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Autore: Nindia Cobs    23/08/2014    4 recensioni
STORIA ARRIVATA AL TERZO POSTO AL CONTEST §°Un fiore per ogni personaggio°§ di Scarlett
"Le campanule producono un suono se scosse dal vento, un tintinnio mortale che nessuno vuole ascoltare.
Urla. Lamenti. Lacrime. Il peso di una vita che si spegne.
Se soffochi una fiamma ti resta la cicatrice.
Quando arrivò il momento decisivo, mi sentii come una macchina, un robot che annuiva, camminava e non ragionava. Fate quello che dovete. Fatelo presto, o crollerò. Giuro che crollerò. Distruggete quel fottuto bambino come solo dei medici possono fare."
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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                                        Il suono di una campanula



Io ero come una campanula: una sopravvissuta. Infatti, questo tipo di fiore a volte cresce in luoghi dove nessuna pianta riuscirebbe a vivere. Forse anche le campanule necessitano di un posto speciale, di un luogo dove essere se stesse. Da una parte rappresenta la speranza, da un’altra è un fiore maledetto, perché alcuni sostengono che chiunque senta  il suono di una campanula è prossimo alla morte. I petali di questi fiori ondeggiano e danzano con il vento, si lasciano trasportare. È un fiore fragile ma anche ambizioso, che preferisce stare da solo o con i propri simili.
Non mi piacevano i luoghi grandi. Più un posto è spazioso e più contiene gente, ed io non andavo d’accordo con le persone. A volte mi soffermavo su qualcosa di insignificante, che nessuno notava, e lo osservavo finché non oltrepassavo la barriera che celava il suo vero valore e lo rendevo mio. Ogni oggetto, ogni persona, ogni ricordo, per qualcuno è importante. Tranne me, ovviamente.  E poi il mondo è formato da tante piccole cose. Anche noi, dall’alto, siamo solo delle minuscole figure che si muovono, vivono, respirano. E la stanza in cui svolsero l’operazione che segnò la mia vita era molto grande, un luogo che avrebbe fatto sentire piccolo un gigante. Mi sentivo insignificante, quando lo dissi a mia madre lei non rispose, mi chiedo ancora perché.
Al contrario, adoravo le stanze anguste e buie, perché è vero, le ombre incutono terrore, fanno paura, credi che un mostro ti porti via nell’oscurità, ma le ombre possono anche essere tue amiche. Quando comprendi che i veri mostri si annidano dietro un viso d’angelo, dietro il ragazzo della porta accanto, dietro un’amica, lo recepisci e non temi più il buio. Solo chi ami riesce a ferirti completamente. Non ti spezza il cuore, te lo polverizza, in modo che nessuno riesca a unire i suoi frammenti. Essere distrutti a metà, attendere un’àncora e trovare qualcuno che ti lasci sprofondare negli abissi: questa era la mia vita.
Tra l’altro, il buio nasconde i difetti e tutto quello che non vuoi vedere. Una cosa che odiavo del buio, l’unica forse, era che non mi permetteva di notare i dettagli. Manifestavo un estremo interesse e un'ossessione-compulsiva per i dettagli. Un granulo di sabbia, il pulviscolo, una coccinella sulla finestra, una goccia di pioggia… La psicologa sosteneva che la mia febbrile fisima fosse causata dall’insicurezza, quindi: non mi notava nessuno e non volevo che nessuno si sentisse come me, nemmeno un oggetto futile. Ero una veterana di innumerevoli storie tristi, lo ammetto.                                  
Andavo in una scuola privata grazie a una borsa di studio e avevo due migliori amici: Andy e Monica. Il resto dell’istituto mi credeva una psicopatica dal passato ambiguo, ma non rivelavo a nessuno le mie origini, non ne andavo fiera. Ero una ragazza con una vita normale. Finché l’avrebbero creduto, sarebbero stati al sicuro.
Oltre a una sopravvissuta, ero incinta. Adesso vi chiederete a quale avversità ero scampata, vero? Alla disperazione. All’inizio, l’idea dell’aborto mi sembrava l’unica soluzione, perché non potevo rovinarmi la vita fin da giovane. Con il tempo mi ero abituata, però portavo una vita dentro di me e volevo trattenerla ancora un po’. Solo un altro po’. Che sciocca, credevo che sarebbe stato come cambiare taglio di capelli, ma non è mai così. Mai.                                                                                         
 
Purtroppo la legge vietava di abortire dopo tre mesi, la pillola del giorno dopo non avevo avuto il coraggio di prenderla, e così avevo prorogato solo di qualche giorno. Ogni notte sognavo il mio bambino che mi guardava in lacrime e mi chiedeva “Perché non mi vuoi?”. E ogni volta io rispondevo “Non sono abbastanza forte.”. Avrei potuto sopportare l’odio, il disprezzo, il peso delle parole della gente, ma non quegli occhi colmi di lacrime e delusione. Si aspettava che lo tenessi, ma mia madre aveva già preparato le pratiche e non aveva nemmeno chiesto la mia opinione. Per lei era assodato che avrei risposto come una brava bambina ubbidiente. Certo, mamma. Liberiamocene. Come dici tu, mamma.                                                                      
Alla fine, però, non riesci a liberarti totalmente di un bambino. Hai spento un’anima e il suo ricordo ti torturerà per sempre. Se soffochi una fiamma con la mano, ti resta la cicatrice. L’ho cucita più volte quella cicatrice, ma si riapre perennemente.
Quando arrivò il momento decisivo, mi sentii come una macchina, un robot che annuiva, camminava e non ragionava. Fate quello che dovete. Fatelo presto, o crollerò. Giuro che crollerò. Distruggete quel fottuto bambino come solo dei medici possono fare.
Quei strumenti freddi che mi congelavano l’anima… Io non riesco a descriverlo adesso che ci penso, ma sapevo che stavo sbagliando. Non era la mia parte cristiana a parlare, ma quella umana. Ogni donna nasce per diventare mamma, a volte capita troppo presto, a volte troppo tardi, ma il rapporto che instauri con tuo figlio è vincolato dalla tua natura. Non volevo un bambino. Non così.
Dicevano che, finché l’avessi visto come un bambino e non un embrione o un oggetto da buttare via, non l’avrei superato. Forse sarei stata una brava madre, chissà. “Quando questo brutto ricordo finirà, ti scrollerai di dosso tutti questi spiacevoli problemi. Sarà una liberazione, vedrai.”, mi ripeteva in continuazione mamma, con un sorriso forzato di chi non vuole ammettere che è nella merda. “Una liberazione.”, le facevo eco io ogni volta, assente. Ormai vivevo nel mio mondo, con mio figlio. “Come hai potuto essere così incosciente? Non hai usato le precauzioni!”, mi ricordò il giorno decisivo. Nessuno sapeva la verità. Nessuno doveva sapere. Mentre io respingevo ogni sentimento e mi abbandonavo al cinismo, la mia famiglia pensava solo ad attenuare i pettegolezzi della gente, spiaccicando e opprimendo quelle voci come una scarpa con un insetto.
Ho fatto come dicevi tu, mamma. Ho fatto la brava bambina, brutta stronza.
Si chiamava Jason, sapete? Andavamo a scuola insieme, avevamo diciotto anni all’epoca e lui sembrava così gentile, così amorevole… Mi aveva decisamente fottuto. Come potevo respingerlo? Per una volta qualcuno manifestava dei sentimenti positivi nei miei confronti, perché io ero la ragazza sfigata e odiata da tutti, come nei film americani. Poi la protagonista incontra una persona speciale e la sua vita cambia. Peccato: non eravamo in un film, noi. Non esiste il "e vissero felici e contenti", ma solo il "e vissero nonostante tutto". 
Ci amavamo, certo, ma ci sono cose che nemmeno l’amore riesce a superare. Jason fungeva da scudo, mi proteggeva dalle avversità: se avessi perso quello scudo, il male mi avrebbe travolto. Equilibrava la mia vita, non combinavo più casini né facevo delle follie, ma le pareti di un palazzo prima o poi crollano, e io l’avrei capito molto presto.
Una volta, Jason, mi aveva accompagnato a casa, e quando se n’era andato, un uomo, il mio vicino di casa, mi aveva stuprato. Non giudicatemi, non potevo tenere quel bambino, quell'embrione o qualunque cosa fosse, perché non era stato generato dall’amore ma da un atto raccapricciante. Me l’avrebbe ricordato ogni giorno della mia vita. Le mani di mio figlio mi avrebbero ricordato le sue mentre mi toccava, si prendeva gioco di me e mi trattava come se fossi una bambola. Erano le due del mattino, quindi nessuno se n’era accorto. Mentre le ragazze della mia età dormivano nel loro letto, io perdevo la mia dignità al buio, da sola. Forse la luce appannata filtrava dal lampione, ma io vedevo solo buio. Non quel buio che mi rassicurava la notte, che mi avvolgeva fra le sue braccia e mi cullava dolcemente, accompagnandomi in un sonno profondo, ma un nemico dallo sguardo feroce che mi graffiava con i suoi artigli. Adesso anche io avevo gli artigli, per proteggermi dalle persone.
Non mi ero arresa, però, e come una campanula avevo lottato con tutte le mie forze. Avevo amato il buio e lui mi aveva tradito, mentre le ombre m’inghiottivano.
Quando l’avevo detto al mio fidanzato, lui, credendo che volessi incastrarlo, mi aveva lasciato e si era ubriacato, provocando un incidente e finendo in galera. Come le campanule, avevo portato sfortuna a tutti e stavo per causare la morte di mio figlio. Avevo perso l’amore e stavo per perdere il mio bambino e la mia dignità di madre, ma non potevo rifiutarmi: dovevo fare la brava bambina ubbidiente.
Una campanula che perde i petali. Un fiore senza corolla. Inutile. Mi sentivo Inutile.
Un sibilo metallico ed estrassero quegli strumenti freddi dal mio corpo ormai vuoto. Quando mi alzai, mia madre mi tartassò di domande su come stavo o altre questioni che non volli nemmeno ascoltare. Nemmeno mi accorsi di star camminando a piedi nudi sul pavimento della clinica; mi toccai la pancia, anche se mio figlio aveva pochi giorni, prima sentivo un calore familiare alla bocca dello stomaco che mi sussurrava “Qui c’è una vita”, mentre adesso sentivo soltanto “Ecco, bastarda, hai giocato a dottore in corsia e hai mandato tutto a puttane.”. Corsi via e trovai il bagno, incurante degli sguardi preoccupati degli infermieri. Mi sciacquai il viso senza guardarmi allo specchio, non avevo il coraggio d’incontrare gli occhi del mio riflesso. Gli occhi di un’assassina. Le lacrime mi rigarono il viso, pesanti come il sangue mi bruciavano la pelle, poi chiusi gli occhi e quando li riaprii abbozzai un sorriso forzato. Mi specchiai e continuai a sorridere. Ero sempre la stessa, dovevo soltanto cercare un altro modo per sopravvivere. Io facevo sempre così. Trovavo un altro modo e andavo avanti, come una perfetta bambina ubbidiente.
 
Il sole splende sulle lapidi, come se anche il tempo si prendesse gioco di me. Leggo il nome sulla tomba grigia che odora di… morto, come una fiamma soffocata dal vento. Martin Bowen. È morto due giorni prima in ospedale, il giorno in cui era nato e doveva venire al mondo mio figlio. Mi sento in colpa: quella madre desiderava un bambino e l’ha perso, mentre io me ne sono liberata. 
Mio marito, Kyle, mi abbraccia da dietro, il suo respiro sul collo. Chiudo gli occhi e mi domando cosa mi abbia spinto qui. Dovrei andarmene, ma le gambe sono inchiodate al suolo e non si muovono. 
«Non era il momento giusto, Ave», mi rassicura.
«Sento tanto freddo, eppure è estate», mormoro con gli occhi lucidi. Pochi secondi e le lacrime mi rigano il viso. Cazzo, penso tra me e me.
Ti meriti tutto il male del mondo. Molte persone non possono avere dei bambini e tu hai abortito! Credi di essere l’unica vittima di uno stupro al mondo?
Non avrebbero mai capito…
Sei una stupidissima bastarda, Ave.
Non parlarmi così.
Sono la tua coscienza, scusa se non ti offro latte e biscotti! Cosa vuoi dimostrare a te stessa venendo qua? Farai sempre schifo, assassina.
Vattene via.
Okay. 
Kyle mi poggia la mano sulla pancia. «Adesso sarai una mamma fantastica per il nostro Jason», risponde comprensivo. «Sennò non saresti venuta qua».
Sta mentendo. Io non sarò una mamma fantastica. Non so nemmeno perché mi trovo in questo dannato cimitero a piangere per il mio egoismo, per il figlio che ho perso, per quel bambino, per il mio che presto nascerà e un giorno scoprirà che la mamma ha permesso che una vita si spegnesse. Come potrò guardarlo negli occhi? Mi asciugo le lacrime e abbozzo un sorriso. Respiro profondamente per darmi forza, perché io non mi arrendo. Dicono che porto sfortuna, che faccio del male alle persone che amo, ma io non mi arrenderò. Per mio figlio e il figlio che dovevo avere. Non volete sentire il suono della campanula? Peggio per voi. 
«Hai ragione», esito senza distogliere lo sguardo dalla tomba. «Aspettami in macchina, devo fare una cosa».
Attendo che mi lasci sola mentre osservo la sua figura farsi man mano sfocata, fino a sparire tra le coltri di erba. Adesso è arrivato il momento di donare a quel bambino una parte di me, una importante: un dettaglio. Io che amo tanto i dettagli. Inspiro dell’aria che mi sembra congelata e deglutisco, la paura mi sta soffocando lentamente. Mi avvicino alla lapide e m’inginocchio davanti a essa; passano svariati minuti di un silenzio agghiacciante. Ci siamo solo io, mio figlio e gli alberi. Accarezzo la scritta incisa sulla tomba grigia come se stessi accarezzando quell’anima innocente. Come un diavolo che accarezza un angelo.
«Mi dispiace. Suona strano da una che ha abortito. Dopo un’esperienza del genere dovrebbe spaventarmi l’idea di diventare madre, ma ho bisogno di stringere fra le mie braccia una vita che ho generato io, con amore. Tutto questo mi sembra davvero strano, sto parlando con una tomba, ma se incontri il mio bambino, lassù o chissà dove, digli che lo voglio bene e chiedigli se può perdonarmi. Abbraccialo un po’, solo un attimo, ti prego. Io…», sussurro a denti stretti, trattenendo le lacrime. «Non dovrei piangere, che stupida… Digli che l’ho sempre voluto e non l’ho tenuto non perché non ero abbastanza forte, ma solo perché io non ero abbastanza. Ci sono tante parole dolci o profonde che potrei rivolgergli, ma in certe circostanze le parole non servono. Lui era come un giocattolo smarrito: ti ha accompagnato per tutta l’infanzia, poi l’hai perso. Sei andata avanti, ma il vuoto della sua mancanza non tarda ad arrivare. Quando perdi un bambino, nessuna parola, nessun gesto può essere di conforto. Rimani tu e il tuo dolore in uno scontro mortale. Ma io ho vinto questa battaglia.»
Mi allontano e mi volto un’ultima volta, lasciandomi alle spalle una delle parti più importanti della mia vita, che mi seguirà come un’ombra. Per sempre. Ma il mio istinto mi fa ritornare indietro, trascinata da una forza immaginaria, dalla mano di un bambino, forse. Poggio due oggetti essenziali accanto a quella struggente lapide.

Un’ecografia. Una campanula.
 
   
 
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