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Autore: LaCla    26/09/2014    12 recensioni
Cosa accadrebbe se una manciata di schizzi e disegni di Oda, venisse investita da una serie di particolari radiazioni? Come reagirebbe il mondo reale, venendo a conoscienza del fatto, che i personaggi di uno dei manga più famosi del mondo, sono diventati reali, ed ora camminano tranquillamente tra di noi? Ma so prattutto, se Ace fosse stato catapultato nel nostro mondo, prima di Marineford? Se una ragazza potesse cambiarne il destino? e se invece non potesse realmente farlo?
Questa è la storia di una ragazza qualsiasi, che vivrà il suo sogno più bello, ma anche più doloroso!
FF che contine possibili spoiler, tanta fantasia (la richiede anche al lettore xD) e Ace! :) Buona lettura!!
Genere: Comico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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- Questa storia fa parte della serie 'Of Love'
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Quindici Gennaio.
Mancavano nove giorni alla partenza.
Ventiquattro Gennaio, ore 19:30: arrivo della macchina.
Ventiquattro Gennaio, ore 22:30: partenza dall’aeroporto di Malpensa.
Venticinque Gennaio, ore 13:05: arrivo previsto all’aeroporto internazionale di Narita, Tokyo.
Duecentosedici ore, quasi tredicimila minuti.
Dicono che se si respira piano, lentamente, il tempo rallenti assieme al battito del cuore.
Avevo provato, fino a quasi soffocare.
Avevo frenato il respiro al punto che facesse male.
Avevo controllato le lancette ed il loro inesorabile avanzare.
Avevo rotto l’orologio, staccandolo dal muro e strappando quelle snervanti barrette nere.
Ace non aveva detto nulla. Io non avevo detto nulla.
Mi ero alzata, avevo preso e spezzato a metà le lancette. Ora sul muro restavano solo i numeri ed un punto centrale. Fermo. Immobile. Non come il tempo.
Dicono che senza le tenebre, le luci non potrebbero brillare.
Era vero, infondo.
Trovavo ingiusto però che le luci, le fiammelle, quelle lucine sperdute nel buio totale, dovessero lottare tanto per rimanere luminose, per poter splendere, per poter vivere, anzi, sopravvivere a quel mare di oscurità.
Ace aveva acceso una torcia meravigliosa accanto a me, avevamo dato il massimo entrambi, ma non era bastato.
Alla fine il nero vince, il buio incombe, le ombre avanzano, il fuoco si spegne.
Dicono che la speranza sia l’ultima a morire.
Se avessi potuto fare una visita di controllo alla mia, avrei trovato un malato terminale oggi, come il mese scorso e quello prima ancora. La speranza era l’ultima a morire, ma prima o poi anch’essa, inevitabilmente, arrivava alla fine.
Il telefono non aveva più squillato.
L’annuncio ufficiale era stato dato in TV.
Mia madre aveva chiamato otto volte il mio cellulare, poi mi aveva chiesto solo un sms ogni sera, per farle sapere almeno che c’ero ancora.
Mi ero impegnata a farlo, per lei e per mantenere una vaga consapevolezza dei giorni che passavano.
Avevo calcolato dieci volte, o forse più, le tempistiche per il viaggio di non ritorno.
Google ormai mi dava come ricerca suggerita le offerte di volo per il Giappone.
Non mi facevo mai vedere da Ace, impegnato a non contare i giorni e a viverli al massimo, come se non fosse un countdown inesorabile verso la fine.
Io lo assecondavo, se lui era felice così, lo sarei stata anche io. Per lui.
Sorridevo, come avevo imparato a fare anni prima. Fingevo e stavolta tutti se ne accorgevano, ma mi lasciavano fingere.
Cosa fare se una persona rotta dentro, tenta di ricomporsi pubblicamente con un sorriso? Fingere di crederle, che stia bene, che non abbia bisogno della produzione annuale di attack e silicone per tentare di ri-assemblarsi.
Io lo facevo per Ace.
Ace lo faceva per me.
Tutti lo facevano per noi.
I giornalisti assediavano la casa e i paparazzi tentavano di infilarsi in ogni foro della siepe. Vampiri assetati di scoop e notizie, che si nutrivano del dolore altrui. Vampiri, sì, ma privi di quel fascino e di quell'eleganza secolare che avvolgeva il mito, solamente delle larve succhia notizie prive di ritegno.
Speravo che almeno, di notte, non riuscissero a prendere sonno. Almeno. Minimo. Per giustizia divina un girone dell’inferno doveva essere designato a loro.
Sbuffai passando accanto al pesante tendaggio damascato che avevamo montato in salotto, per coprire tutte le vetrate. Assediati da vampiri e costretti a vivere come vampiri. Bell'ironia.
Avevo sempre pensato che la sfortuna ci vedesse benissimo e che il simpatico creatore dei piani dell'universo avesse un umorismo di merda, peggio di quello inglese, ma stava superando se stesso con la mia vita, davvero.
Sì, mea culpa: sapevo che sarebbe finita.
Nulla è per sempre.
Tranne Beautiful.
Eppure avevo il presentimento che se mi fossi messa con passione a seguire tutte le infinite puntate, fino ad interessarmi alla trama inconsistente, sarebbe finito pure quello. Potrei provare, tanto per fare un servizio all'umanità.
Ma me ne fregava davvero qualcosa dell’umanità? No. Decisamente non me ne fregava un cazzo. Il mio mondo era solo una persona.
Ero innamorata e ricambiata da uno dei personaggi più amati del regno Otaku. Stavo col “principe azzurro” che tutte sognavano (solo che il mio era più figo, non indossava calzamaglia e non aveva un cavallo bianco). Bello da mozzare il fiato, coraggioso, in grado di farmi sentire protetta e al sicuro solo stretta tra le sue braccia, rannicchiata sul suo petto.
Ma la vita non è un film e l'amore non è mai per sempre.
Sfiorai il tessuto ruvido dei tendoni con le dita, pensando a tutto e a niente. Ace era in garage ad armeggiare con la moto, nel pomeriggio saremmo scappati da quella tana di velluto per prendere un po' d'aria. Avevamo avvisato le guardie al cancello e organizzato un piano diabolico per allontanare tutti dall’accesso principale: niente funziona meglio di una soffiata sbagliata.
Entro un’ora tutti si sarebbero fiondati sul retro, fotografando a tutto spiano quella santa ragazza della nostra domestica, che si era offerta di farci da palo per qualche minuto, visto che era simile a me di costituzione.
Noi? Noi saremmo usciti dal cancello principale ovviamente.
Non avevo nemmeno voglia di uscire, nella mia coperta di apatia mi sentivo al sicuro, protetta e irraggiungibile dal dolore.
Mera illusione, ma mi era rimasta solamente quella.
Come ci si protegge da qualcosa che ferisce da dentro? Come si sopporta di sentirsi sbriciolare il cuore? Come si sopravvive a una ferita mortale invisibile, che nessun medico potrebbe mai suturare?
Sarei morta, straziata dagli artigli di dolore di quella bestia del destino. Eppure ne era valsa la pena, per Ace ne sarebbe sempre valsa la pena.
Ogni secondo speso a pensarlo. Ogni giorno passato a sperare. Ogni settimana di conti alla rovescia.
Ogni mese di batticuore, ogni battito perso, ogni ricordo e ogni brivido.
Ormai respiravo Ace, mi era entrato nel cuore con una facilità sconvolgente, schivando tutte le mie difese ed allentando il nodo che avevo fatto su me stessa.
Mi aveva ridato il sorriso che avevo perso, il motivo per alzarmi al mattino felice, sogni stupendi, ma più di ogni altra cosa mi aveva donato una realtà migliore di ogni possibile fantasia.
Lo amavo.
Amavo il mio angelo. Il mio principe. Il mio pirata. Il mio mondo.
«Hey... Io sono quasi pronto con la moto...»
La sua voce mi carezzò come seta sulla pelle, facendomi sussultare sia per lo spavento che per l'effetto che aveva sul mio cuore. Ogni parola era una coccola fatta da un guanto di raso.
L’avrei ricordata per sempre, con quella freschezza e quella profondità uniche. Come lo scroscio delle onde sugli scogli. La sua voce era l’oceano.
Mi ricorderò di noi mentre gli anni passeranno, per sempre.
Come d'altronde mi sarei ricordata per sempre il suo viso, perfetto, stellato dalle lentiggini.
Era il mio cielo.
Le sue braccia, che mi facevano sentire al sicuro e protetta, piene di muscoli e con quel tatuaggio, così bello da baciare.
Erano il mio castello.
Il suo sorriso, luminoso come il più bello degli astri.
Era il mio Sole.
I suoi occhi, onice nera e fuoco rosso.
Erano le mie lune.
Mi avvicinai, senza accorgermi di camminare, con lo sguardo perso nel suo viso perplesso. Alzai le braccia, cingendogli il collo, e posai le mie labbra sulle sue.
La sua bocca, morbida e carnosa come un frutto maturo, era tutto quello che mi serviva.
Lo baciai e basta, le parole non servivano. Mi strinse a se, ignorò le lacrime che silenziose come ombre luccicanti mi rigavano il viso, e mi baciò più forte.
Mi sciolsi e per qualche secondo non fummo vicini alla fine, ma all'inizio.
Non prossimi all'addio, ma al buongiorno.
Non immersi nel dolore, ma felici di poter stare assieme.
Durò pochi secondi, ma bastarono.
Sentii il cuore ricomporsi, rigenerarsi, come spalmato di un balsamo magico e potentissimo. Tornò a battere, tornò ad essere felice, tornò ad essere innamorato.
Il cervello però vinceva sempre questo tipo di lotte e rimise i pezzi di cuore al loro posto, ovvero in ordine sparso e disordinato nel mio petto, convincendolo a fermarsi e a piantarla di peggiorare la propria situazione, già critica.
L’encefalo è l'infermiera del nostro cuore, malato inguaribile e perennemente convinto di essere invincibile. Povero cuore.
Era dura fingere, ma rimisi la mia maschera spensierata e iniziai la recita quotidiana.
Un sorriso in superficie nasconde i segni di ogni cicatrice.
«Perfetto! Hai deciso dove andremo, oppure sarà una fuga allo sbaraglio?» dissi allegra.
Teatro. Ecco qual’era la mia strada. Il teatro. Avevo sbagliato tutto nella vita.
«Uhm… Buona la seconda direi, non fa molta differenza dove andremo, mi basta allontanarmi da quegli avvoltoi. Da non credere!»
«Benvenuto nel XXI secolo!»
Mi scostai dal pirata ed andai a cambiarmi. Era gennaio, non si poteva uscire in moto senza svariati strati di vestiti pesanti. O meglio, le persone normali non potevano, Ace indossava e avrebbe indossato solamente jeans e felpa: i vantaggi di essere una stufa antropomorfa.
Una volta infilata la tuta e tutto l’armamentario antigelo scesi in garage, salii sulla moto già accesa e mi strinsi ad Ace per un secondo, prima di infilare il casco integrale e dare l’OK alla ragazza che avrebbe finto di essere me.
Era una questione di secondi riuscire a svignarcela, avremmo potuto fallire nonostante l’impegno di tutte le guardie.
La motocicletta tremò quando Ace diede gas, rombando a tutto spiano.
La saracinesca si alzò e noi volammo verso il cancello, apparentemente vuoto, fatta eccezione per la guardia che teneva aperto il lato destro.
Ringraziai con la mano e feci il dito medio ai fotografi che urlando insulti ed annaspando tentavano di raggiungerci dopo essere caduti nell’inganno.
Se dovevo finire sui giornali, tanto valeva farlo per qualcosa di valido.
Slittammo veloci tra le stradine e le curve che ormai sapevamo a memoria, senza una meta precisa, per quanto ne sapevo.
Quasi mi addormentai durante il tragitto, ma visto che morire per un colpo di sonno in moto non era tra le mie ambizioni maggiori, mi sforzai di restare sveglia. Non volevo di certo finire in una puntata di 1000 modi per morire! Mi piaceva guardare DMAX, non esserne protagonista.
Ace si fermò davanti ad una casetta tutta rivestita di mattoni di pietra, circondata da un piccolo muretto di mattoni e svoltò nel vialetto.
Non avevo idea di dove fossimo, i pochi minuti in cui avevo chiuso gli occhi mi avevano fatto perdere totalmente la cognizione spaziotemporale. In quelle campagne era un attimo perdersi, ed io mi ero persa.
Scendendo dalla moto mi accorsi che la “casetta” era solo la facciata di un immenso complesso, probabilmente una vecchia casa patronale ristrutturata ed adibita a… Boh. Ancora non lo sapevo.
«Ace… Dove siamo?» chiesi dubbiosa.
«Avevamo bisogno di staccare un po’. Ho prenotato una camera in questo hotel termale. Diavolo, non ne potevo più di essere braccato come un animale da quegli sciacalli.» mi rispose tranquillo, ma con un velo di rabbia. I paparazzi e la partenza lo infastidivano più di quanto desse mai a vedere.
«Senti capo, posso lasciare qui la moto?» Gridò poi ad un ometto, vagamente simile a Gollum, che stava venendo ad accoglierci.
«Sarebbe meglio portarla nel garage Signore, se qualcuno la vedesse potrebbero capire che siete qui! Potremmo garantirvi più tranquillità nascondendola.» Gracchiò. Era chiaramente un incrocio tra Gollum e il bidello di Hogwarts. Non avevo dubbi.
Ace annuì e spinse il veicolo dove gli veniva indicato, mentre io litigavo con il cinturino del casco ed iniziavo a sudare nella gabbia di lana e poliestere che indossavo, fantasticando sulle origini mitologiche del custode/portinaio/padrone/quello che era.

La camera era enorme, lussuosa e puzzava di salasso economico.
Non chiesi quanto era costata, sarebbe stata una domanda vana e lasciata senza risposta.
Sul letto erano ripiegate accuratamente delle vestaglie bianche, quasi abbaglianti sul porpora delle lenzuola, e a terra erano poggiate delle pantofole in morbidissima gomma piuma. Tutto firmato con un logo d’orato che sicuramente era il nome dell’albergo a diciotto stelle.
Non pensavo nemmeno che esistesse un posto del genere nelle vicinanze di casa.
«Cosa dovremmo fare esattamente in questo posto?» Domandai, circospetta.
Detestavo farmi massaggiare da sconosciuti e odiavo le docce fredde. La sauna mi faceva svenire, a causa della mia pressione ballerina, ed odiavo rinchiudermi in luoghi piccoli e chiusi. Inoltre non avevo la benché minima intenzione di farmi spalmare addosso melma verde o di farmi imbalsamare con della pellicola alimentare di dubbia provenienza.
Ero pretenziosa? Forse.
Rompicoglioni? Hey, sono io, certo che sì!
Ace lo sapeva e rise.
«Stai tranquilla, ho prenotato solo per l’idromassaggio e la piscina con l’acqua calda. Vai a dare un’occhiata al bagno.» rispose con sguardo furbo.
Quando un pirata alludeva, c’era solamente da preoccuparsi ed il mio sopracciglio destro, che si era repentinamente sollevato, lo sapeva bene.
Nonostante i dubbi mi mossi verso la porta di legno scuro, che presumevo essere l’accesso al bagno, aspettandomi quasi che un esercito di clown uscisse festoso da un momento all’altro.
Odiavo i clown. Li trovavo spaventosi, terrificanti, inutili e soprattutto per nulla divertenti. Erano causa del 90% dei traumi infantili a mio modesto parere. Inoltre non ero minimamente dubbiosa verso le sorprese di Ace. Tantomeno risultavo paranoica. Chi? Io? Per favore.
Entrai circospetta, pronta a scattare all’indietro per qualche stupido scherzo, solo per confermare il mio non essere paranoica. Quando ebbi una panoramica della stanza che mi ritrovavo davanti, impiegai troppo tempo per mettere insieme i frammenti di immagine che i miei occhi fornivano al cervello.
A volte fatichiamo a mettere a fuoco quello che ci sconvolge, sia in positivo che in negativo. La nostra mente si protegge dagli shock spezzettando le immagini e richiedendoci un grande sforzo per assemblarle. In poche parole era un Ponzio Pilato moderno: “Io me ne lavo le mani. Ti avevo avvisata che ci saresti rimasta secca con sta percezione. Fanculizzati.”
Simpatica la nostra vocina interiore, no? Di un sarcasmo sconvolgente.
I colori tenui e caldi si riordinarono in forme dritte e moderne, come tessere di un puzzle.
Il lavandino di pietra scolpita, alto e fondo, poggiato su una mensola di legno scuro e lucido, con un mosaico di colori autunnali a fare da sfondo.
La vasca, gigantesca, a cui si accedeva attraverso una breve scala di legno e ardesia, ribolliva silenziosa e fumante. I poggia teste in pelle nera, che trasmettevano comodità solo guardandoli, e la doccia di cristallo trasparente, che regalava un angolo di privacy grazie ad un muretto, sempre di ardesia.
L’aria era calda e densa, profumava di quiete e di rose, un aroma delicato, non di quelli che causavano emicrania e giramenti di testa.
Era una meraviglia, il tutto illuminato da svariati punti luce soffusi e dagli abbaini velati da drappi antracite, che richiamavano il divanetto su cui erano arrotolati un quantitativo inimmaginabile di asciugamani, accompagnati da boccette e flaconi di ogni forma e dimensione.
Chiusi la bocca, combattendo contro lo stupore e la forza di gravità che aveva abbassato in modo imbarazzante la mia mascella.
Le braccia del mio pirata mi cinsero la vita, delicate, come le sue labbra appoggiate sul mio orecchio.
«Ti piace?» mormorò.
Io fui capace solamente di annuire, come un’idiota.
Lasciare me senza parole era una cosa degna di riconoscimenti ufficiale, davvero. Logorroica e sempre con la risposta pronta come ero, riuscire a farmi stare zitta senza coercizione risultava ammirevole.
Ace ridacchiò, girandomi verso di lui e dandomi un bacio in fronte.
«Finalmente riesco a farti una sorpresa! Non ci speravo più ormai!»
Il tempo scivola come un fiume, senza freni e intangibile. La cosa orribile era il nostro non poter fare nulla. Non possiamo sapere nulla del nostro futuro, continuiamo a perdere treni e programmare la nostra vita, ma per cosa? Domani potrebbe finire il mondo ed i nostri progetti sarebbero andati in fumo. Speranze spezzate. Cumuli di sogni infranti.
Sembrava impossibile che dovesse finire tutto, ma quella che parlava era già nostalgia in me. Avevo detto addio ad Ace nel momento in cui mi ero lasciata andare all’amore, ma ora me ne pentivo.
Non potevo vivere altri attimi del genere, fingendo.
Non potevo lasciarlo andare.
L’essere umano viene definito per natura egoista, perché dovevo essere l’eccezione?
«Resta con me.» dissi tutto d’un fiato.
Mesi di silenzio. Milioni di pensieri mai detti. Preoccupazioni mai affrontate. Paure mai rivelate. Speranze sepolte. Tutto in tre misere parole. Tutto in una minuscola frase, in un sussurro.
L’avevo detto davvero, l’avevo detto davvero.
Mi portai le mani alla bocca, come per ricacciare indietro quelle parole fuggite. Invano, perché ormai avevano raggiunto le orecchie di Ace, oscurandone lo sguardo.
«Selene…» Mi chiamò, quasi implorante.
Nome intero e tono di voce strascicato, era un modo come un altro per dire “sai benissimo che non si può fare!”.
Era il tono con cui i genitori ti dicono che un pony in giardino non ci può stare, che non esistono i tappeti volanti e che puoi passare pomeriggi interi a provarci, ma mai riuscirai a fare un’onda energetica.
«Non dire nulla. Stai zitto. Fingi che non abbia detto niente. Mi faccio una doccia e poi sarò a posto.» Dichiarai, col gelo nella voce e la gola dolente.
Non avrei pianto. Non davanti a lui maledizione.
Non mi sarei scusata. Non per aver usato l’ultima carta a mia disposizione.
Mi voltai, decisa ad andare a prendere la mia vestaglia e le pantofole, ignorando quello che era appena accaduto e facendo vivere serenamente ad Ace quella piccola vacanza inaspettata.
Mi lasciò passare, senza trattenermi e senza dire nulla. Fece lo stesso quando ripassai davanti a lui con il corredo da bagno, che poggiai sul divanetto.
Uscì chiudendo la porta senza dire una parola sulle lacrime che mi rigavano il viso.
Non stavo singhiozzando. Ero silenziosa quanto meno. Un punto per me.
Mi spogliai ed entrai in quella grotta di cristallo, accendendo il getto al massimo e soffocando gli spasmi della gola con l’acqua.
Lavai via le lacrime ed iniziai a ricomporre la maschera di cera che sorrideva sul mio volto, strato dopo strato.
Ero brava, isolavo tutto ciò che mi rendeva triste tra alte mura di metallo, in modo che non potesse uscire, e annegavo con pensieri felici il mio cervello, in modo che non si accorgesse che il cuore stava morendo.
Ero stata egoista a chiedergli di restare, dopo tutto lui in questo mondo non aveva nulla. Che avrebbe fatto restando qui? Il cassiere all’Ipercoop? L’installatore di stufe a pellet? Lo spazzacamino?
Decisamente non era il suo ideale di vita.
Non avevo diritto di chiedergli di restare, ma non avrei potuto vivere col rimpianto di non averlo fatto.
Non sentii la porta del bagno aprirsi, capii che Ace era dietro di me quando il suono dell’acqua cambiò, perché il getto colpì il suo corpo.
Sospirai ad occhi chiusi, lasciando cadere la testa all’indietro, dove trovò il petto caldo del pirata. I nostri corpi ormai erano complementari, si completavano ed adattavano perfettamente l’un l’altro, senza bisogno di mille manovre per trovare la comodità necessaria.
Mi baciò il collo, lentamente, graffiandomi con il filo di barba che era riuscito a spuntare in una nottata, e reagii a lui in modo automatico, con la pelle d’oca e piccoli brividi ovunque.
Sorrisi, per davvero però, senza maschera.
Mi lasciai andare alle sensazioni, lasciai spegnere i pensieri e il sistema nervoso periferico prese il sopravvento.
Percepivo le mani bollenti di Ace scorrere sul mio corpo, lente in modo snervante, ma allo stesso tempo forti e maledettamente eccitanti.
I rivoli d’acqua si scontravano con le sue mani, rigando il mio corpo di lucide scie.
Mi girai e lo baciai, graffiandogli i fianchi e il petto, mordendogli il mento ed il collo, leccando le labbra e carezzando la sua lingua.
Una nuvola di vapore si alzò dalla sua schiena, quando le fiamme crepitarono e il getto della doccia le spense. Sorrisi, soddisfatta della reazione che riuscivo a provocare al mio fiammifero.
Fuoco e acqua, gli opposti finalmente assieme.
Non avremmo fatto sesso, non lì almeno, per esperienza personale avevo capito che quando leggiamo o sentiamo raccontare di epocali rapporti sessuali in doccia, al 99% erano menzogne.
Fare sesso in doccia era scomodo, si scivolava, si rischiava di rompere il vetro o di annegare, se l’inclinazione del getto si spostava nel momento sbagliato.
Il box doccia funzionava benissimo per i preliminari maschili, ma già per quelli femminili diventava scomodo.
Spinsi il pirata contro alla parete di pietra fredda, facendolo sussultare, per poi scendere lentamente con la lingua a delineare ogni muscolo di quel suo petto perfettamente glabro.
Detestavo i peli su me stessa, non capivo perché avrei dovuto trovarli eccitanti in un uomo. Restano peli. Fanno schifo e basta. Tutte dicevano che la barba e il petto villoso rendevano l’uomo attraente. Bah. De gustibus non disputandum est.
Quando mi inginocchiai davanti a lui, aveva già la testa reclinata all’indietro, pronto per la promessa che i miei baci in discesa gli avevano fatto.
Risi, prima di iniziare a fargli contrarre i pugni per non gridare.
In momenti simili avevo tra le mani (o tra le labbra, come preferite) tutta la volontà del pirata. Lui non ragionava, quasi non respirava, in quei momenti era semplicemente mio. Totalmente in balia di ogni mio gesto.
Tra i fumi di vapore sbirciavo le sue espressioni, i suoi sforzi per non fare troppo rumore e non dimenarsi, e mi piaceva da morire. Avevo il controllo totale, e se in quel momento gli avessi chiesto di vestirsi da unicorno rosa lui l’avrebbe fatto, pur di farmi continuare.
Era una consapevolezza piacevole.
Però, non dovevo mai dimenticare che tipo di uomo avevo di fronte, perché il momento più erotico del mondo può essere spezzato dall’idiozia maschile. Ed io avevo davanti un uomo stramaledettamente idiota.
Quando mi risollevai, lo trovai con un sorriso sornione e lo sguardo perso, che poi si riempì di vita e irruppe in una risata.
Lo guardai perplessa, con l’acqua che gli gocciolava addosso era difficile guardarlo solo in viso, ma fui forte e ci riuscii.
«Non ti arrabbiare Sely, ho pensato una cosa scema…» disse, ancora ridendo, con gli occhi luccicanti.
Non avevo dubbi che sarebbe stata una cosa più che scema, ma aveva il classico sguardo da “ti prego dimmi che te lo posso dire”, così gli feci segno di parlare.
Me ne pentii? Diamine sì.
«Ti ricordi i cartoni dei Pokémon? Ecco, ho pensat-»
«No, cazzo stai zitto!» tentai, invano.
«Idropompa!»
«Coglione.» urlai, dandogli uno spintone mentre rideva senza freni.
Uscii dal box doccia e afferrai l’accappatoio, combattuta tra l’arrabbiarmi ed il ridere a crepapelle. Concentrata ad evitare di scivolare rovinosamente sul pavimento bagnato da me medesima.
Optai per una dignitosa poker face da finta offesa. O forse lo ero davvero?
Gli sbalzi ormonali e, conseguentemente, emotivi che mi sconvolgevano erano imprevedibili. Talvolta, capitava che nemmeno io riuscissi a capire perché mi arrabbiavo o perché scoppiavo in lacrime apparentemente senza motivo.
Noi donne a volte siamo veramente impossibili da comprendere. Facciamo fatica a capirci noi stesse, come possiamo pretendere che ci capiscano gli uomini? Mediamente siamo fortunate se troviamo quello che ci sopporta, che si adegua ai nostri cambiamenti repentini e alle nostre paranoie.
Quando troviamo un uomo che riesce ad asciugarci le lacrime e a disegnarci un sorriso, vale la pena tenerselo stretto. Qualsiasi cosa il nostro corpo faccia per farlo allontanare.
Capita di arrabbiarsi con lui in maniera furente, senza spiragli di pace all’orizzonte, ma poi quando la nebbia dell’ira si dirada, capiamo che non era accaduto nulla di tanto grave, nulla che meritasse una reazione tanto spropositata. Ecco, queste sono le volte in cui ci vergogniamo quasi a chiedere scusa, ad ammettere di essere saltuariamente delle pazze isteriche psicolabili, con tendenze sociopatiche e omicide.
Donne. Che mondo contorto.
Beh, forse è questo il complimento più bello che può farvi un uomo, no?
“Sei contorta”.
Noi ci offendiamo magari, o stiamo ore e ore, giorni e giorni a rimuginare su cosa intendevano dire, su cosa fare, su come rispondere, sul perché pagare il tasso di interesse sui prestiti bancari, sul perché un attore come Banderas si sia ridotto ad ingrassare con una gallina in un mulino.
No ok, forse non proprio tutto questo, però all’incirca.
Non capiamo che è un complimento, perché vogliono solo dirci che sanno che non ci capiranno mai, che non riusciranno mai a comprenderci, che siamo un mondo a parte e che ci vogliono esattamente così come siamo.
Ace mi aveva detto che era contento che io fossi tanto contorta, perché avrebbe significato che mai sarei stata prevedibile e mai sarei stata noiosa o l’avrei stancato.
È una promessa d’amore, forse.
Nascosta e velata, ma dopo tutto anche loro si devono adeguare a noi, poveri uomini.
«Hey…» tentennò Ace alle mie spalle, incerto su come trattarmi. Doveva scherzare e far finta di nulla perché non me l’ero presa, oppure doveva scusarsi perché mi ero offesa sul serio?
Poveri uomini. Povero il mio pirata.
«Rilassati, Ace Testa di Cazzo, non sono arrabbiata!» ridacchiai.
Mi abbracciò da dietro, ancora nudo, ancora bagnato, ancora stramaledettamente sexy.
Sospirai rilassando le spalle e lasciandomi baciare la guancia.
Le gocce fredde che scendevano dai suoi capelli mi bagnavano il viso, scorrendo sul collo e sostando sulle clavicole, facendomi rabbrividire.
Il suo respiro caldo bilanciava i brividi, unendo quelli di piacere a quelli per il freddo, in una combinazione sconvolgente.
Al diavolo tutto, avremmo fatto sesso sul piano di legno del lavandino, nella vasca idromassaggio, tanto per esaurire i cliché, e sul divanetto, sparpagliando per il pavimento quella miriade di inutili boccette.
Saremmo stati bene.
Saremmo stati noi.
Saremmo stati insieme, ancora per un poco. Ancora una volta. Ancora innamorati.
Il “per sempre” non esisteva. Ormai l’avevo accettato.
Mi sarei goduta al massimo il nostro presente allora, senza pensare all’inesistente futuro.
Solo al presente.
Solo a oggi.
Solo a ora.
Solo ad Ace.






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Hem... Ciao....
OkOk, scusate. Non ho aggiornato di nuovo per un sacco di tempo, mi dispiace davvero! Mi si è ribaltata la vita ma ora ho trovato il modo e l'ispirazione giusta quindi questa storia travagliata avrà fine, ed in tempi utili!
non chiedetemi quanti capitoli, non lo so, a volte scrivendo ne esce uno in più, a volte quelli che pensavo sarebbero stati due si uniscono in uno solo, ma manca poco!
Grazie, anzi: GRAZIE!
Sì, a tutti voi che mi avete recensite, a quelli che da zero hanno iniziato la storia di recente, a quelli che mi seguono da sempre, a chi mi ha scritto in privato, motivandomi ad andare avanti, a chi ha recensito senza rancore, a chi mi ha minacciata di morte e a chi ogni tanto mi mandava un messaggio con allusioni alla storia!
Grazie a tutti, e anche se non lo leggerà mai grazie anche al mio pirata personale, anche se più che ad Ace somiglia ad un incrocio tra Franky e Trafalgar Law (se vogliamo onepiecizzare, se mi concedete una narutizzazione è uguale a Suigetsu :3)!
Quindi boh, che dirvi?
Grazie per essere sempre qui a leggermi! Per le recensioni (non sono mai brutte o sceme, fanno sempre e solo piacere!) e per sostenermi sempre!
Al prossimo capitolo!!!

Ciaooo! :3


Immagini e personaggi non sono di mia proprietà e non sono a scopo di lucro

   
 
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