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Autore: _Ella_    15/09/2014    0 recensioni
Zexion continuò a fissarlo malissimo col suo ciclopico occhio da sopra il profilo del libro. Demyx era fermamente convinto che ne nascondesse uno per dimezzare i poteri distruttivi ed evitare di uccidere le persone solo con lo sguardo.
[Tanti auguri a Syr ♥]
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Demyx, Zexyon
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto, Contesto generale/vago
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Half.

 
 
“Tutti conoscono certo una strana sensazione, che talvolta s’impadronisce di noi: la sensazione che ciò che stiamo dicendo o facendo lo abbiamo già detto o fatto in un tempo remoto; la sensazione di esser stati circondati, in tenebrose lontanissime epoche, dagli stessi volti, dagli stessi oggetti, di esserci già trovati nelle identiche circostanze, di sapere esattamente ciò che tra poco verrà detto, come se improvvisamente ce ne ricordassimo!”
[David Copperfield, Charles Dickens]
 
 

Ultimamente c’erano giorni in cui si sentiva sempre come se qualcosa o qualcuno lo stesse tirando indietro, strattonandolo per la maglia con una tale energia che pure impuntando i piedi nel terreno con tutta la forza che aveva non era in grado di arrestare il movimento.
Ogni volta le cadute al passato erano completamente estranee alla sua volontà: gli capitava di inciampare nei momenti più improbabili, mettendogli addosso una malinconia di cui non comprendeva neanche l’origine, quasi non gli appartenesse o gli fosse appartenuta in un’altra vita di cui ormai non aveva più memoria. Mentre lavorava, mentre tornava a casa, mentre faceva la spesa, non faceva altro che scrutare tutti i volti che gli passavano davanti senza che gli dicessero nulla più di quello che già sapeva, facendogli sentire una febbricitante agitazione: cosa non ricordava?, cosa aveva dimenticato di così importante?, cosa gli mancava di così necessario da procurargli quel vuoto doloroso? Si sentiva come se per anni avesse mangiato e mangiato fino a scoppiare ma non avesse mai assunto gli elementi indispensabili al suo sostentamento e al suo sviluppo.
Gli era già capitato di sentirsi così, addietro negli anni. Eppure negli ultimi mesi, nelle ultime settimane, la sensazione era perdurata al punto da diventare consapevolezza: gli mancava qualcosa di importante, e sapere di aver dimenticato cosa fosse lo disperava più di ogni altra cosa.

 

Non erano stati granché i primi giorni all’Organizzazione: era un continuo susseguirsi di sguardi di sufficienza e parole di cortesia che in verità cortesia non ne avevano neanche un po’.
Demyx non era affatto abituato a sentirsi estraneo, e se avesse avuto più emozioni di quelle finte che gli era concesso di sentire si sarebbe messo a piangere, perché gli mancavano tanto gli amici con cui aveva trascorso la vita, gli mancava tanto la sua amata mamma che gli dava il bacio del buongiorno e della buonanotte e quello del mezzogiorno e del pomeriggio e quelli extra che si meritava solo per essere il suo caro bambino. Trovava sorprendente che non esistesse un briciolo di empatia e compassione in un luogo in cui tutti, in un modo o nell’altro, condividevano volenti o nolenti lo stesso destino, che in quelle quattro mura che occupavano assieme non ci fossero mai parole di conforto.
Odiava essere trattato da Nessuno, più che esserlo in sé. Giorno per giorno guardava gli altri e li osservava mentre si disperavano nella ricerca di un cuore che forse neppure avrebbero mai avuto indietro, e lui non faceva altro che domandarsi perché: dopo i primi giorni di smarrimento non gli era sembrato difficile accontentarsi dei ricordi delle sue emozioni passate, pretendere di poter soffrire come una volta ed illudersi che le risate sarebbero state ugualmente appaganti. Era sempre stato uno di quei ragazzi che si adattavano al corso degli eventi senza sforzi – più per pigrizia che per quieto vivere, del resto; era sempre stato un tipo tranquillo senza mai un briciolo di intraprendenza. Le cose accadevano, lui le osservava scivolare come l’acqua di un fiume nel suo letto, al riparo dal sole sotto il fogliame degli alberi e seduto sulla riva dove l’erba era più tenera.
Tutto ciò che sapeva era che, se ogni singolo membro dell’Organizzazione avesse agito come aveva fatto lui per tutta la vita, probabilmente sarebbe stato più semplice tirare avanti senza provare quel pesante groppo all’altezza della gola che gli rendeva anche difficile tenere la voce ferma ed intonata mentre cantava nella più completa desolazione nella sua camera spoglia.
Dopo un mese dal suo arrivo, Demyx aveva fatto tesoro dei consigli di Axel: non dare fastidio ai sei Nessuno Fondatori, non infastidire Saïx perché quel compito spettava a lui, e non infastidire lui perché altrimenti lo avrebbe distratto dall’infastidire Saïx – o, alternativamente, lo avrebbe disturbato dal suo meritato riposo dopo un compito così impegnativo e stancante che era quello di infastidire Saïx.
Di conseguenza, così impegnato a non stare tra i piedi degli altri, aveva deciso che non avrebbe eseguito neppure uno degli ordini che gli venivano imposti, ovvero l’unico momento in cui qualcuno si ricordava di rivolgergli la parola. Non faceva così per cattiveria né per dispetto: aveva sempre odiato essere trattato in questo modo anche da bambino, quando suo padre pretendeva di dargli degli ordini quelle rare volte in cui si rendeva conto che esisteva davvero, e che avere un figlio non era stato solo un brutto sogno. Sua mamma non gli aveva mai chiesto nulla, e nonostante lui fosse pigro ed un perfetto incompetente, tutte le volte aveva fatto qualcosa per aiutarla, per farla contenta, per ricordarle che tutto quello che faceva per lei era un piacere, perché le voleva bene.
Non faceva altro che andare in giro per il Castello tutto il giorno e, quando proprio non ne poteva più di tutto quel bianco, spariva in qualche Mondo senza dire niente ai suoi anteposti, ritornando quando gli andava: se lo trattavano come se non esistesse davvero, allora lui si sarebbe comportato allo stesso modo.

 

«Cosa ti porto?» teneva in mano il taccuino e la penna, aspettando pazientemente che il ragazzo gli dicesse il suo ordine.
Era una giornata estremamente tranquilla, sia fuori nelle strade che lì a lavoro: erano arrivate sì e no una decina di persone durante le due ore e mezza in cui avevano aperto, e sui marciapiedi su cui affacciavano le grandi vetrate dell’ingresso aveva visto passeggiare pochi ragazzi, che camminavano con la lenta placidità di chi non deve andare assolutamente da nessuna parte ed è in strada solo per godersi un po’ di sole ed aria fresca.
Probabilmente anche quel cliente non aveva nessuna fretta, visto che non gli aveva risposto e lo aveva lasciato lì impalato come uno spaventapasseri, eppure, mentre quello continuava a scrutare il menù come se dovesse decifrarlo senza neanche fargli un cenno per dirgli che lo aveva sentito, provò uno strano senso di familiarità più che di fastidio ad essere ignorato in quel modo – o meglio, ad essere ignorato in quel modo da quello sconosciuto.
Quando ripeté la domanda, il ragazzo gli lanciò un’occhiata seccata e «Tea freddo» disse, come se fosse estremamente innervosito dal fatto che lui non era riuscito a leggergli nel pensiero. «E la crostata alla frutta» («Oh, la mia preferita!»).
Si fissarono ancora per un momento, poi annuì non aggiungendo altro, avviandosi in cucina senza segnare l’ordine sul blocco: aveva l’impressione che non sarebbe riuscito a dimenticare quell’ordine neppure se avesse chiesto altre cento cose oltre quelle due che aveva scelto.

 

Tra tutti i posti in cui amava suonare, la biblioteca del Castello era in assoluto il suo preferito. Non perché gli piacesse starci o non ci fossero luoghi più belli, di fatto quell’enorme stanza era sempre terribilmente angusta e non poteva starci più di mezz’ora che gli veniva da starnutire per la polvere e da vomitare per il penetrante puzzo di chiuso e muffa, ma l’acustica era perfetta e non arrivava neppure il più piccolo rumore dall’esterno, una volta chiusa la pesante porta.
Così aveva deciso che quel pomeriggio, mentre il resto dei suoi compagni erano a riposare oppure in missione, sarebbe andato nella biblioteca con tutti i suoi spartiti preferiti per poter suonare una volta tanto senza che gli altri si lamentassero del suo “rumore”; così si era seduto comodo sulla poltrona più grande, ed aveva fatto comparire il suo Sitar per cominciare, promettendo a sé stesso che avrebbe asciugato per bene dal pavimento tutta l’acqua che ci sarebbe sgocciolata per colpa delle melodie.
Aveva fatto in tempo ad eseguire le prime sei note, quando gli arrivò un libro dritto in testa. «Ehi!».
«Sai» Demyx si girò per guardarsi alle spalle, massaggiandosi con un lamento la zona dolente. «La biblioteca è fatta per stare in silenzio».
Arricciò le labbra, fronteggiando con un certo fastidio lo sguardo seccato di Zexion, che brandiva ancora quella terribile arma che era un libro con la copertina rigida che contava sicuramente più di tremila pagine. «Non è un buon motivo per picchiare qualcuno».
«Tutti i motivi sono buoni per picchiare qualcuno che mi infastidisce mentre leggo» disse, senza smettere per un attimo di fissarlo severamente.
Sospirò, facendo sparire il Sitar e girandosi col busto per non doversi far venire il torcicollo per poterlo guardare. «Non credi di essere troppo severo?» chiese, ma il Nessuno gli rivolse solo un’altra occhiata di sufficienza, ritornando seduto al tavolo senza rispondergli – evidentemente non credeva ci volesse una risposta.
Demyx sbuffò una risata divertita, restando lì fermo in silenzio senza togliergli gli occhi di dosso, osservando i movimenti nervosi della mano che tiravano via il ciuffo che lo infastidiva nella lettura, e l’espressione contratta e concentrata che faceva soffermare il suo sguardo più di un momento su ogni singola parola presente nella pagina (e visto che era così concentrato, Demyx sentì un tremendo bisogno di interromperlo). «Sei il più giovane tra i Nessuno Fondatori, vero?» silenzio. «Anzi, credo che tu sia il più piccolino tra tutti, non è così?» altro silenzio.
Quando provò a ripetere la domanda, il Nessuno lo fulminò: «Se dai così fastidio mi viene difficile ignorarti, Numero Nove».
Si zittì, ferito. Prima di chiudersi la porta della biblioteca alle spalle per lasciarlo da solo, fece ben attenzione a far piovere dal tetto.
 
Dopo dieci minuti di cammino di cui, ogni due, si ritrovava sempre di fronte la porta della propria camera, Demyx capì che qualcosa non andava come dovrebbe. Si fermò, si guardò in giro, ed il corridoio per andare nella sala da pranzo gli sembrò meno lungo ed il suo tetto molto più basso dell’ultima volta che li aveva visti. Sospirò, grattandosi la nuca, e rinunciando alla sua impresa – che gli riportava alla mente i primi giorni che aveva messo piede lì al Castello, in cui non riusciva mai a trovare il corridoio giusto – aprì la porta della sua camera, deciso a riposare ancora un po’ visto che era evidentemente mezzo addormentato, ma gelò sul posto appena ebbe solo aperto l’uscio: il letto, i mobili, le tende erano completamente in fiamme e le mura bianche annerite fino in cima dal fuoco, l’aria resa irrespirabile dal fumo nero e denso. Quando provò a spegnere l’incendio con la sua magia l’acqua non fece che evaporare al minimo contatto con le fiamme, e quando si girò per poter uscire dalla stanza prima di restarci secco non riuscì ad aprire la porta, che rimpicciolì fino a scomparire. Urlò, eppure non gli sembrò di sentire la propria voce, e quando si sentì mancare per il troppo caldo, che aveva fatto sparire ogni briciola d’acqua dal suo corpo, cadde sul pavimento, chiudendo gli occhi terrorizzato.
Il rumore del fuoco ardente sparì in un soffio assieme la puzza di bruciato ed il fumo soffocante. Demyx si tirò a sedere tremante, e quando vide che al posto del fuoco la sua stanza era piena zeppa d’acqua, che la porta era al suo posto e che niente era stato rovinato dall’incendio, si domandò cosa fosse successo non appena riuscì a calmarsi.
«Interessante» girò immediatamente il viso, trovando Zexion poggiato con la schiena ad una parete ed il suo Lexicon aperto nella mano. «Non credevo che un Nessuno potesse provare un finto terrore così realistico» lo guardò con un sogghigno, facendo sparire immediatamente il tomo.
«T-tu-».
«Ci ho messo più di una settimana per asciugare solo la metà dei libri, Numero Nove» sibilò, avvicinandosi lentamente; Demyx continuò a guardarlo dal pavimento, incredulo. «La prossima volta che ti viene in mente di farmi un dispetto, ricordati di oggi».
Uscì dalla camera, sbattendo la porta. Ancora spaventato (e lo era sul serio, maledizione) Demyx cercò di rialzarsi dal pavimento allagato da tutta l’acqua che aveva usato per spegnere quel finto incendio. Sedendosi sul letto zuppo, si prese la testa tra le mani, sbuffando una risata tesa ma sinceramente sentita: il Burattinaio Mascherato era abbastanza fuori di testa da non essere così noioso come aveva pensato.
 
Dopo un paio di giorni a rimuginare, aveva finalmente trovato il coraggio di andare nella biblioteca, vedere se Zexion c’era, e chiedergli scusa per fare la pace. Aveva scelto la biblioteca perché non voleva davvero fare scenate avanti agli altri dell’Organizzazione e, soprattutto, immaginava che con i suoi amati libri in giro Zexion non avrebbe scelto la violenza come modalità d’approccio. Quindi bussò, aprì lentamente la porta, e scivolò nella biblioteca cercando di fare il più assoluto silenzio per non disturbarlo nel caso stesse leggendo; però lo trovò in piedi che girava tra i libri messi ad asciugare sui tavoli e sul pavimento, con l’aria afflitta di chi vede i propri bambini soffrire, così assorto da non notare che lo stava osservando dalla porta.
«Vuoi… una mano?» tossì un po’, abbassando lo sguardo quando Zexion alzò il suo («Non ci credo» sospirò esasperato. «Ancora tu»). «Volevo… volevo solo chiederti scusa e… uhm, fare la pace».
«Hai cinque anni, Numero Nove?».
«N-no. Co-comunque Zexion puoi… chiamarmi anche Demyx».
«Tu devi chiamarmi Numero Sei» sbottò, chinandosi a controllare le pagine inumidite di uno dei tanti libri. «Sono impegnato, vattene».
Lo ignorò, avvicinandosi e stando attento a non pestare nulla, camminando sulle punte dei piedi fino a raggiungerlo, inginocchiandosi al suo fianco. Quando toccò il libro, assorbendo tutta l’acqua che fino ad un momento prima ne aveva inzuppato le parole, Zexion lo guardò, senza alcuna espressione apparente, ma almeno non più seccato come un attimo prima. «V-vuoi che… ti aiuti anche con gli altri, Numero Sei?».
«Fai come ti pare» disse, alzandosi. «Ci sono da asciugare ancora tutti quelli che vedi».
Demyx annuì, e dopo avergli sorriso timidamente si mise a toccare uno ad uno tutti i libri, passandoglieli per farglieli posare man mano che li asciugava. Quando ebbe finito accennò semplicemente un saluto, ma il Nessuno lo fermò, parlandogli per la prima volta senza guardarlo. «Zexion va… bene, Numero Nove».
Dopo settimane e settimane nell’Organizzazione, finalmente Demyx si sentì un po’ a casa.

 

«Ecco il tea e la crostata» sorrise al cliente, porgendogli l’ordine. «Se vuoi più ghiaccio o più panna dimmelo pure, eh» altro sorriso. «Non ci sono problemi».
Quello prese un sorso, poi scosse la testa. «No, va bene» e così dicendo tirò fuori dalla borsa che teneva al suo fianco sul divanetto un libro, aprendolo alla pagina segnata ed infilandosi gli occhiali per leggere.
«È… una giornata tranquilla, vero?».
Altro sorso. «Potrebbe esserlo di più» («Dici?»). «Ne sono convinto» sospirò, rimettendosi a leggere.
«Più tranquilla di così sarebbe… noiosa, credo».
«Più tranquilla di così riuscirei a leggere due parole messe in fila, sai».
Gli chiese scusa, osservandolo ancora un po’. «Chiamami se… hai bisogno di qualcosa» si allontanò a malincuore, continuando a mandargli qualche occhiata fuggevole di quando in quando. Era davvero un bel ragazzo, ed aveva qualcosa di tremendamente familiare.

 

«Smetti di fissarmi, Numero Nove».
Demyx puntò gli occhi nei suoi, la guancia premuta sulle braccia che teneva incrociate sopra il tavolo, e rimase in silenzio, guardandolo quasi come se non avesse capito quello che gli aveva appena detto; quella mattina era entrato in biblioteca e senza dire una parola era scivolato a sedere di fronte a Zexion, mettendosi a fissarlo senza la minima delicatezza, come aveva fatto altri giorni prima di quello. «Perché?».
«È fastidioso».
«Più o meno di quando parlo?».
«In effetti forse è meglio se continui a fissarmi e basta».
Fece una piccola smorfia, sporgendo le labbra ed imbronciandosi. «Sei cattivo, Zecchan» - occhiata fulminante - «Uh, cosa?».
Zexion continuò a fissarlo malissimo col suo ciclopico occhio da sopra il profilo del libro. Demyx era fermamente convinto che ne nascondesse uno per dimezzare i poteri distruttivi ed evitare di uccidere le persone solo con lo sguardo. «Ti ho concesso di chiamarmi per nome, non usare questi ridicoli nomignoli».
«Solo se mi chiami Demyx».
«Guarda che la mia non è una richiesta trattabile».
Sospirò, allungando le braccia sul tavolo per arrivare a toccargli i gomiti con le mani. «Non sei simpatico quando fai così» disse (e Zexion si premurò di ricordargli che lui non era simpatico affatto, scostandosi per annullare il contatto). «Però sei tanto carino, Zecchan».
Lo fissò male, ancora. Demyx era quasi sicuro che ormai non potesse assolutamente guardarlo in altro modo, come se solo la sua presenza fosse motivo di tremendo fastidio – ed in effetti doveva proprio essere così. Però non riusciva a fare a meno di tenergli compagnia anche se lui non voleva, parlargli pure quando voleva il silenzio più assoluto, toccarlo e dargli nomignoli proprio perché sapeva che lo avrebbero infastidito a tal punto che sarebbe stato costretto a prestargli attenzione. Che gli importava se gli sguardi e le parole erano tutte cariche di stizza, quando erano solo ed unicamente per lui?
«Devi aver perso anche una parte di cervello diventando un Nessuno, non trovo altra spiegazione».
Demyx rise, fissandolo col mento poggiato al palmo della mano. «Di solito si dice grazie, quando uno ti fa un complimento».
Zexion lo ignorò, ritornando al suo libro e mormorando tra sé e sé che aveva perso il filo ed era costretto a ricominciare da capo. Se non fosse stato sempre così dubbioso sull’affidabilità del proprio intuito, Demyx avrebbe detto che l’aveva messo in imbarazzo.
 
Non era mai riuscito a capire cosa passasse per la testa di Zexion, né tantomeno sapeva come anticipare le sue mosse. Gli sembrava che ogni volta agisse in modo diverso o, se mai c’era una logica che controllava le sue azioni – immaginava che ci fosse, visto com’era perlopiù calmo e moderato – gli sfuggiva completamente. Persino quando era certo che sarebbe andato fuori di testa a parlargli mentre era impegnato, lui stava al gioco o addirittura lo assecondava, prima di chiedergli con quello che sembrava un briciolo di gentilezza di lasciarlo fare, invece altre volte si imbestialiva e lo intrappolava in una delle sue illusioni per almeno dieci minuti.
Demyx però aveva definitivamente rinunciato a scovare il filo dei suoi pensieri quando, mentre era seduto in silenzio ad osservarlo senza neppure pensare di rivolgergli la parola per non disturbarlo, Zexion si era alzato, si era avvicinato e gli aveva lasciato un bacio leggerissimo sulle labbra, andando via mentre mormorava qualcosa circa il fatto che Vexen probabilmente aveva bisogno di lui.
 
Demyx carezzò lentamente le corde del Sitar, smettendo di suonare quando si accorse che Zezion si era addormentato, le lenzuola tirate fin sotto al naso ed i capelli spettinati sparsi sul cuscino bianco. Ogni tanto gli veniva in mente di chiedergli come facesse la musica a dargli fastidio quando leggeva ma non quando doveva prendere sonno, eppure aveva sempre desistito: quello era un altro dei segreti di Zexion che sarebbero rimasti chiusi a chiave dentro un cassettino.
Si stese lentamente al suo fianco, scostando una ciocca di capelli che gli andava a finire sul viso. Aveva così sonno da avere la vista annebbiata ma, e gli veniva da ridere anche soltanto a pensarlo, l’unico momento in cui non aveva quel broncio perenne e la fronte aggrottata era proprio mentre dormiva, ed era più che intenzionato a non perdersi lo spettacolo.  Gli soffiò un po’ sul naso, ridendo in silenzio contro il cuscino come una puerile ragazzina quando Zexion lo arricciò come se fosse un coniglietto, lamentandosi con un mormorio. «Sto cercando di dormire».
«Pensavo stessi già dormendo».
«Mhm, no» sbadigliò, aprendo un po’ gli occhi per guardarlo. «Mi piaceva, quella canzone».
Demyx si avvicinò un po’ di più, poggiando il viso sul suo cuscino e cingendogli i fianchi col braccio. «L’ho scritta per te» gli rivolse un sorriso dolce, sinceramente contento che gli fosse piaciuta e terribilmente emozionato per il fatto che si lasciasse stringere come se non chiedesse altro da chissà quanto tempo.
Gli ultimi momenti di lucidità prima che il sonno arrivasse furono tutti riempiti uno ad uno dai baci che Zexion non voleva smettere di lasciargli sulla bocca schiusa.

 

Il ragazzo al tavolo alzò gli occhi su di lui, ritornando a leggere dopo un attimo di esitazione. La crostata era intatta, il bicchiere di tea vuoto per metà, il ghiaccio già completamente sciolto.
Accennò un sorriso di scuse ad un cliente appena entrato, pregandolo di aspettare, e posando il taccuino e la penna sul bancone si sfilò il grembiule, andando a sedersi al tavolo con quel ragazzo, occupando il posto di fronte al suo. «È… un po’ che non ci vediamo».
Quello fece una smorfia, rivolgendogli un’occhiata assolutamente offesa. «Ci hai messo parecchio per riconoscermi».
«Mi dispiace, lo sai che sono lento».
Annuì, sorridendo lievemente. «Meglio tardi che mai» disse, porgendogli il piattino con dentro la crostata. «La tua preferita, no?».
«Oh, te lo sei ricordato!» rise con un groppo alla gola, trattenendo a stento le lacrime. «Ho sentito la tua mancanza, da morire» posò le mani sulle sue che tenevano il libro, stringendole.
«Anche io» Zexion lasciò il libro, intrecciando le mani alle sue. «Mi sei mancato, Demyx».

 

Lo strinse, tenendo premuta la guancia tra i suoi capelli blu che lo solleticavano al naso. Zexion non dormiva, eppure era silenzioso come se lo stesse facendo, e continuava a carezzargli il petto, soffermandosi su qualche piccola cicatrice che si era guadagnato per essersi distratto durante uno sciagurato incontro con qualche Heartless. Gliene baciò una, posandoci sopra le labbra così piano che Demyx quasi non le percepì, poi si ritirò subito, rotolando nella parte del suo letto e coprendosi con le lenzuola, nascondendosi dopo aver evidentemente mostrato troppo.
«Sai» mormorò, girandosi sul fianco per poterlo guardare. «Mi chiedevo se…  magari andrà meglio, in una vita futura».
Zexion lo guardò impassibile. «Non credo potrà essere peggio».
«Non è… così male» si torse le mani, mordendosi un po’ le labbra. «Era peggio quando noi non…» si zittì ad un suo cenno per non terminare la frase, sospirando. «Mi piacerebbe rincontrarti».
«Spera di incontrare gente migliore».
Scosse la testa. «Vorrei incontrare te. Così potrei dirti che ti amo e tu mi crederesti» spiegò, senza guardarlo per l’imbarazzo. «Non posso dimenticarti. Mi ricorderò di te».
«Demyx» Zexion sbuffò una risata amara, guardandolo fisso. «Le persone a volte non riescono a non dimenticarsi di quelle che sono esistite, come credi di poter ricordare di qualcuno- di un Nessuno esistito a metà?».
Rimase in silenzio, trovando il coraggio di ricambiare il suo sguardo. «Perché» e si fece coraggio per finire, con la voce tremante. «Anche se avrò un cuore mi sentirò più… a metà di adesso, finché non ti avrò trovato».
Zexion non disse niente. Si girò dall’altra parte, e dopo diversi minuti che Demyx aveva passato a fissargli la schiena gli augurò la buonanotte, spegnendo le luci. Sentì un piccolo singhiozzo, ma non ebbe il coraggio di controllare
.
 

Quando gli disse che lo amava, Zexion gli sorrise come per dirgli che non ne aveva mai dubitato.
 



 

AUGURISSIMI PATATA ♥ ♥ ♥ ♥ ♥ ♥
E lo so che probabilmente questa storia non ci voleva per l'ultima notte prima dell'inizio della scuola ma fuck u, in fondo c'è l'happy ending, quindi buon compleanno ♥
La citazione è bellissima e quando l'ho beccata nel libro ho pensato cazzo. Era perfetta per una fic, e quando mi sono messa a scrivere ho pensato cazzo, è quasi il compleanno di Syr e quando poi l'ho finita ho detto cazzo, ci sono riuscita.
In sintesi penso sempre al cazzo.
Dopo questa sequela di stronzate che proprio non vanno bene per una che sta per cominciare la quinta liceo, vi saluto, spero vi piaccia (spero ti piaccia, Syr ♥) e mi farebbe piacere se lasciaste un commentino, giusto per sapere :333
Oh! Questa è anche la mia 80esima storia su KH. Cazzo.
Buon inizio di scuola a tutti e, per chi l'ha già cominciata, buona fortuna!

 

 
   
 
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