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Autore: Rusty 93    16/09/2014    1 recensioni
Dopo aver visto diversi film con Carlyle, dopo aver sbirciato un po’ la sua biografia e dopo aver scoperto dell’esistenza dei Robelie... In sostanza ho messo tutto in un grosso calderone e ne ho fatto un minestrone-fiction(Lol ). Buona lettura.
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Emilie de Ravin, Robert Carlyle
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Glasgow, epilogo.

La mattina seguente, stiamo ancora lavorando nella pseudo-biblioteca dei French. L’uomo-tricheco non si è dimostrato del tutto privo di gusto e ha scelto un bel giallo ocra per le pareti: mentre mio padre mischia i colori per ottenere la tonalità giusta, io preparo i pennelli.

Quando iniziamo a dipingere, è già metà mattina e sono quasi le tre quando terminiamo. Mi chiedo come mai non abbia ancora visto Emilie e ogni tanto, do uno sguardo rapido in corridoio sperando di scorgerla e di poterla salutare.

Mi sto chiedendo come mai mi senta così dispiaciuto di non averla ancora vista, quando una manata di mio padre mi colpisce in pieno sulla spalla, risvegliandomi dai miei pensieri “Bene ragazzo, ottimo lavoro oggi. Allora, adesso tu pulisci i pennelli e carichi tutto sul furgone mentre io vado a farmi un cicchetto al pub qua vicino, d’accordo?” mi strizza l’occhio e poi si dilegua ad una velocità sorprendente.

Pulisco i pennelli, carico la roba in macchina, tolgo lo scotch di carta dalle pareti e raccolgo tutti i fogli di giornale dal pavimento. Bene, ora non mi resta che aspettare mio padre per potermene tornare a casa.

Mi stravacco sul sedile del passeggero del nostro furgone e mentre mi fumo una sigaretta, alla radio danno una canzone che mi piace: alzo il volume al massimo quando inizia il ritornello e inizio a cantare a squarcia gola.

One down, one to go 
Just another bullet in the chamber 
Sometimes love's a loaded gun 
Red lights, stop and go 
Whatcha gonna do when yo play with danger 
Sometimes love's a loaded gun 
And it shoots to kill 

Sto ancora finendo di cantare e intanto scuoto la sigaretta fuori dal finestrino, per fare cadere la cenere... ed è a questo punto che rischio l’infarto.

“Ciao!” Emilie è praticamente comparsa dal nulla e ora mi fissa sorridente, i suoi occhi grandi mi ricordano tanto le luminarie il giorno di Natale... o qualcosa di simile, insomma.

“Hei.” Rispondo indifferente, prendendo un altro tiro dalla sigaretta e cercando di non far notare la mia sorpresa. Lei fa il giro dell’auto ed entra in macchina, sedendosi al posto del guidatore.

“Come stai?” cerca di incrociare il mio sguardo, ma io fisso ostinatamente il cruscotto.

“Non c’è male, tu?”

Prima di rispondermi, abbassa il volume della radio al minimo. “Tutto ok. Come è andata la tua giornata?”

“Hei! Echecazzo, io la stavo ascoltando la radio!” era appena cominciata un’altra canzone che mi piace. Credo che sia la prima imprecazione che mi sente pronunciare, quindi adesso si offenderà e non mi rivolgerà mai più la parola... aspetta un attimo: a me che cazzo me ne frega se questa ragazzina viziata non mi rivolge più la parola? Assolutamente nulla!

“Si ma stavamo anche parlando e non mi va di dover urlare. E poi la musica la senti anche se è ad un volume più umano, non sei mica sordo!” mi risponde a tono e non sembra per niente intenzionata a scappare. Decido di rimediare in qualche modo.

“Tutto ok, abbiamo finito di dipingere la biblioteca. Domani tu e tuo padre potrete iniziare a montare le librerie.” Mentre pronuncio quelle parole, cerco di immaginarmi l’uomo-tricheco e la giovane e mingherlina Emilie, che cercano di montare una libreria decente e mi scappa da ridere: quei due è già tanto se sanno usare un martello.

“Tuo padre non ti ha ancora detto nulla?”

Mi risveglio dai miei sogni ad occhi aperti e mi decido a voltarmi verso di lei “Non mi ha ancora detto cosa?”

“Che lui e mio padre si sono messi d’accordo... Lui ci ha detto che tu mi avresti aiutato a montare le librerie.”

Non ci posso credere. Quel vecchio bastardo sarebbe stato capace di buttarmi giù dal letto il sabato mattina e dirmi solo in quel momento che dovevo lavorare... e poi, che cazzo, perché non ci viene lui qui a lavorare di sabato, se ci tiene tanto? Io domani ho da fare... no d’accordo, non è vero, a meno che dormire tutto i giorno e mangiare schifezze possano essere considerati come impegni. Ma cazzo, è comunque sabato, un fottutissimo e sacrosanto giorno di riposo!

Che rabbia, mi prudono le mani ed ho voglia di prendere a pugni qualcosa... per tenere occupate le dita, mi accendo un’altra sigaretta e il sapore del fumo in bocca mi calma leggermente. “Ottimo.” È tutto ciò che riesco a pronunciare fra i denti.

“Sai, di solito era mia madre quella che faceva i lavori più pesanti in casa... mio padre al massimo, è capace di cambiare le lampadine. Io me la cavo, ho dovuto imparare a fare un po’ di tutto nell’ultimo anno, ma non penso che sarò mai abbastanza forte per montare una libreria tutta da sola.” Lo dice sorridendo, quasi come se le cose che sta sottintendendo non fossero importanti, ma io vedo il dolore riflesso nei suoi occhi chiari.

“Cosa è successo a tua madre?”

“Tumore al cervello. E’ morta tre mesi fa, ma era già da un po’ che non ce la faceva più.” Tutta la sua ingenuità mi sembra svanita adesso, quasi come se si fosse tolta una maschera. Un’onda di delusione mi travolge e non so perché. Forse perché in fondo speravo che lei fosse veramente così: ingenua, dolce e gentile, non ancora scossa dalla realtà della vita e dalla sua brutalità... si, forse è proprio perché speravo che fosse ciò che io non sono mai stato. Allo stesso tempo però, inizio a considerare la piccola Emilie in modo diverso... adesso, è come se qualcosa ci legasse, qualcosa di molto triste ed oscuro certo, ma è anche qualcosa di forte ed indissolubile. Mi rendo conto che probabilmente, quel qualcosa c’era fin dall’inizio e io semplicemente, ero troppo cieco per vederlo.

Dio, tutti questi pensieri filosofici mi sconvolgono la testa: non sono per niente da me. Ciononostante, non riesco nemmeno a trattenere la mia lingua dallo sciogliersi senza alcun preavviso:

“Mia madre se ne è andata quando avevo poco meno di quattro anni. Ha piantato in asso me e mio padre per andare a fare la vita da benestante con un investitore di borsa, un londinese del cazzo. Ha divorziato il più in fretta possibile da mio padre e si è risposata con l’altro... e come darle torto? Mio padre è un stronzo, anche se gli voglio bene perché è l’unica famiglia che mi è rimasta ...ma non potrò mai perdonarle di avere abbandonato me, il suo unico figlio.”

Lei non dice nulla e io continuo a guardare avanti. Inizia a fare buio, quindi non mi volto neanche per cercare di guardarla in faccia: non riuscirei a vederla comunque. Dopo qualche minuto, inizio a dubitare che sia ancora viva... penso che magari è uscita dalla macchina e io non l’ho neanche sentita andarsene. Una tremenda ma famigliare sensazione di abbandono inizia ad avvolgermi.

“Ti prego, dì qualcosa.” Lei non risponde, ma in compenso, mi getta le braccia al collo e mi abbraccia, appoggiando la sua testa sulla mia spalla: sento i suoi capelli ondulati e morbidi che mi sfiorano il collo, le sue mani che mi stringono forte le spalle e poi sento il suo profumo... non so se sia giusto, ma lo identifico come odore di shampoo e di Emilie. Libero delicatamente un braccio dalla sua presa e le avvolgo le spalle e in quel momento, le scappa un breve singhiozzo: sta piangendo.

Rimaniamo abbracciati così per qualche minuto, consolandoci a vicenda. Distrattamente, mi chiedo come sia possibile che io sia riuscito ad aprirmi di più con questa ragazzina, che conosco da meno di due giorni, che con chiunque altro durante la mia intera esistenza.

***

Il giorno seguente, mi apro gli occhi prima che suoni sveglia e balzo giù dal letto con una velocità impressionante. Mi faccio una doccia e mi vesto in fretta, carico tutti gli attrezzi necessari sul furgone e inizio a guidare mentre mangio la mia solita merendina per colazione.

A dieci alle nove, sono sulla soglia di casa French. Suono il campanello ed è lei ad aprirmi la porta: prima che io possa salutarla o dirle qualunque altra cosa, lei mi getta le braccia al collo e mi stringe forte, quasi come se fossi un orsacchiotto di peluche.

Quando si stacca e mi invita ad entrare, la guardo in faccia attentamente: non è più triste, sembra tornata quella di sempre... mio dio, sto parlando come se la conoscessi da anni, quando in realtà la conosco da soli tre giorni, come è possibile? Mi rifiuto di credere che io mi stia innamorando, sono sempre dell’idea che l’amore sia una cosa stupida e da masochisti, però non posso negare di sentirmi come se conoscessi Emilie da una vita. Si deve essere così: ci somigliamo così tanto che è come se ci conoscessimo da sempre.

Suo padre è in cucina e legge il giornale, mentre beve il caffè. Mi saluta con un cenno del capo ed io ricambio.

“Ti va una tazza di caffè ragazzo, prima di iniziare a lavorare?” il suo tono è  cordiale, anche se un po’ assonnato... forse avevo giudicato l’uomo-tricheco eccessivamente in fretta ...e forse, dovrei trovargli un nomignolo un po’ più gentile di uomo-tricheco. Mi rendo conto che nella fretta di uscire, in effetti, non ho ancora bevuto il caffè.

“Si grazie, signor French.”

“Chiamami Moe.” Dice mentre mi riempie una tazza ed io mi siedo al tavolo appoggiando a terra la cassetta degli attrezzi. “Ci vuoi del latte o dello zucchero?”

“Latte, grazie.” Dio, mi sento quasi in colpa per averlo chiamato uomo-tricheco per tutto questo tempo.

Il signor Moe non sembra un gran chiacchierone, ma forse è anche perché si è svegliato da poco... in compenso, Emilie sembra perfettamente sveglia: se ne sta seduta a gambe incrociate sulla sedia di fronte alla mia e inizia a raccontarmi più o meno tutto ciò che le salta per la testa, mentre mangia biscotti come un tritatutto. Mi sembra impossibile che si tratti della stessa ragazza che adora i cactus perché non sono come sembrano, oppure della stessa che ieri aveva negli occhi uno sguardo tanto triste. Mi rendo conto che con Emilie più che con chiunque altro, niente è mai come sembra.

Finiamo la colazione e mentre il signor Moe si dedica alle faccende domestiche, aiuto Emilie a spostare le scatole con i pezzi delle librerie dal garage alla biblioteca. Intanto, non posso fare a meno di notare il suo abbigliamento informale: indossa un paio di vecchi jeans che le fasciano le gambe alla perfezione e una maglietta così larga che potrebbe essere di suo padre... vorrei solo che le fosse un po’ meno lunga, così da ammirare meglio il suo fondoschiena. Appena formulo questi pensieri, mi do uno scappellotto mentale: dio Robert, ricordati che ha ancora 18 anni ed è ancora la stessa ragazza ingenua di ieri.

Ma è proprio questo il punto, no? Emilie non è più la stessa ragazzina ingenua di ieri, è diversa da come mi sembrava all’inizio. Scaccio quei pensieri inopportuni e troppo complessi, mentre mi concentro sul mio lavoro.

Montare la prima libreria è la parte più complicata, con Emilie che non la smette mai di chiedermi a cosa serve un attrezzo o come si usa, oppure mentre tento di insegnarle a non inchiodarsi le dita. Riusciamo nell’impresa e soddisfatti del nostro lavoro, posizioniamo la prima libreria contro il muro.

In confronto, tutto il resto è una passeggiata: Emilie è una che impara in fretta e mi facilita molto il lavoro.

Alla fine, il risultato non è per niente male e ci sediamo per terra a riposare e ad ammirare la stanza: la parete semicircolare è quasi completamente occupata da sei alte librerie e la luce proveniente dalle due uniche finestre, rimbalza sulla parete giallo ocra alle nostre spalle conferendo una bella atmosfera al tutto.

Ad un tratto, mi rendo conto di una cosa “Ma tu hai sul serio così tanti libri?”

Mi sorride “Certo che si!”

“...e li hai letti tutti?”

“Beh, no... la maggior parte erano di mia madre: anche lei amava molto i libri e mi ha trasmesso questa passione. Però il mio progetto è quello di leggere tutti i libri di questa biblioteca: dal primo all’ultimo, dal romanzo al manuale di cucina!” Ancora una volta, non posso credere che sia seria: eppure me lo dice con uno sguardo talmente sognante, che mi fa capire che non scherza.

“Pranziamo? Io sto morendo di fame!” Si alza in fretta da terra e poi mi porge una mano per aiutarmi a tirarmi su. Io l’accetto e quando sono in piedi, il mio viso è molto vicino, forse troppo, al suo. Deglutisco a vuoto e mi allontano di un passo. Lei arrossisce.

Avrei potuto e forse avrei dovuto, baciarla. Lo voleva anche lei? Se lo aspettava? Dio, sono un vigliacco... anzi, peggio: in questo momento, mi sento un codardo fatto e finito.

Andiamo in cucina e lei prepara dei sandwich. Ha smesso di parlare, quindi non posso fare a meno di credere che ci sia rimasta male. Non so cosa diamine mi prende, ho già avuto altre ragazze in passato: alcune mi piacevano molto, altre meno, ma non ho mai esitato, sono sempre stato molto sicuro di me. Perché con Emilie è diverso?

Mangiamo quasi completamente in silenzio: io sono assalito dai miei pensieri e lei sembra molto presa dai suoi.

“Dov’è tuo padre?”

“Doveva andare per qualche ora in ufficio oggi.”

“...lavora di sabato?”

“Sai, quando sei responsabile di un’azienda, non conosci orari... Hei, ti va se usciamo un attimo a fare una passeggiata?”

Annuisco e la seguo fuori. Usciamo dal retro ed imbocchiamo  un vicolo deserto che passa dietro la sfilza di villini.

“Sai, io non sono un’ingenua. E non sono neanche stupida.”

“Non l’ho mai pensato.” Bugiardo. Ma cosa potevo dirle? Che si, in effetti penso che lei sia molto ingenua e che è meglio che mia stia alla larga? Io non sono nessuno, sono meno della spazzatura e lei merita di meglio... chiunque meriterebbe di meglio. Perfino mia madre meritava di meglio.

E allora cosa ci faccio ancora qui? Il mio lavoro, quello per cui il signor French ha pagato a mio padre un extra, è terminato. “Si sta facendo tardi, forse dovrei andare.”

“Oh, d’accordo...” Sembra molto delusa, ma non posso farci nulla. Mi convinco che è per il suo bene.

Mi accompagna a raccogliere gli attrezzi e mi guarda mentre carico la cassetta sul furgone.

Mi volto a guardarla, cercando di mantenere un paio di passi di distanza. “Beh, allora... ciao.” Lei non risponde e senza alcun preavviso, mi getta le braccia al collo e mi stringe forte, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo. Io non posso fare a meno di avvolgerle un braccio intorno alla vita.

Nonostante ci sia ancora il sole, ci saranno al massimo cinque gradi: è il freddo pungente tipico di Glasgow e fa contrasto con il suo abbraccio caldo ed accogliente. “Ciao Robert, è stato bello conoscerti.” Si stacca da me e si allontana, rientrando in casa.

Io mi riscuoto e entrato in auto, accendo la radio al massimo del volume.

È stata la cosa giusta da fare.

No, non avrei dovuto lasciarla andare.

E invece si!

Forse dovrei suonare al campanello e tornare dentro. Dovrei dirle che sono un cretino e che mi dispiace...

Non essere ridicolo, queste cose succedono solo nei film di terza categoria.

La canzone rock che suona alla radio, mi rimbomba forte nelle orecchie e avvolto nei miei pensieri, non sento neanche la portiera aprirsi e richiudersi. Mi spavento quando vedo una mano spuntare dal nulla ed abbassare il volume della radio.

Faccio un balzo di lato sul sedile e mi volto di scatto verso l’intruso “Cristo, Emilie! Mi farai venire un colpo.”

Lei è seria e non ribatte. Però inizia a parlare: “Senti, io non posso essere certa di quello che pensi tu, però ho il sospetto che siano le stesse cose che penso io: ti conosco da tre giorni, ma mi sembra che tu sia con me da una vita. Probabilmente ci sei sempre stato, eri quella parte di me che ancora non conoscevo.

E sono anche abbastanza sicura che tu sia spaventato a morte quanto lo sono io, solo che non hai il coraggio di ammetterlo. Onestamente, non so cosa tu stia cercando di fare o da cosa tu stia cercando di difendermi, ma ti do una grande notizia: io non ho bisogno di essere difesa da niente e da nessuno, me la cavo benissimo anche da sola. E cosa più importante, non penso di aver bisogno di essere di essere difesa da te: sinceramente, credo che tu ti sopravvaluti, perché non sei oscuro neanche la metà di quello che credi.”

Distrattamente, mi chiedo se si fosse preparata il discorso o se lo sia inventata sul momento: senza dubbio è una brava oratrice. No, mi correggo, è fantastica sotto ogni punto di vista, è riuscita ad esprimere con poche frasi quello che io non riuscivo neanche a pensare... e poi, è bellissima anche mentre mi guarda arrabbiata e non posso fare a meno di fissarla inebetito per qualche secondo.

Mi chino verso di lei, le nostre labbra sono prima ad un centimetro di distanza e l’attimo dopo si toccano. Il bacio, prima timido ed esitante, si fa sempre più caldo e profondo, la sento sporgersi verso di me come un uccellino dal nido.

Dio, è fantastico baciarla e stringerla fra le braccia: è come essere a casa.

Cristo, tre giorni fa odiavo l’amore, ero nemico dell’amore... Ora invece, non m’importa se legarmi ad Emilie mi metterà a rischio di venire abbandonato da lei... Non m’importa nulla di quello che succederà in futuro, se ogni secondo del mio presente sarà bello anche solo la metà di questo.

 

*Fine*

 


N.A: salve dearies, spero che abbiate apprezzato questa breve e quantomai delirante storia. Volevo mettere l'accento su come la sola presenza di Emilie/Belle(in teoria è un misto di entrambe) praticamente basti per provocare una metamorfosi in Robert/Rumple... ma forse ho esagerato? Non lo so, non sono del tutto convinta di come ho costruito i personaggi e soprattutto dell'evoluzione di Rumple. Correzioni: avevo detto che il padre di Robert Carlyle faceva l'imbianchino... ma sono pirla, perché in realtà faceva il pittore ^.^" Sorry.
  
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