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Autore: Ariadne Oliver    28/08/2014    1 recensioni
"C'è un po' di tristezza in una vita che ti permette di passeggiare nell'ora in cui l'aria è pregna di odore di caffè e dell'eco dei telegiornali, e hai di fronte a te un fiume stagnante e la prospettiva di ore tutte uguali che non sai come riempire."
Divagazioni su Roma vagamente ispirate a La grande bellezza di Paolo Sorrentino
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Giro a vuoto


Il mattino è un commesso solerte e Roma una cliente annoiata.
Contrattano perché non hanno nient'altro di meglio da fare se non contendersi qualche straccetto. 
Io le sento, le mani sulla giacca che tirano ora di qua ora di là, sento lasciare la presa e poi riprenderla con maggior forza.
Dipende da quanto il sole riesce a far penetrare le dita attraverso gli ombrelli dei pini.
È quel periodo della primavera che comincia già a sapere d'estate, quando il diaframma che divide i vetri dalle tende rimarca i suoi contrasti permettendo di leggere meglio i dettagli di vite che non ci riguardano e che non ci interessano. Ma la curiosità è un'attitudine, la noia una nemica e il sole di mezzogiorno un complice.
C'è un po' di tristezza in una vita che ti permette di passeggiare nell'ora in cui l'aria è pregna di odore di caffè e dell'eco dei telegiornali, e hai di fronte a te un fiume stagnante e la prospettiva di ore tutte uguali che non sai come riempire.
L'attesa del niente che ti fa sentire fuori posto, che ti fa sembrare il granello di sabbia che ostacola l'ingranaggio.
Invidio i turisti che sembrano avere in tasca tutte le risposte, ripiegate in forma di mappa con i percorsi evidenziati.
Invidio chi riesce a programmare le cose e a portarle a termine senza lasciarsi distrarre.
Perfino mangiare, certi giorni, mi da noia, perché mi sembra di aver provato tutto e di non avere nient'altro da scoprire.
Eppure il cibo è il più intimo dei piaceri, quello che mescola ricordi e aspettative, mangiare è il senso del presente e del futuro.
Il perpetrarsi del passato.
Il retrogusto di carta che il tramezzino prendeva quando veniva racchiuso nella stagnola, che il fiume porta a galla dagli abissi della memoria assieme a una manciata di immagini di una gita fatta da ragazzo.
La gazzosa col vino, il cremino che sapeva di salmastro, la pizza unta che non è mai stata così buona come mangiata sotto un ombrellone.
Il fiume langue e io mi sciolgo in lui, sopraffatto da una stanchezza che non so spiegare.
Forse è il caldo, o il torpore dell'ora che sembra appesantire anche le ali dei cormorani.
Roma è una città che non regala confidenze nemmeno al sole che le accarezza la pelle di pietra con le sue mani sudate, figuriamoci a me che la attraverso da quarant'anni come un estraneo che non ricerca particolari confidenze.
Ci osserviamo, ciascuno sulla propria sponda, ci salutiamo cordialmente, ma niente di più.
La città vive tempi più lunghi di quelli che riusciamo a immaginare per noi stessi, conosce l'imprevedibilità dei cambiamenti e vi si adegua con un lieve sospiro.
-Passerà anche questa.- si dice.
Io non sono sicuro di poter dire lo stesso.
Il male di cui soffro è la vita che finisce e l'angoscia di sapere di non aver concluso niente.
Avevo un talento, ma l'ho annegato nel bicchiere del primo drink che mi sono concesso, al culmine della prima festa in cui ho capito che l'essere considerato importante era, per me, più importante che il diventarlo.
E così ho finito per fare la fine di Roma e non concedermi mai nulla che non fossero sfizi superficiali, mettendo una distanza di sicurezza tra me e i pericoli che il vivere la vita comporta.
Non ho corso tutti i rischi che avrei dovuto, né preso posizione, ho solo oziato, languidamente adagiato su uno strato di maschere dipinte. 
Non mi è mai interessato frantumarle, perché in esse c'è una bellezza unica fatta di smalti brillanti, di forme rassicuranti perché fissate nella terracotta.
Un monte di cocci che si sfalda sotto la suola delle scarpe.
La vita che brulica posso lasciarla all'immaginazione, perché la definisca con contorni meno spigolosi.
Io non sono un archeologo che spacca la terra a caccia di verità.
Io coltivo, anche se non sono certo che questa terra fatta di niente dia, un giorno, i suoi frutti.
È questa l'inquietudine, è questo il giro a vuoto.



   
 
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