Le
dieci regole del dottore
Senatus haec
intellegit, consul videt;
hic tamen vivit. Vivit?
Cicerone
Lo
perseguitava. Disteso sulla panca Luca si passava i palmi delle mani sugli
occhi, a cancellare tutto lo schifo che riaffiorava nella sua mente, sprazzi di
luce e di buio. A fatica si girò su un fianco, la vista ancora sfuocata. Ripercorse
piano con gli occhi i contorni poco familiari di quella cucina; sul piano c’era
un barattolo di yogurt magro e un bicchiere da vino scheggiato. Si passò la
lingua sulle labbra, la gola che lo implorava di liberarla da quel bruciore. Socchiuse
gli occhi e allungò un braccio crollando con un tonfo sul pavimento. Imprecò
mentalmente; aveva ancora le percezioni spaziali distorte. Il lavandino e la
tanto agognata acqua potevano trovarsi a pochi centimetri (come gli mostrava la
sua mente) o a metri, che in quelle condizioni valevano kilometri. Rimase con
la faccia a terra, le labbra a baciare la polvere, conscio che prima o poi la
confusione dei sensi sarebbe terminata. Non voleva ripensare a come fosse
capitato lì, in quella stanza dalle pareti rosa pesca. Non voleva pensare a
nulla. Era solo l’ennesima persona (ragazzo, uomo, come definirsi?) che si
concedeva una notte brava. Sospirò e in un riflesso ormai automatico si portò
una mano alla tempia. Sentendo i ricordi che volevano rompere le dighe che
faticosamente aveva costruito con l’alcool, cominciò a darsi piccoli colpi con
il palmo della mano. Piano. Forte. Mezzoforte. Mezzopiano. Come a comporre una
melodia. Si sentiva gli occhi lucidi. Salì di una scala. E poi fortissimo. Come
le trombe che urlano e la grancassa che dalla forza dei colpi si spezza. Un desiderio
così grande di farsi del male per non permettere al cervello di pensare a
qualcosa di diverso dal dolore fisico.
Un
rumore in quella confusione. Un gatto dal pelo fulvo che gli sorrideva furbo; i
grandi occhi verdi che sembravano intimarlo di rendersi presentabile. Luca si sollevò a fatica sui gomiti e con
lentezza si tirò su, le gambe tremanti. Per la prima volta osservò con
attenzione la stanza: ordinata, dai colori chiari, delle foto allegre appese
sul frigo. No. No. No, così non andava bene. D’improvviso sveglio e attivo, si
diresse verso il corridoio, un bicchiere di vino accanto al telefono,
un’impronta quasi invisibile di burro cacao. Altre due stanze a porte
socchiuse. Con il respiro mozzo aprì la prima, un piccolo bagno. Acqua. Si
fiondò con la testa sotto il lavandino; così fresco e dolce era l’oro blu. Alzò
lo sguardo, un accappatoio rosa pesca era appeso lì vicino, un gel doccia alla
vaniglia infilato nella tasca. La mente gli urlava. No. No. No!
Con
fare tremante, pregando gli dei, aprì l’ultima porta. Venne accolto dalla luce,
le pareti bianche, i libri diligentemente ordinati, tutto così perfetto e
preciso. E poi il letto. Una piazza e mezza. Coperte azzurro chiaro, che
ricordavano il colore del cielo nella stagione delle fragole. Coperte che si
muovevano al respiro di qualcuno. Dei capelli di un rosso pastello sparsi sul
cuscino. Un nasino alla francese che spuntava da sotto le coperte. Luca chiuse
gli occhi. Non gli serviva ricordare le ultime ore per sapere che era una di
quelle ragazze dolci che amavano le coccole e le carezze, una di quelle che
credevano nel principe azzurro col cavallo bianco, nel destino e in tutte
quelle sciocchezze.
Ogni
notte … ogni notte la stessa storia. Stasera non bevo, no, non lo faccio. Non è
la soluzione. Ubriacarsi? Da deboli. Era questo che diceva al barista con in
mano l’ennesimo bicchiere vuoto. E poi si diceva che era l’ultima volta. Poi
nelle nebbie della mente e nelle luci più colorate si diceva che almeno doveva
puntare su una di quelle ragazze coperte di trucco e dalle gonne troppo corte;
quelle ragazze forti che l’avrebbero vissuta come un’avventura. Invece? Invece
a volte la situazione gli sfuggiva di mano e metteva gli occhi su quelle
ragazze dalle stanze dipinte di rosa, dai sapori dolci di fragole e vaniglia,
dalla leggerezza dell’inesperienza. Perché erano quelle che gli piacevano, che
di giorno seguiva con gli occhi, perché erano quelle che gli facevano girare la
testa e sorridere senza rendersene conto. Loro lo fulminavano. Con le labbra
rosso vivo e la pelle color delle conchiglie.
Non
serviva che la ragazza del letto azzurro aprisse gli occhi per sapere che
l’avrebbero colpito come fanali, come gli occhi di Bambi. Che l’avrebbero fatto
sciogliere e poi rabbrividire, perché quelle non erano ragazze da una notte e
via. Perché le aveva colte in momenti di debolezza, perché sapeva che
desideravano che lui rimanesse. E a quest’ultima richiesta non poteva
assentire.
Occhi
verde fragola e smeraldo, occhi assonnati e dolci lo fulminarono sul posto. La
ragazza era sveglia. Si stiracchiò piano e con calma lo squadrò. Luca la vedeva
ondeggiare lo sguardo sul suo petto e lentamente alzare la testa verso i suoi
occhi. Occhi chiari come l’acqua di primavera. Gli sorrise. Si alzò e Luca vide
la sua biancheria, bianca, come nuvole. Si voltò imbarazzato, di scatto, come
se non avesse mai visto una donna. Mordendosi la lingua non poté fare a meno di
portare di nuovo gli occhi su di lei. Lei che lo fissava confusa. Luca si
strinse nelle spalle cominciando a cercare la sua T-shirt grigia, non senza
sospirare. Come gliel’avrebbe detto? Che faccia avrebbe fatto? Non era colpa
sua. L’avrebbe capito? Lei era perfetta, era lui lo stronzo. Che beffa il suo
nome … Luca. Lux, lucis. Quando mai lui era stato luce?
I
suoi occhi cerbiatto cercavano di penetrare i pensieri di Luca che con le
scarpe in mano la fissava. Ancora in boxer turchese, la maglietta che gli
tirava sul petto. Lo sguardo di lui tinto di colpa. E per una volta si sentì in
dovere di dire la verità. «Ex.» Due lettere. Una vocale. Una x e una y che
giocavano. E negli occhi di lei si fece strada il sollievo, si portò una mano
al petto a dire che anche lei, anche lei aveva la stessa motivazione. Chiara
sorrise, Chiara pianse. Luca colmò lo spazio che li divideva, la abbracciò
fraterno prendendole poi il volto fra le mani, scosse la testa di lato. No. Mai
più. Mai più, capito? Tutto quello in un gesto. Le sorrise piano, lasciò la
stanza voltandosi solo una volta, alzò la mano in segno di saluto e scarpe in
mano lasciò l’appartamento.
Luce.
Buio. Luce. Cos’era appena accaduto? Era male? Era bene? Con la testa vuota per
la prima volta da settimane scese le scale a balzi, con sulle labbra una
melodia. Aprì il portone del palazzo, raccolse un giornale da terra, non
pensava più al suo passato, si sedette su una panchina e si mise a leggere con
la calma nel cuore. Lei non c’era più.