccia di ermellino che giaceva indimenticato nell’armadio della casa che le avevano affidato (un’altra cosa che non sarebbe mai stata davvero sua) e rimproverandosi la t-shirt sporca e malandata, reliquia di una vita che oramai giaceva lontana alle sue spalle. Le telecamere non avrebbero approvato, probabilmente. Non era quello l’abbigliamento che ci si aspettava dalla vincitrice degli “Hunger Games”.
Continuava a ripetersi quel titolo in testa con ossessività ogni istante sempre meno convinta dall’istante in cui l’aveva sentito pronunciare dagli altoparlanti in quell’Arena amata e rimpianta. Inizialmente era stato un eco mostruosamente amplificata nella sua testa che l’aveva lasciata lievemente attonita e stordita. Poi era diventato un urlo ripetuto da centinaia di persone che la applaudivano, le mani in aria e i sorrisi stampati sul viso che l’aveva riempita di un senso di gloria e di orgoglio che era bastato, per un primo momento, a ignorare quella sensazione di nulla che aveva iniziato a convivere nel suo stomaco insieme al suo spirito battagliero.
E poi, lentamente, l’urlo si era affievolito fino ad assottigliarsi quasi completamente, e Clove si era trovata a ripeterselo solo per senso d’inerzia e senza vera passione, tentando di riempirsi un po’ di più con quell’acqua rigenerante per non accorgersi di essere completamente vuota. Per qualche istante ripetersi quel titolo bastava a darle una sorta di carica positiva, a darle di nuovo quella spinta di orgoglio che la faceva sorridere e dirsi che no, non aveva bisogno di piani per il futuro lei, giacché era la vincitrice degli “Hunger Games”. Poi anche l’eco svaniva, lasciandola di nuovo sola con quel suo essere senz’anima e senza progetti, senza passato né futuro.
Si conficcò le unghie nel palmo della mano, con quanta forza aveva e sperando che fossero abbastanza lunghe per lasciare un minimo il segno del loro passaggio spietato. Fu esaudita: dopo un attimo la sensazione del palmo umido la pervase tutta arrivando a ogni nervo e accendendoli di nuova forza, facendole piegare la testa all’indietro con un gemito soddisfatto di piacere.
Sangue.
Un flash di rosso le attraversò un attimo la retina, mentre l’immagine di lei china sul cadavere della piccola arrampicatrice del distretto 11 la scuoteva di nuovo come una scossa elettrica. Rimase un istante senza fiato, poi lasciò la presa sui palmi martoriati e prese un ulteriore respiro profondo. Era sempre più difficile, doveva ammetterlo.
Aveva bisogno di combattere.

Il finto sorriso rosso rubino gli sparì dal volto nell’istante in cui si ritrovò dietro le quinte, la sensazione di vuoto più schiacciante che mai e i polmoni doloranti che chiedevano un ossigeno che sembrava mancar loro da giornate intere.
Si portò con foga le mani al dietro del vestito color crema (l’aveva odiato nell’istante in cui l’aveva visto, ma questo a Caesar non l’aveva detto, come non aveva detto tante cose), annaspando per un attimo alla ricerca dell’odiata zip che sembrava scivolarle tra le dita ogni volta che credeva di averla afferrata. Quando fu certa di averla tra le mani, diede uno strattone violento e inspirò profondamente come un uomo che dopo aver rischiato di annegare riesca finalmente ad arrivare alla tanto agognata aria.
La stoffa che le ricadeva intorno al corpo, lasciandola finalmente libera di quel peso opprimente che si sentiva premere sullo stomaco, le diede un lieve brivido freddo che le attraversò tutta la colonna vertebrale come fosse stata una scarica elettrica da mille volt: in un attimo si sentì come rinata, ricordando solo dopo qualche istante che sotto quello strato di taffetà e velluto non indossava null’altro se non la biancheria intima e una misera canottiera di uno spento giallo limone.
L’occhio le cadde sulla vecchia pelle di serpente che giaceva a terra, straniera e scomoda come non avrebbe creduto le sarebbe sembrata un giorno. I primi tempi aveva adorato quegli abiti sfarzosi, il piacere di sentire altre mani chiuderli con reverenza, il brivido che partiva dalle mani e poi passava a tutto il corpo quando le passava sul tessuto fresco di sartoria, gli sguardi che si lanciava nello specchio come a dire che sì, era la vincitrice degli “Hunger Games”, e poteva permettersi anche un abito da principessa, se voleva. Poteva permettersi tutto quello che non aveva mai voluto e che non era mai stato suo.
Poi, come tutte le altre cose, anche quel piccolo piacere le era stato strappato via con la violenza di un’onda che lava la battigia e cancella le impronte sulla sabbia. Non le era rimasto più neppure quella minuscola soddisfazione che pure era stata una delle più gradite che erano conseguite alla vittoria.
Clove rimase ferma alcuni istanti, dritta nel mezzo dell’alone di stoffa come una guerriera sulle barricate, nuda e pallida, sentendosi respirare e inspirare come fosse stata un’altra persona, un’altra entità a farlo, e non lei.
Si rese conto con una punta di disgusto che presto l’avrebbero richiamata sul palco, e che quell’idiota di un Flickerman non aspettava altro se non spremerla completamente fino all’ultima goccia, carpirle ogni singolo frammento del suo essere e poi venderlo per qualche soldo a Capitol.
Non riusciva neppure a collocare con precisione il giorno, il minuto, l’istante in cui l’idea della ricca capitale aveva iniziato a ripugnarla. Nella sua mente sembrava non esserci più nulla prima e dopo l’Arena, nulla se non quei gloriosi giorni in cui si era sentita, per la prima volta in vita sua, libera.
Libera di essere quello che in realtà era sempre stata, l’assassina a sangue freddo, la temibile Clove, la più temuta di tutto il Distretto 2 sin da quando aveva imparato a maneggiare un’arma. Ricordava ancora con chiarezza lucida ogni singolo dettaglio dell’istante in cui, per la prima volta, aveva abbeverato le sue mani al cadavere di una persona uccisa da lei, lei in persona, di come le dita si erano assetate a quella fonte come non avessero aspettato altro in tutta la loro vita se non quello. E forse era proprio così.
Non aveva aspettato altro sin da quando aveva guardato con occhi increduli suo padre mentre le passava quella mazza e le diceva che era sua, mentre le sue dita andavano a carezzare ogni venatura del legno e i suoi occhi vedevano il rosso del sangue macchiarne il perfetto color bruno.
Aveva bisogno di combattere, non aveva mai avuto bisogno d’altro nella sua vita.
Solo di impugnare un’arma e puntarla, che fosse stato un arco, un pugnale o una mazza non cambiava molto per lei. L’importante era avere un avversario e un modo per ucciderlo, avere la certezza di vincere per poter godere ogni istante in cui, vanamente, l’altro avrebbe cercato di batterla, avere voce in petto per poter ridere mentre si affannava a cercare una via di scampo e lei colpiva con nonchalance come fosse stato nulla, nulla di così importante. Solo un giochetto un po’ più difficile, solo un po’ più eccitante, solo un po’ più mortale (non certo per lei).
Aveva bisogno di combattere.
Ed eccola lì, la grande guerriera, con le mani rosee e perfette (le avevano tolto anche le cicatrici), gli occhi che qualche giornalista incauto aveva definito “ammalianti e profondi”, i capelli ben acconciati (Rea li aveva definiti “assolutamente meravigliosi”, lei li aveva odiati nell’istante in cui li aveva visti). Non era rimasto nulla. Non le avevano lasciato più nulla.

Mattoncini gialli.
Sebbene avesse tanto insistito, nonostante avesse dichiarato che gli avrebbe fatto causa se si fossero azzardati a mantenere quell’orrendo colore, loro l’avevano ignorata come fosse stata una comune ragazzina capricciosa, lei, proprio lei.
E forse, si diceva Clove mentre guardava le pareti color campo di girasoli, color piscio di gatto, color capelli di bambola, era diventata proprio quello.
Esaurita la novità, passata la celebrità, lei era una delle tante che aveva vinto gli “Hunger Games”, una delle innumerevoli vincitrici anonime, una delle infinite facce subito dimenticate. Un suo capriccio non era più molto importante, come non era più importante che lei avesse ucciso ventitré persone. E così non le restava neppure più quello: il potere di incutere terrore, il potere di essere tanto temuta quanto amata, il potere di far allontanare e avvicinare la gente per strada, il potere di far esaudire desideri che, se non fossero serviti a riempirla un po’, non avrebbe mai neppure espresso mentalmente.
Clove si sedette sul divano con uno sbuffo spazientito, appoggiandosi ai braccioli per avere un qualche appiglio mentre tirava il solito respiro profondo. Non le era sfuggito quanto fosse diventato sempre più difficile ogni volta, quando più a fatica doveva tentare di combattere il senso oppressivo del vuoto che le premeva sull’addome. Forse quella sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe combattuto in vita sua: un senso di asfissia totale subdolo e intelligente che, con manovre studiate e senza aver bisogno di estrarre armi, l’aveva completamente presa in suo potere. Non era servito combatterla faccia a faccia, sfoderando il pugnale davanti a sé e facendole cenno di avvicinarsi, con quell’aria strafottente che sapeva di avere lei. Era bastato aspettare che abbassasse le difese, che si girasse un istante, che si distraesse perché l’avversario avesse la possibilità di conficcare il pugnale tra le costole, di penetrarle dentro e da lì sfiancarla con la lentezza studiata di uno stratega e l’invasività totale di un pericoloso virus.
Forse, si disse Clove, così avrebbe passato il suo futuro: una casa di mattoncini gialli che odiava, il capo appoggiato al divano e il respiro che, poco alla volta, si assottigliava fino a sparire quasi impercettibilmente.
Oppure, chi poteva saperlo? Una casa di mattoncini gialli che odiava, un marito vecchio e sdentato che non riusciva più a sopportare e tanti bambini che ogni anno erano stati estratti e erano divenuti tutti vincitori degli “Hunger Games” come lei, che avevano avuto il loro momento di gloria e poi, come meteore, erano caduti inevitabilmente a terra spegnendosi.
Ma Clove lo sapeva prima dell’Arena come lo sapeva in quell’istante: per tutta la vita non era stata tesa ad altro scopo se non quello di entrare in quei giochi mortali, non aveva vissuto per altro futuro se non quello di portare gloria al suo Distretto, non aveva gioito per altro se non per l’idea di poter mozzare la testa ad avversari immaginari. Che futuro poteva esserci per chi l’aveva già vissuto?
Aveva bisogno di combattere, ne aveva bisogno un anno prima e ne aveva bisogno ora, mentre tentava di costruire a mattoncini gialli il suo futuro e l’unica cosa che riusciva a fare era distruggere.
Aveva bisogno di combattere e di null’altro, di niente che non fosse la guerra avrebbe potuto vivere.
Forse, chi lo sapeva, avrebbe passato la vita tentando di ricostruire sulle macerie di un glorioso passato, dicendosi che no, non era il caso di guardarsi alle spalle e poi finire irrimediabilmente per farlo, per ricadere nella trappola della memoria.
Ecco, quella sarebbe stata la sua vita: mattoncini gialli che si innalzavano al cielo, che tentavano a passo di lumaca di edificare qualcosa che avesse un qualche scopo, un qualunque proprio perché di esistere.
Mattoncini gialli che tremavano sotto il vento malevolo delle memorie, che traballavano nella sua incertezza e nel suo senso di vuoto impellente.
Mattoncini gialli che cadevano in un attimo, lavoro di un mese che in meno di un secondo venivano spazzati via.
Ecco, ora riusciva a vedersi.
Una casa di mattoncini gialli che odiava (probabilmente l’unica cosa davvero sua), il senso di vuoto che la divorava un po’ alla volta e mille ricordi che aleggiavano nell’aria.
Aveva bisogno di combattere.

 

  
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