Dopo l’ultima pagina
Il viso di mia madre si storce dubbioso davanti al responso ambiguo
del termometro. “Trentasette e uno. Potresti anche andare a scuola, Will”.
Ma dov’è quella mamma premurosa e protettiva di una volta? Quando
si parla di responsabilità, mi tratta sempre più come un’adulta.
Quando si parla delle mie libertà, invece, devo sempre lottare con
le unghie e con i denti.
“Mamma, non è giornata”, dico con viso sofferente, avvolgendomi
di più nelle mie calde coperte. “E i tremiti alle ginocchia?”. Le
scuoto leggermente. “E il cerchio alla testa?”. Calo le palpebre a mezz’asta
sugli occhi sofferenti, mentre mi premo una tempia.
Mi guarda scettica. Adocchia il libro di fisica abbandonato aperto
sul pavimento, ai piedi del letto, e lo solleva con due dita per un angolo
della copertina, come un pesce morto e marcio.”E questo?”, chiede, inquisitoria.
Mi prendo la testa fra le mani. “Se mi interrogasse in fisica, il massimo
che saprei dirgli è il peso specifico del piombo fuso che mi sento
in testa! Si sta un attimo, a rovinarsi la media del quadrimestre!”.
Il suo sorriso è sempre più scettico. “Eccolo, il virus!”.
Mi sprofondo nelle coperte. “Proprio non mi sento di uscire. E se prendo
vento, la febbre…”.
Lei guarda, fuori dalla finestra, le cime immobili degli alberi. “Non
c’è vento, oggi. Riprova domani!”.
Come può essere così insensibile? “Ma se tu dovessi andare
a scuola in bicicletta, come faccio io, non prenderesti sottogamba un trentasette
e uno!”.
Mia mamma si arrende. “E va bene, Will”, esala. “Resta pure a
casa!”.
“Grazie, mamma”, rispondo gioiosa, poi riguadagno il mio contegno malaticcio.
Lei osserva il libro di fisica, appoggiato a terra ai suoi piedi. Il
suo sguardo si volge verso la scrivania, ingombra di quaderni e cornicette
di foto, per poi muoversi sulle mensole popolate di rane di peluche, ed
infine spazia sul pavimento cosparso di vestiti e calzini.
Ho già capito che questo riposo avrà il suo prezzo.
“Will, questa camera è un disastro. Questa mattina troverai
il tempo per riordinarla che ti è mancato negli ultimi quindici
giorni”.
“Ci proverò”, rispondo, mentre tutti i miei sintomi si riacutizzano.
“Volere è potere, Will. Non sei più una bambina!”.
Ecco. Cosa vi avevo detto?
Una mezz’ora dopo, quando il soffitto della mia camera non ha ormai
più misteri per me, mi tiro a sedere sul letto: sarà il caso
di cominciare l’opera.
In dieci minuti, calzini e indumenti hanno trovato la loro sepoltura
nella cesta della biancheria, le rane di peluche sono di vedetta ai loro
posti usuali, e sono pronta per affrontare la parte più impegnativa:
carte e libri.
Finora la soluzione al disordine della scrivania ha avuto una cristallina
semplicità: spostare le carte dai ripiani ai cassetti.
Purtroppo, già da qualche tempo ho dovuto constatare che la
cassettiera tracima.
Mi immagino già: “Mamma, non ho potuto riordinare il tavolo
perché non c’era più posto nei cassetti”. E lei: “Will, speravo
che fosse finita l’età in cui si cercano scuse per ogni cosa, e
che fosse iniziata quella in cui si trovano le soluzioni alle piccole difficoltà”.
Meglio risparmiarsela. Dovrò riordinare i cassetti, separando
il grano dall’olio… dal loglio… da quella roba lì, insomma.
Cassetto uno. Sotto uno strato di fotocopie di scuola e tre notes esauriti,
ci sono alcune lettere della Federazione di Nuoto. Sorrido, riconoscendo
una missiva di congratulazioni per una medaglia d’oro. E’ quella che fa
bella mostra di sé sul muro, accanto alla foto ricordo che riguardo
ogni sera.
Alle lettere fa seguito un altro strato di notes esauriti e stropicciati,
intervallati da cartoline e bigliettini lasciati tra le copertine come
fossili di ere geologiche ormai dimenticate.
Li sfoglio. Appunti di scuola…Via! Ah, no, qui c’è un numero
telefonico di paternità incognita… qui un disegnino con dedica dell’amica
Hay Lin… Mi sa che è meglio tenerli tutti.
E questo… un diario! Il mio ultimo diario, rosa e bianco, con l’adesivo
di un ranocchio che impreziosisce la copertina!
Lo sfoglio, mentre il cuore comincia a battermi più velocemente.
Non lo aprivo da tre anni. Anzi, ad essere sincera, non l’ho più
riaperto dopo avere scritto l’ultima pagina.
Forse dovrò affrontare quel passato. Forse dovrei cominciare
a farlo adesso.
Non ci sono segreti terribili in questo quaderno. Queste pagine sono
state scritte da una ragazzina di dodici anni quando era ancora felice.
Quello che pesa è ciò che è successo dopo scritta
l’ultima.
Con coraggio, lo apro a caso, mentre qualcosa mi brucia dentro, e ne
scorro velocemente dei passi.
Per un attimo, mi viene da sorridere con tenerezza quando leggo il
racconto di un pomeriggio felice di tre anni fa, passato giocando a monopoli
a casa della mia amica Lara. C’erano anche Jenny e Louise. Anzi, più
che sorridere, mi viene da piangere, poiché, in seguito, i nomi
di queste ragazze hanno voluto dire tutt’altro, per me.
Le cose erano partite così bene, quando iniziai la prima media
a Fadden Hills…
Sfoglio qualche altra pagina.
Ecco, qui parla della professoressa Pibbleton. La nostra giovane prof
di letteratura. Racconta di una volta che mi prese in disparte a parlare,
come se fossimo amiche. Mi sentii grande. Lei mi piacque subito, ed io
piacqui a lei.
No, ora non posso affermare con sicurezza di esserle piaciuta. Allora
sentivo che era così, ma solo di recente ho saputo che le ero stata
raccomandata da Kadma, la ex-guardiana che vegliava su di me. Quando quella
vecchia odiosa me l’ha detto, ha rovinato il ricordo di una delle poche
persone su cui ho contato fino alla fine della mia vita a Fadden Hills.
Prima avevo sempre creduto che la Pibbleton mi avesse scelta per qualche
affinità.
Giro qualche altra pagina.
Qui racconta di una domenica pomeriggio con mia mamma. Mio padre non
c’era. Mancava spesso da casa.
“Tuo papà lavora tanto”, mi diceva sempre lei, abbracciandomi
e carezzandomi, “per guadagnare abbastanza da comprarci una casa da sogno”.
Parlavamo spesso di questa casa e delle ore felici che avremmo passato
tutti e tre assieme, alla fine di quello sforzo.
Quella domenica pomeriggio mi ero procurata l’ennesima rivista di architettura,
con foto e prospetti di case dei migliori architetti. Le guardavamo, distese
sul lettone, e io dicevo cose come: “Ecco, il pavimento della cucina potrebbe
essere come questo”, o “Le finestre a giorno così ci darebbero
tanta luce…”.
Buttai giù qualche schizzo un po’ tremulo su un blocco a quadretti.
Lei li osservò con un sorriso un po’ amaro, e mi accarezzò
senza guardarmi negli occhi.
Non era la prima volta che notavo questo, ma allora non sapevo spiegarmelo.
Avevamo passato tante sere, tante domeniche da sole, e questo argomento
era uno dei nostri preferiti. Però, pian piano, avevo cominciato
a sentire come se ci fossero incrinature nella voce di mia mamma. Mi guardava
poco negli occhi e mi accarezzava troppo, come se avessi bisogno di essere
consolata. Come se non credesse in ciò che raccontava.
Questa è l’ultima pagina del diario. Quella domenica notte cominciai
a capire.
Mi svegliai sentendo mio padre che rientrava. Non mi riaddormentai
subito: mi aspettavo che entrasse quatto quatto, mi desse un bacino sulla
fronte e mi rassettasse delicatamente le lenzuola.
Invece sentii che lui e mamma discutevano. Non riuscii a distinguere
le parole, solo i toni. Lei era astiosa, irata. Lui cercava di essere conciliante.
Da quella volta, feci più fatica a prendere sonno, così
mi accorsi che discussero in quel modo anche altre volte.
Una notte, mi sembrò che mia madre fosse molto arrabbiata. Ebbi
paura che lo avrebbe scacciato di casa. Quando non ne potei più,
piombai nella loro camera, piangendo e gridando ‘Basta!’.
Lui sembrava calmo, e la rimproverò. ‘Susan, lo vedi che così
fai piangere Will?’.
Lei lo squadrò torva, senza più rispondere.
Quello sguardo d’odio per lui mi restò impresso, e fu il primo
vero sfregio sul mondo della mia infanzia. Allora mi risentii con mia mamma.
Ho impiegato anni per capire quanto quell’odio fosse meritato.
Non li sentii più litigare, la sera, né la mattina: si
rispondevano educati e glaciali, e qualche volta mia madre si girava per
celarmi l’astio per lui che aveva negli occhi.
Dopo quella notte, lei non provò più a consolarmi con
i suoi racconti. Pian piano, capii che la casa nuova e la famiglia felice
stavano seguendo le altre favole della mia infanzia verso il loro limbo.
Andò avanti così per mesi, fino all’epilogo. Quella sera
li sentii litigare furiosamente. Corsi alla loro camera, ed ascoltai da
oltre la porta chiusa, senza il coraggio di entrare, né di fuggire
via. Mia madre lo stava accusando di avere venduto la casa dei genitori
di lei. Di avere falsificato firme e documenti, corrompendo un notaio.
Mio padre replicava gelido alle sue accuse, sempre con le stesse parole:
la vendita è stata regolare. Alla fine, quando lei gli chiese cosa
avesse fatto del ricavato, lui rispose che lo aveva impiegato anche per
la loro figlia. Non avrebbe mica voluto, lei, che qualcuno potesse nuocere
alla piccola Will?
Non capii la risposta di mia madre. La sibilò lentamente, ma
credo che ogni singola parola pesasse come un macigno. Dopo, ci fu solo
un lungo silenzio.
Mio padre uscì dalla camera. Si fermò. Mi guardò,
sorpreso. Capì che avevo sentito tutto. Ad occhi bassi, mi fece
un’ultima carezza sui capelli, poi prese la porta e sparì.
Mia madre mi venne incontro. Mi abbracciò convulsamente, senza
parlare. Dormimmo strette l’una all’altra, un sonno popolato da incubi,
senza dire una parola fino al mattino.
Il periodo che seguì fu difficilissimo, per me. Mi appoggiai
alle mie compagne di classe. All’inizio cercarono di consolarmi, a modo
loro. Mi invitavano a ogni festa, cena, gita di gruppo… ma non era questo
che mi serviva. Provai ad inserirmi, ma era uno sforzo. Mi sembravano così
lontane quando pensavano a divertirsi e farmi divertire… Dopo un po’, mettevo
il muso, o prendevo in disparte una di loro e mi sfogavo per tutto il resto
della serata.
A scuola, la prof Pibbleton fu meravigliosa, o almeno la sentii così.
Sopportò per mezze ore i miei sfoghi. Tornò a spiegarmi diverse
parti delle lezioni che non riuscivo più a seguire bene, e più
di una volta chiuse gli occhi quando mi presentai impreparata. Anche altri
insegnanti furono indulgenti con me, in quel periodo. Col senno di poi,
si rivelò un errore.
Come tutte le cose, anche la scuola finì, quell’anno. La prima
media.
All’inizio delle vacanze cercai un po’ le mie compagne. Loro, per contro,
non mi cercarono mai di loro iniziativa. Chi in vacanza, chi con altri
impegni, ci vedemmo pochissimo, e quasi sempre per caso.
Mio padre non tornò mai di persona, però telefonò
più di una volta, chiedendo anche di me. Fu quasi sempre mia madre
ad intercettare le telefonate ed a negarmi, e presto fece dirottare tutte
le chiamate in arrivo sul suo cellulare.
Quantomeno, io avevo la conferma che il mio papà mi voleva ancora
bene e, per quanto pesanti fossero le sue colpe, ciò mi consolò
un po’.
Fu un’estate pesante e solitaria, ma alla fine la ferita si stava rimarginando.
Ero riuscita un po’ a farmi una ragione della separazione dei miei genitori..
All’inizio della seconda media, volevo ricominciare a vivere. Il
primo giorno di scuola, quando vidi da lontano le mie compagne, ero felice,
e corsi loro incontro. Volevo parlare di vacanze, di mille sciocchezze…
ma dopo le prime parole, rimasi agghiacciata.
Non solo quell’atteggiamento sfuggente dell’estate prima si era accentuato
fino ad essere dolorosamente evidente, ma lessi nitidamente i loro pensieri,
come se ciascuna di loro parlasse tra sé. Parole di imbarazzo, insofferenza,
quasi di rancore.
Fu orribile. Questo colpo mi arrivò inaspettato, senza niente
che me lo lasciasse presagire.
Quella volta piansi, urlai, senza che le altre capissero il perché.
Si disse che ero scoppiata, ed era vero. Ma non per la separazione dei
miei, come pensavano tutti.
Anche se non mi capitò più di percepire i pensieri, il
resto dell’anno scolastico fu un lento incubo. Le mie vecchie amiche, imbarazzate,
mi evitavano apertamente.
Su insistenza della Pibbleton, fui visitata da una psicologa.
Era un essere ipocrita e presuntuoso. Si presentò con parole
suadenti e comprensive, ma mirava solo a classificarmi nei suoi schemi
precostituiti.
All’inizio mi fidai di lei, le dissi tutto. Fui così sciocca
da raccontarle persino di aver sentito i pensieri delle mie compagne.
Lei mi fece parlare a lungo, annuendo e facendo domande pertinenti,
come se mi credesse.
Poi, un giorno, trovai tra le carte di mia madre una sua relazione
scritta in linguaggio criptico. Rileggendola molte volte, capii solo che
mi considerava una mezza pazza depressa e allucinata. Non volli più
rivederla, naturalmente.
Comunque, mi prescrisse delle pilloline. Prozac. Masticai amaro, ma
devo ammettere che mi aiutarono a sopportare l‘isolamento nei nove mesi
di scuola successivi.
A distanza di tempo, pensare alle mie vecchie amiche mi fa ancora male.
I loro visi, li ricordavo sempre come erano quel giorno di settembre, con
un sorrisino falso che spariva non appena credevano che non le guardassi
più, ed i loro pensieri come pugni in faccia a tradimento.
Questo diario, per un attimo, me le ha fatte rivedere com’erano prima
di quell’incubo.
Era meschina, Lara? Lo erano Louise, Jenny e le altre? L’ho pensato
tante volte, in passato.
Eppure ora, tentando di essere onesta, non posso crederlo. All’inizio
hanno tentato di aiutarmi, anche se in modo sbagliato.
E io, cos’avrei fatto al posto loro? Non so rispondermi.
Di certo, non sospettavo che i miei sfoghi potessero pesare loro tanto,
o che l’indulgenza di alcuni insegnanti potesse tirarmi addosso un tale
risentimento.
O sono io che non l’ho voluto capire subito? Ero giovane e ingenua.
Come si idealizza l’amore, io idealizzavo anche l’amicizia. Mi sembrava
scontato che delle vere amiche dovessero ascoltare con benevolenza le mie
tristezze sempre diverse e sempre uguali.
Io avrei fatto così per una vera amica, mi dicevo.
Pensavo che si fosse amici per sempre.
Per sempre, mai… forse queste due parole sono gli ingredienti ricorrenti
di troppi dolci avvelenati: illusioni, miti, frasi altisonanti e melodrammatiche
che separano il nostro mondo ideale da quello vero. Forse crescendo si
capisce dove finiscono i bei miti, e cosa ci si può davvero aspettare
dagli altri.
Arrivai ad Heatherfield ad anno scolastico iniziato, dopo un’altra estate
passata a chiedermi cos’avevo di sbagliato io, e cosa il mondo.
Mi ero portata dietro tutti i miei fantasmi da Fadden Hills. Solitudine,
isolamento, sfiducia in me e negli altri.
Forse anche qui mi sarei trovata nello stesso modo. La realtà
spesso risponde alle nostre attese, soprattutto a quelle peggiori.
Qualcosa decise diversamente. Due giorni dopo il mio arrivo, la saggia
Yan Lin cambiò la mia vita e quelle di altre quattro compagne appena
conosciute, affidandoci una missione mai immaginata, e mettendoci davanti
ad un talismano che avevamo creduto solo un sogno.
Perché sono stata io la predestinata ad unire le Guardiane della
Muraglia? Perché il Cuore di Kandrakar è stato affidato ad
una ragazzina fragile come me? Tuttora non lo so.
E’ un paradosso: ho quattro care amiche con le quali condivido una
vita segreta, ma loro non sanno nulla di questo mio passato, e forse non
lo sapranno mai. Non rischierò di risvegliare questi fantasmi con
un racconto.
Apro la mano. Il Cuore di Kandrakar risponde alla mia evocazione, e
si libra sfolgorante sul mio palmo, inondandomi di luce rosata.
Grazie, Cuore. Tu mi hai cambiato la vita. Hai fatto di me una persona
nuova. Mi hai costretta a mettere in disparte le mie miserie, e tirare
fuori il meglio che avevo in me.
Mi hai unita a quattro amiche meravigliose con uno scopo comune, un
segreto comune, una storia comune che sono riusciti ad avere la meglio
sui nostri egoismi, le nostre tristezze, i nostri dubbi.
E grazie anche a te, vecchio diario, riemerso dal passato a ricordarmi
di giorni felici che erano stati dimenticati; tornato a insegnarmi che
il buio, così come ha avuto un inizio, può avere anche una
fine.
Note dell’autore
Ho scritto questo racconto per il concorso di “I diari degli eroi”,
con tema principale Segreti e confessioni, e tema secondario il diario.
Non mi dilungherò a spiegare l’ ovvia attinenza del racconto
con il tema del diario; per quanto riguarda il segreto, nel racconto ne
entrano almeno tre:
• uno è la vita segreta delle Guardiane della Muraglia, segreto
condiviso tra le cinque WITCH e quasi nessun altro;
• l’altro, il vero oggetto del racconto, è la storia triste
che, pur essendo di dominio pubblico per la madre di Will e per tutti quelli
che la hanno conosciuta prima del trasferimento ad Heatherfield, Will ha
rimosso, e mai confidato alle nuove amiche per paura di poter nuovamente
apparire vittimista;
• il terzo segreto, incautamente confidato alla psicologa, è
stato l’aver percepito i pensieri delle amiche.
Per chi conosce la saga di W.I.T.C.H., questo racconto si rifà
soprattutto ad una breve storia pubblicata sullo Speciale Un anno
prima, in cui Will appare inaspettatamente ed inspiegabilmente emarginata
dalle amiche di Fadden Hills,
I nomi della professoressa Pibbleton, di Lara, Louise e Jenny sono
stati estrapolati dallo speciale già citato.
E’ interessante notare che solo in quello speciale Will dà
prova di poter leggere i pensieri, potere che non viene mai più
ripreso in alcun altro numero, come se l’orribile delusione di scoprirsi
emarginata glielo avesse bloccato.
Secondariamente, questo racconto si rifà alla minisaga del
deludente ritorno di suo padre nei numeri 24, 25 e 26.
Ci sono anche riferimenti all’ incontro con Kadma nel n.19, e soprattutto
al leggendario n.1, in cui i pensieri e la mimica di Will appena arrivata
a Heatherfield dimostrano il suo carattere ed i suoi atteggiamenti introversi
e sfiduciati, prima della rivelazione di Yan Lin e della consegna
del Cuore di Kandrakar.
Ho estrapolato la parte centrale del racconto da un capitolo non ancora pubblicato della mia long-fiction Profezie dove, in un contesto del tutto diverso, Will racconta a Cornelia questa storia; la parte iniziale e finale, invece, sono state costruite ad hoc per inserire il tema del diario, del segreto e un finale adatto ad una storia autoconclusiva.
Una mia considerazione che ho preferito non inserire nel racconto
per non appesantirlo: Will smise di scrivere il diario per non essere costretta
ad ammettere con sé stessa, per iscritto, ciò che aveva già
intuito, cioè che la sua famiglia si stava sfaldando.
Questo fu un errore: il diario le avrebbe potuto fornire uno sfogo
alternativo per non pesare troppo sulle amiche, ed avrebbe potuto aiutarla
a rendersi consapevole per tempo di certi suoi atteggiamenti e dei loro
possibili effetti sulle altre persone.
Ringrazio di cuore Rowena e CDM per le loro correzioni e per i loro suggerimenti, anche se non sono stato in grado di applicarli per intero.
Un doveroso disclaimer: la serie W.I.T.C.H. ed i personaggi sono
proprietà della Disney, qui usati senza scopo di lucro e senza intenzione
di violare alcun copyright. La presente storia, invece, è di proprietà
del'autore MaxT, che se ne assume in pieno la responsabilità.