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Autore: PeNnImaN_Mercury92    15/09/2014    2 recensioni
Fu solo quando John e io ci trasferimmo a Londra, nel 1970, che lui entrò a far parte della band che gli avrebbe cambiato la sua vita e in qualche modo stravolse anche me, perché mi fece innamorare di una persona che non avrei mai concepito essere il mio tipo di ragazzo ideale.
E' infatti una storia d'amore che non mi sarei mai aspettata, e ora che lo racconto a te posso dimostrartelo...
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brian May, Freddie Mercury, John Deacon, Nuovo personaggio, Roger Taylor
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chiusi gli occhi, perdendo di vista il colore aranciato del cielo pomeridiano e mi concentrai sui rumori accanto a me. 
Il rumore delle onde che si adagiavano sulla costa croata, il chiacchiericcio di madre a proposito dei problemi sulla borsa inglese, il suono che producevano le pagine del libro che leggeva mio fratello John.
Ma quello che più mi attraeva era il primo.
In Irlanda ascoltare quell' incantevole rumore è rarissimo. Le coste irlandesi sono rocciose e le onde si disperdono sempre tra le rocce.
La Croazia è senz'altro uno dei posti marittimi migliori del mondo.
Ero talmente dispersa ad ascoltare il rumore del mare, che nel giro di qualche minuto probabilmente mi sarei addormentata lì, su quella spiaggia, stesa sulla sabbia su un telo in spugna rosa. 
Eh sì, ero proprio sul punto di addormentarmi, visto che avevo già perso coscienza di quello che succedeva attorno a me: tutti i rumori diminuivano, finché quel cretino di John non mi scosse. —Rose, devo farti una domanda. 
Aprii gli occhi, che subito incontrarono quelli di mio fratello.
—Sì che mi disturbi, stavo per addormentarmi.—risposi con voce amara, probabilmente perché era da molto che non aprivo bocca per parlare, e mi scappò anche uno sbadiglio.
Io e John siamo gemelli, ma non avevamo nulla in comune, a parte il colore dei capelli e degli occhi, ma se qualcuno avesse avuto l' opportunità di giudicarci per carattere, ci avrebbe catalogato come il sole e la luna. Io ero un tipo estroverso, ma non maleducato, John invece era il classico ragazzo buono ma timido.
Alzai il busto mettendomi in posizione eretta e cercai di dare una sistemata ai miei capelli castani.
—Scusa. Da quando dormi in spiaggia?—rispose, posando il libro dalla copertina marrone che aveva in mano affianco a lui, facendo attenzione a non farci entrare dentro alcun granulo di sabbia.

—Lascia perdere. Dimmi, che c'è?

Andiamo a fare una passeggiata?—io lo guardai a bocca aperta,facendolo sorridere.
—E tu mi disturbi per fare una domanda del genere?—lui rise, e io presi il suo libro e cominciai a malmenarlo scherzosamente.
Ridevamo a crepapelle, ma la lotta finì quando le sue mani non afferrarono il libro che avevo ancora in mano e mi bloccò i polsi.—Ah, non ti permettere. Pretendo ancora una risposta, sorellina.—io mi asciugai le lacrime che avevo sotto agli occhi, quelle che mi avevano provocato le risate.
—E va bene. Mamma?—quest'ultima, che aveva assistito a tutta la scena, annuì.
—Non andate troppo lontano, tra un po' torniamo in albergo.—Io e John annuimmo, ci alzammo e io mi legai un piccolo pareo giallo attorno alla vita prima di avviarci.
Cominciammo a camminare lungo mare, a braccetto. Le onde che arrivavano a riva ci bagnavano i piedi fino alla caviglia.
Per un po' mio fratello non disse niente, suo tipico, poi finalmente avviò la conversazione:—Che cosa ti mancherà della Croazia?

Avrei voluto rispondere tutto, ma John non andava pazzo per le vacanze e non volevo farlo arrabbiare.

Avevano trascorso due settimane nella città di Zara, un paesino di mare croato con mamma "per affrontare meglio il nuovo anno", come amava dire lei.
Proprio domani saremmo ripartiti per cominciare una nuova vita a Londra, allontanandoci da Dublino, in Irlanda, città in cui avevamo vissuto fino ad allora.
In realtà io e John siamo nati a Londra, solo che a causa della morte di nostro padre, quando avevamo solo quattro anni, ci trasferimmo nella città di origine di mamma e aveva conosciuto Sid, un uomo abbastanza ricco, poco tempo dopo l'arrivo e si sposarono tre anni dopo.
La cosa positiva della partenza è che finalmente saremmo andati a vivere noi due da soli, in un appartamento al pian terreno a Knightsbridge . 
—Beh, il mare sarà la cosa di cui sentirò di più la mancanza, e poi il cibo che cucinano qui è divino. Qualcosa che sicuramente non vedrò l'ora di sbarazzarmi è il letto.— risposi. Avevamo passato due settimane in un albergo abbastanza eccellente, in una suite con due camere, una per i miei e una per noi due, ma l'unico difetto era il letto, che si sarebbe potuto scambiare tranquillamente con un tavolo di legno. Avevamo così deciso di unire i due minuscoli e scomodi lettini in un unico letto, ma ciò non tollerava la scomodità.
—O mio Dio, non sai cosa darei per dormire finalmente in un letto comodo.—potevo profondamente capirlo.
—Fortunatamente questa è l'ultima notte. E a te, invece? Cosa ti mancherà?—rimase qualche secondo a pensarci. 
—Mm, credo la tranquillità. escludendo il letto, è stata una vacanza abbastanza piacevole.—rimasi completamente spiazzata dalle sue parole. E io che mi ero sforzata di essere stata il meno entusiasta possibile.
—Chi sei tu? Che ne hai fatto di John Deacon? Adesso non non dirmi che ami le vacanze?—niente risposta, solo una risata.
—Tu dici che ci troveremo bene a Londra?— chiese, e io sbuffai per la millesima volta alla solita domanda che amava tanto pormi in quei giorni.
—Non so quante altre volte mi hai fatto questa domanda, John. Certo che ci troveremo bene. Insomma...—smettei di camminare e bloccai anche lui, mettendomi proprio di fronte ad egli.—Veniamo da Dublino, non dalla campagna. Se sei riuscito a sopravvivere lì perché no anche a Londra?—lui abbassò la testa, ma io gliela rialzai, prendendogli il mento. Mi guardò profondamente negli occhi, in cui si poteva vedere solo agitazione .—Hai ragione. Dobbiamo solo essere noi stessi.—sorrisi . 
Riprendemmo a camminare.—Ma non ti mancheranno le tue amiche?—mi chiese.
—Chi? Anastacia e Sarah? Cercheremo di tenerci in contatto. Tu, invece? Albert come farà senza di te?—Albert era l'unico ragazzo con cui aveva legato nella vecchia scuola nel corso di elettronica, la facoltà di John. Io invece mi ero data alla biologia.
—Idem. —rispose lui.—Ah, mi manca tanto il mio bambino.—Capii subito che si riferiva al suo basso. John era meravigliosamente portato per la musica: sapeva suonare il basso in maniera eccellente  e non se la cavava male neanche con la chitarra, suo primo strumento, e col piano, specie quello elettrico. In pratica se avessi provato a chiedergli di suonare uno strumento elettronico lui te lo avrebbe suonato per tutta la notte. Era proprio la musica è l'unico metodo che aveva per distruggere quel guscio nel quale era chiuso, l'unico difetto che aveva era che non sapeva cantare, era stonato più di una campana. Io invece ero abbastanza discreta nel suonare la batteria e non cantavo come Aretha Franklin, ma me la cavavo.—E tu non sai come mi mancano i miei bambini. Speriamo che con il trasloco non mi abbiano rovinato niente.

John rise.—Ti immagini un Tom Tom forato?—io lanciai un grido di terrore .


Finalmente arrivammo da mamma e Sid, intenti ancora a parlare.
—Ma guardatevi, sembrate due fidanzatini.—esclamò la mamma, vedendoci ritornare.
—Per la cronaca, un giorno un gruppo di ragazzi ci scambiò veramente per una coppia.—dissi, sistemandomi nuovamente a terra, sul mio telo.
—E poi che è successo?—la mamma insisteva, intanto John si era fatto rosso.
—Niente. Cercavo di spiegare a quei tonti la verità, ma loro insistevano e non credevano alle mie parole. Alla fine ho dato un calcio ad uno di questi.
Mia mamma rimase sbalordita e John rise.—Oh, santo cielo. Sei sempre la solita cafona.—commentò lei.
—Mi sono solo difesa.—risposi, lei sospirò.
Rimanemmo in spiaggia ancora un po'. Dopo una mezzoretta, salutammo definitivamente la spiaggia di Zara e andammo in albergo.
John entrò in bagno per primo per fare una doccia.
Dopo una decina di minuti era già tutto bello pulito.
Uscì dal bagno in canottiera e mutande.—Cosa devo mettermi per stasera?—chiese a mia mamma, intenta ad esaminare alcuni completi di mio padre. Quella sera dovevano andare ad una cena con un ex collega di mio padre che abitava lì.
—Per me potresti uscire tranquillamente così. Sei così sexy!—scherzai io, stesa sul mio scomodo letto.
—Oh, una cosa che tu assolutamente non potrai fare tu, mia cara.—ribatté lui.

—Volete finirla voi due?—disse mamma.—John, questo è l'unico che sono riuscita a trovarti.—porse a mio fratello una giacca nera e un pantalone dello stesso colore di Sid.
—Una camicia almeno ce l'hai,no?—gli chiese mamma. John annuì e andò a rovistare nell'armadio di mogano che in quelle settimane avevamo condiviso io e lui. Tirò fuori una semplice camicia bianca e cominciò a infilarsi tutto.
Io andai in bagno per lavarmi, ma ci misi il doppio del tempo che ci aveva impiegato John.
Dopo venti buoni minuti uscii con un asciugamano che mi copriva fino a qualche centimetro sotto le ginocchia. 
Non appena aprii la porta, non potei non notare l'eleganza che vestiva John.

—Hai capito, il ragazzo!—esclamai.

lui alzò lo sguardo dal solito libro e indicò un vestito giallo posato sulla sedia del piccolo scrittoio che avevamo in stanza.—Devo mettere questo?—chiesi.

Lui annuì.—Sì, e mamma ti presta un paio di sue scarpe.
—Ma lei ha solo scarpe con i tacchi!—mi lamentai, al solo pensiero di dover indossare quegli orribili trampoli. 

Mio fratello rise sotto i baffi.—Tu non capisci perché sei uomo.—lo rimproverai.

  —Guarda come hanno conciato me—si indicò i vestiti.

   —Almeno la cravatta non ti soffocherà. Io invece avrò dolori lancinanti in ogni parte del corpo.

Presi della biancheria pulita e il vestito e me ne tornai in bagno. 
L' abito mi arrivava alle ginocchia ed era scomodissimo. Tentai in tutti i modi di renderlo un po' più comodo, ma fallii ogni tentativo.
Uscii dal bagno e vidi mia madre con un paio di scarpe dello stesso colore del vestito.—Sei incantevole, tesoro! Appena usciamo infilati queste.—e mi porse le scarpe.—E i capelli come te li sistemi?— poi chiese.
—Oh, beh. Li lego!—lei fece una smorfia.
—Non se ne parla neanche. Te li tieni sciolti.—disse. 

Io sbuffai.—Ci sono trentacinque gradi solo di notte—protestai.

—Ti do un frontino nero e risolvi.—non potei fare a meno di notare che in camera mancava una figura.
—Dov'è Sid?—chiesi.
—E' andato giù al bar a prendere una bottiglia d'acqua.—disse e sparì nella stanza affianco la nostra.
Mi stesi a peso morto sul letto, a fianco a John, immerso nella lettura, che rimbalzò insieme a me a causa dei miei modi bruschi.—Ehi, ho perso il segno!
Mi misi nella sua posizione e sbirciai nel libro.
—Di che cosa parla?—gli chiesi. Lui alzò lo sguardo, tenendo un dito fermo sul punto che stava leggendo. 
—Si chiama "la chiave del piacere", di William Van Kenn. Racconta la storia di un violinista molto bravo, Ebenezer, che è anche un uomo burbero e antipatico. Nella prima parte del libro si parla di come risponde il mondo ai suoi comportamenti asociali. Dopo un po' incontra una ragazza di nome Alina, che suona il flauto nell'unico posto in cui Ebenezer si sente bene, nell'orchestra della città e se ne innamora perdutamente. Un giorno però...—lo interruppi.
—No! Eh eh. Non mi dire come continua, sono disposta a leggerlo.—John mi guardò sbalordito. 
—Ma come? Tu odi leggere.—sì, era una delle cose che più odiavo al mondo, ma quel libro era speciale, me lo sentivo, e se c'è qualcosa che mi affascina faccio tutto il possibile.
—Non preoccuparti. Posso cominciare ora?—lui annuì, piegò l'angolino di una pagina, e mi diede il libro. 
Aprii la prima pagina: 

L'amore non è altro che una porta precedente il piacere.
Piacere non è solo il modo di entrare in una trappola, ma è semplicemente una tappa che porta a innamorarsi di una persona.
Ci sono mille storie d'amore, quelle divertenti, quelle insensate, quelle brevi, quelle passionali, ma quelle che preferisco sono quelle bizzarre, quelle che non ti aspetteresti mai, e io ho una da raccontare.

Io e John continuammo a leggere, lui mi si era messo accanto e dava uno sguardo al libro.
Il narratore è una persona che ha conosciuto il protagonista, Ebenezer Liderij, ma non rivela la sua identità.
Ebenezer era uno di quei soliti tipi solitari, sempre incazzati col mondo, senza uno scopo nel vivere.
Si sentì la porta della suite aprirsi. Era Sid.
Entrò nella nostra stanza e ci vide leggere.—Ma come siete eleganti!—noi due alzammo lo sguardo.
—E smettetela di farci i complimenti, lo sappiamo che siamo bellissimi.— dissi.
Tutti si misero a ridere, ma in fondo era la verità.

Due ore dopo, alle nove di sera, ci trovavamo tutti in un noto e raffinato ristorante del posto, con il collega di Sid, Marcus -che si era trasferito in Croazia per lavoro, ma parlava ancora inglese- e sua moglie Kelly, con i loro due figli Tobias di quattordici anni e Suzanne di undici.
Essendo un ristorante di solo pesce, io ordinai solo una frittura di calamari e John un piatto di spaghetti ai frutti di mare.
Rimanemmo per un po' zitti, visto che mamma e papà erano intenti a parlare con i due coniugi.
Cercai di fare qualche chiacchierata con i due figli, che parlavano discretamente la nostra lingua.—Come funziona qui la scuola?—chiesi a Tobias.
—Credo che in Irlanda è uguale. Voi siete di Irlanda, vero?—disse con un accento della sua lingua madre. Io annuii.
—Sì, ma ci dobbiamo trasferire a Londra. Giusto, John?—detti una gomitata a quest'ultimo, che era alla mia destra.
—Sì. —mormorò.—E tu? Qual è la tua materia preferita?—chiese a Tobias, che mi guardò come per dire "Ma cosa c'entra questa domanda?"
—Beh, mi piace molto la matematica. E tu?
—Elettronica.—risposi io per lui.—E' specializzato in elettronica, all'università funziona così. Io invece biologia. Tua sorella parla inglese?—indicai Susanne, intenta a giocherellare con un pezzo di pane.
—Solo un poco.—disse e mormorò qualcosa in una lingua a me sconosciuta alla sorella. 
Lei annuì e disse:—Siete mai stati qui?—quella conversazione si trasformò in un mix di domande non correlate tra di loro, probabilmente perché tutti e quattro non avevamo niente da dire, al contrario dei nostri genitori.
—Intendi in Croazia? No, mai. È molto bella, però. Siete fortunati ad abitare qui. —loro sorrisero.
Finalmente arrivarono i nostri piatti.
Cominciai a mangiare la frittura, che era a dir poco squisita.
Non ero amante della frittura, anche perché da noi non è il massimo della cucina irlandese, ma quella era qualcosa di assolutamente eccezionale.
In poco tempo arrivai a metà piatto.
Guardai in quello di John, che aveva già finito tutti gli spaghetti, ma non riusciva a sgusciare i gamberi.
Ebbi l'impulso di aiutarlo.—Dai a me, faccio io.—presi tutti i gamberi dal suo piatto e li misi nel mio, e cominciai ad uno ad uno a sgusciarli.
—Grazie.—mormorò John, mentre rimettevo i gamberi ormai sgusciati nel piatto.
—Come sono carini, Sid. Si aiutano a vicenda, i miei figli non lo farebbero nemmeno sotto tortura.—disse Marcus, che aveva assistito alla scena dei gamberi.
—Ah, ma all'età che avevano i tuoi non facevano altro che litigare.—odiavo quei momenti in cui ero messa in imbarazzo, e credo che anche John sia stato della mia opinione.
Fortunatamente, mia madre mise a tacere l'argomento "Come far diventare rossi i miei figli". —Questo ristorante è magnifico.—e subito si iniziò a parlare dei piatti che non avevamo preso.

La serata giunse al termine, salutammo Marcus e sua moglie e anche i suoi figli.
Ce ne tornammo tutti verso l'albergo, ma mi venne una brillante idea, visto che non avevo per niente sonno.—Mamma, posso andare a prendere un gelato? Voglio respirare fino all'ultimo l'aria Zarese.—lei scosse il capo.
—Non se ne parla. Se ti accompagna John, forse...—a quelle parole mi inginocchiai letteralmente ai piedi di mio fratello.
—Ti supplico, non toccherò mai più il tuo basso!—lui fece un sorriso malizioso, perché sapeva che ogni tanto andavo a strimpellare il suo strumento.
—Se la metti così...—giocherellai con i suoi lunghi capelli leggermente mossi.
—Siii! Torniamo tra una mezz'ora.—dissi a mamma e Sid, che annuirono scocciati.

Camminammo per un po' al porto della città, dove si concentrava la gente turistica.
Demmo un'occhiata alle bancarelle, ma in realtà ero io a tirare John come un fidanzatino.
Dopo un po' mi scocciai anche io, e decidemmo di prendere veramente un gelato.—Vado a prenderlo io. Tu a che gusto lo vuoi?—gli chiesi, indicando il gelataio.
—Vaniglia.—mi accompagnò fino alla cassa.
—Due alla vaniglia, per favore.—dissi, pregando tutti i santi del mondo che quell' uomo sapesse parlare inglese. Fortunatamente mi capì, anche perché indicai il gusto e feci due con le dita.
Pagai e diedi un cono a John. Dopo, camminammo ancora per un po'.
Poteva essere il gelato o il cambio di clima nell'orario notturno, ma sentii un bel po' di freddo, a tal punto da rabbrividire e John se ne accorse.—Hai freddo?—io annuii, gettando il rimasto del cono in un cestino.
Mi mise un braccio attorno alla schiena per riscaldarmi.—Va meglio?
—Diciamo. Domani continuo a leggere in aereo.—tagliai corto, cercando di distrarmi.
—Ti piace così tanto quel libro?—annuii.—Io non riesco a leggere nei veicoli. Mi viene da rimettere. Comincio a sentire freddo anche io.
—Saluta Zara, torniamo.—lui mi prese alla lettera.
—Ciao, Zara. Grazie per i bei momenti che mi hai fatto passare in queste due settimane. Domani andrò all'inferno.— sospirai nuovamente e gli diedi un buffetto sulla spalla.
—Che palle che sei! Dai, andiamo.—cominciai a correre verso l'albergo, tirandolo.
—Tra un po' rimetto tutti i gamberi!—disse, cercando di starmi al passo.

Arrivammo in camera e, a turni, ci cambiammo.
Indossai dei pantaloncini neri e una canotta bianca e mi stesi sul letto senza lenzuola. 
Dopo qualche minuto mi raggiunse anche John.
—Ah, dobbiamo solo superare questa notte e saremo liberi da questo scomodo letto.—mormorai, visto che gli altri erano già intenti a dormire.
—Te lo ripeto, è l'unico motivo per cui voglio andare a Londra.—disse, cercando di sistemarmi al meglio sulla sua parte del letto.
—Mi spieghi qual è la tua preoccupazione? Perché non dovremmo entrare nella società? Londra è una città multietnica, forse siamo pure più cittadini dei londinesi stessi.
—Sarà. —disse.—Comunque domani ci aspetta una stancante giornata. Sai quanti scatoloni ci tocca svuotare?
—Sì. Non vedo l'ora di sistemare la batteria!—gli scappò una lieve risata.
—Vieni qui.—si strinse a me e mi accoccolai accanto a lui, tra le sue braccia.—Buonanotte, zuccherino!—disse poi.
—Buonanotte, dolcetto!—ridemmo nuovamente e sentimmo uno "Shh" provenire dalla stanza accanto.

  
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