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Autore: Harleequinzel    17/10/2014    2 recensioni
Tokyo tuonò di nuovo, e da qualche parte oltremare chissà se l’Australia stava facendo lo stesso.
[Makoto/Rin/Haruka]
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Rin Matsuoka
Note: nessuna | Avvertimenti: Threesome, Triangolo
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.Linee parallele.
 
Quanto spazio c’era fra le cose che lo univano in Australia e le cose che lo univano in Giappone? Gli spazi di per sé erano una concezione così pragmatica della realtà che Rin si trovava spesso in difficoltà di fronte alla misurazione di distanze. Per lui era molto più semplice contare le cose in passi che in metri, perché era più facile, perché era più romantico – e, checché se ne volesse dire, aveva sempre sofferto e soffriva ancora di quella bruciante ammirazione per le cose che gli facevano tremare gambe e mani.
Makoto aveva avuto sempre un suo modo tacito di dimostrare di sapere della sua diffidenza per le distanze, e di saperle annullare totalmente.
Nel complesso, la foresta di pelle, ossa e voci che si formava fra loro e Haruka quando passavano del tempo insieme contava una lista di centimetri di spazi vuoti così brevi che gli estremi di uno sembravano fondersi con quelli di un altro. Erano sempre stati tre linee parallele così vicine da sembrarne una unica.
E poi le cose erano cambiate. Come se qualcuno avesse prestabilito il quadro completo della sua vita, la linea che stava tracciando aveva subito una deviazione netta e spezzata da quella di Makoto e Haru, e il parallelismo si era rotto, così come l’equilibrio e la perfetta armonia di annullamento delle distanze a cui erano stati così bravi ad affidarsi totalmente negli ultimi due anni di scuola.
La sua linea aveva fatto un giro, una curva colossale per continuare in tutt’altra direzione, lasciando al posto di quella che sarebbe dovuta essere la sua corsa predestinata solo una traccia sbiadita.
Proprio come lo sferragliare del treno sui binari, i suoi pensieri in quel momento facevano così tanto rumore da rendergli impossibile concentrarsi su una cosa sola alla volta. Il treno per Tokyo non sembrava mai aver corso così lentamente.
 
 
I loro baci avevano il rumore delle cose non dette. L’umido schiudersi delle labbra di uno su quelle dell’altro, il lento accarezzarsi da sopra i vestiti, come di rito, come usualmente, tutto quello sapeva dei silenzi che si erano appiccicati sotto le loro scarpe come cartacce.
Tokyo in generale, soprattutto di sera, sapeva di tutti quei piccoli segreti che avevano accattonato a casa, e faceva un chiasso tale che Haruka e Makoto a volte quasi non riuscivano a sentire cosa pensassero.
«Se anche io me ne andassi da qui, adesso...»
Makoto era tranquillo, lo era sempre stato e lo era anche nella capitale. Apparentemente non c’era nulla che potesse condizionare il suo saper muoversi fra i giorni della vita in quel modo talmente perfetto che sembrava impossibile pensare venisse da un paesino tanto tranquillo quanto Iwatobi.
Amava ancora Haru, forse più di prima, e non era mai stata sua intenzione metterlo in difficoltà. Ma fu lui, quella sera, mentre mordicchiava il tappo di una penna e Haru rosolava i filetti di sgombro surgelato in padella, ad aprire il discorso come avrebbe fatto con una porta qualsiasi, mentre il filo delle sue parole aveva soffiato fra di loro come vento gelido.
«Se io me ne andassi, c'è qualcosa che riporteresti indietro da te?»
«Tu.»
Fu raggelato dalla rapidità con cui Haru aveva risposto.
«Intendo, qualcos'altro con me?»
L’aria gelida permeava fra di loro perché c’era un vuoto. Nell’insieme di muscoli, gambe e braccia che costruivano quando facevano sesso c’erano degli spazi talmente grandi da sembrare esistere lì apposta per essere colmati. Erano delle curve fra i loro corpi che partivano dove la loro pelle si sfiorava appena e finivano dove si ritrovavano, labbra contro labbra, fronte contro fronte, il respiro di uno nel respiro dell’altro.
La verità, la cosa non detta, era che alla perfetta armonia di tocchi mancava l’intaglio giusto, l’incastro perfetto che li avrebbe resi completi, pieni, dove l’aria non sarebbe passata più. Ad Iwatobi avevano goduto della complementarità dell'acqua che sgusciava fra i loro corpi e li aveva vestiti di sensazioni, di tangibilità, ed ora che tutto era cambiato, ora che la parola futuro non sapeva più di gambe che tremano e occhi vuoti, ora che erano soli in due in una grande città, soli in due sotto le coperte, la struttura del loro equilibrio vacillava così vistosamente che non parlarne riportava alla mente i giorni in cui Haruka non aveva saputo che farne di sé.
Si amavano, si amavano così tanto in una sfera tutta loro che nessuno poteva accorgersene o rendersene partecipe, ma proprio perché c'erano questi sentimenti, questi reciproci scambi di complicità, proprio per quello le verità andavano dette.
C'erano degli spazi terribilmente vuoti intorno a loro.
«Se tu volessi,» sbottò Haru, pulendosi le mani sul grembiule «ti chiederei di riportare qui Rin.»
 
«Non abbiamo fatto sesso quella volta in Australia.»
Makoto gli baciò la clavicola, poi alzò la testa per guardarlo negli occhi. «Va bene.»
Si chiese se sarebbe stato troppo ridicolo e ipocrita aggiungere “non sarebbe stato un problema”.
«Volevo che lo sapessi.» Haruka si adagiò sul cuscino e guardò il soffitto. «Era strano senza te.»
Makoto sorrise dolcemente contro la sua pelle. «Strano come adesso?»
«No.»
Fuori, Tokyo tuonò. Pioveva da tre giorni e due notti su quel cupo grumo di palazzi e gente spossata sotto gli ombrelli scuri. L’ombrello di Haru e Makoto era rosso.
«Perché no?»
«Perché tu sei Makoto.»
«E lui è Rin?»
«E lui è Rin.»
Ovvio, che lui fosse Rin, ed ovvio che la sua assenza non fosse come un’assenza di Makoto. Rin aveva sempre fatto quello che gli pareva, Rin era stato libero, forse più di Haru. Makoto aveva imparato a stirare i nervi tesi dovuti alle assenze sin da quando Yamazaki era tornato ad Iwatobi.
Era stato un lavoro pesante lavorare e plasmare dall’interno la bolla che li inglobava tutti e tre, ma non aveva mai desiderato che scoppiasse. Rin aveva la capacità di uscirne e rientrarne senza danneggiarla, ma il problema reale era che quando lui ne usciva dentro rimaneva troppo spazio, troppa aria da essere respirata. Adesso la bolla sembrava semplicemente essere scomparsa.
Makoto si schiarì la voce, e rotolò su un fianco per stendersi fra le coperte.
«Con Rin, sarebbe stato strano solo in quell'occasione o sempre?»
«Solo in quell'occasione.»
Era stato un modo gentile per chiedergli se avessero mai fatto sesso senza di lui, ed Haru gli aveva dato la conferma. Non era una domanda dovuta alla gelosia: era stato anche lui a letto con Rin, in un paio di occasioni, e l'ultima poco prima che lui ed Haru partissero per l'Australia.
«Forse è per questo che faceva sempre a modo suo.» Haru stava lentamente imparando ad esternare i suoi pensieri un po' di più. Probabilmente l'essere lontano da casa e non più circondato solo da persone che capivano i suoi atteggiamenti a priori stava dando i suoi frutti, da quel punto di vista.
Makoto lo guardò. «Che intendi?»
«Non era legato a nulla di quello che facevamo, solo a noi.»
«Rin non ci ha dimenticati.»
Ma non era lì. Perché era quello, alla fine, il punto intorno a cui girava tutto da un paio di giorni. Rin era partito e li aveva salutati col sorriso sulle labbra, Rin li aveva stretti, commosso e col suo fare soffocante, Rin aveva giurato che sarebbe venuto a trovarli presto ma, aldilà di tutte le promesse mantenute, aldilà di tutte le belle cose che aveva detto, semplicemente Rin non era lì. Makoto ed Haru avevano combattuto per stare insieme, lui non ci aveva nemmeno pensato, quando probabilmente sarebbe dovuto essere il primo a farlo, senza nessuna logica, senza nessuna regola, certo, ma avrebbe dovuto farlo perché lui era Rin, ed un altro era Haru, che un po’ ancora non si era rassegnato a come erano drasticamente cambiate le cose, ed un altro ancora era Makoto, che in fin dei conti sentiva di avere delle braccia troppo grandi per una persona sola.

Haruka era il pezzo di puzzle perfetto per incastrarsi con lui davanti, ma cos’avevano tutto intorno? 
Tokyo tuonò di nuovo, e da qualche parte oltremare chissà se l’Australia stava facendo lo stesso.
Haruka sbadigliò silenzioso come un gatto e si stropicciò l’occhio destro col dorso della mano.
«So che non ci ha dimenticati, è troppo ridicolo e romantico per farlo.» borbottò.
Makoto sorrise e si grattò la nuca, adagiandola sul cuscino. Un filo bianco dell’orlo rovinato della federa si infilò fra le sue dita e lui lo tirò, guardandolo. «Mi ha scritto una mail ieri. Mi ha detto che lì va tutto a gonfie vele, e mi ha chiesto di te, del nuoto, sai, dei tuoi tempi. Non vede l’ora di sfidarti.»
«Mh.»
«Gli ho risposto che va tutto bene anche qui, che stai andando alla grande e… che ci manca.»
Haru non rispose, ma chiuse gli occhi e scivolò un po’ più sotto le coperte. Makoto si voltò verso di lui, col filo di lana spessa fra l’indice e il pollice, e sorrise di nuovo.
«Torna in Giappone fra due settimane.»
Haruka aprì lentamente un solo occhio per guardarlo, e Makoto gli sfiorò il naso col filo della federa che stringeva fra le dita. Lui lo afferrò, brusco, nel pugno, e inconsapevoli entrambi tremarono nel buio senza toccarsi e guardarsi direttamente.
Makoto si morse il labbro inferiore. «E’ che un filo ha solo due estremità, Haru.»
 
«V-vi amo…»
Avevano avuto così tanto tempo per pensare a quel momento che tutto sembrava andare avanti secondo precise istruzioni. Makoto stava calcando fra le lenzuola la linea del disegno dei loro corpi che Haruka aveva solo abbozzato, e in tutto quello, mentre uno lo prendeva e l’altro si faceva prendere, Rin pensava solo di star per impazzire.
«Sta-sta’ zitto...» Haru tremò, ansimando rumorosamente con le mani di Rin premute sui polpacci, mentre Makoto, stando attento a non far troppo rumore per non interrompere la linea invisibile dei loro sguardi, si spingeva dentro Rin e uccideva un gemito fra i suoi capelli.
Fu in quel momento che nella testa di tutti e tre cominciò un furioso litigio secondo cui non avrebbero mai dovuto separarsi, perché solo così si stava bene, solo così tutti gli spazi erano pieni e caldi. A voce, fra i baci e gli ansiti, nessuno avrebbe avuto il coraggio di parlare, Makoto perché troppo buono, Haruka perché troppo distratto e Rin perché troppo colpevole per farlo. In qualche modo si stavano dicendo che si erano mancati e che si sarebbero mancati ancora.
Nel frastuono della sua testa Rin si concesse di pensarlo altre tre volte: vi amo, vi amo, vi amo.
 
Uno dei tanti punti fra loro – uno dei tanti, sì, ma uno dei pochi che valesse la pena tenere a mente – era che le cose sapevano spesso di già vissuto. Il peso dei passi negli androni delle stazioni, per esempio, lo scrosciare fitto di una pioggia intorno ad un ombrello troppo piccolo per tre, i silenzi assordanti che dicevano mille cose mentre non ne dicevano neanche una, tutto quello aveva il sapore amaro delle esperienze ripetute a cui, nonostante ciò, non si sarebbero abituati mai.
Haruka aveva borbottato qualcosa di simile, qualcosa di tremendamente sentimentale per la sua bocca, qualcosa che assomigliava a “parti troppo spesso per i miei gusti”. Alle sue orecchie era suonata come una scocciata esclamazione nel sonno del primo mattino, a quelle di Rin solo una patetica e dolce risposta ai ‘vi amo’ di alcune sere precedenti.
Makoto li aveva guardati ed ascoltati bisticciare in taxi mentre sui finestrini la pioggia cadeva e sgusciava verso il basso in piccole e limpide gocce. Alcune gocce si univano a metà della corsa, per poi separarsi più in là ed unirsi nuovamente in una placida discesa. Se tutti e tre fossero stati delle gocce, pensò, avrebbero fatto esattamente la stessa cosa.
I rumori della stazione quando c’era anche Rin venivano presi ed amplificati per cento. Quella mattina era tutto un così gran baccano che, ancora una volta, quasi non riuscivano a sentire cosa pensassero.
«E’ questo il binario?»
«E’ questo.»
L’ombrello rosso nella mano di Haru produceva un ticchettio insensibile affianco ai loro passi. Le orme di polvere e fango rimanevano sulla banchina umida e fredda come una traccia già segnata che dovevano solamente calcare.
Erano infreddoliti, un po’ bagnati. L’acqua scivolava dalle ciocche di capelli di Rin e Haru come quando erano usciti dalla piscina pochi giorni prima, quando si erano sfidati ed avevano constatato, ancora una volta, che erano ancora troppo stretti, tutto sommato, per essere davvero rivali. Le loro mani sulla ceramica del bordo avevano avuto il rumore sordo degli schiocchi dei baci nel buio della camera da letto.
Nel momento in cui il treno su un altro binario fischiò, Rin si voltò, con le braccia incrociate dietro la nuca ed un borsone in spalla, e sorrise loro nello stesso ed identico modo con cui lo faceva sempre.
«Magari riesco a tornare di nuovo prima dell’estate.»   
Makoto gli sorrise. «Noi siamo qui.»
Haru abbassò la testa per guardare giù, sui binari lucidi, e Makoto lo imitò. Siamo sempre stati qui.
«Lo so.» Rin sorrise, alzando le spalle. «Anche io sono lì, se voleste.» sbottò, vago.
Haruka alzò lo sguardo per fulminarlo e Makoto scoppiò a ridere, quieto e cristallino come piaceva a tutti e tre. Rin lo accompagnò, sopprimendo l’istinto di baciarlo.
L’annuncio della sua corsa in arrivo spense le loro risate fino a trasformarle in scialbi borbottii.
«Rin.»
«Makoto. Haru.»
«Rin.»
Aveva avuto il suono di una dolce cantilena già sentita. A quel punto sapevano tutti e tre che non c’era più bisogno di nessuna parola, ma c’era comunque dell’altro tempo, altri secondi da riempire, sapevano che Rin non era ancora partito eppure c’erano già dei vuoti intorno a loro.
Makoto fu veloce: prese Rin per le braccia e se lo strinse contro. Haruka sarebbe rimasto silenzioso in disparte a guardare la gente intorno se Rin non lo avesse afferrato per il collo della felpa e lo avesse tirato contro di loro, singhiozzando. Stava già piangendo dalla sera precedente, in realtà, ed il fatto che fra i tre fosse comunque sempre il più debole fu allo stesso tempo un sollievo e un’umiliazione.
Il treno sferragliò sui binari durante la frenata e la banchina si riempì di persone.
Rin scomparve fra gli ombrelli, le valigie e i giacconi prima che potessero rendersene conto.
Quando Haruka riprese a respirare ed afferrò la mano di Makoto per cominciare a sgusciare fra la gente nella loro immensa bolla invisibile, Rin, dentro, accomodato al suo posto, tirò su col naso e chiuse gli occhi per sognare l’oro olimpico.
Makoto sorrise, un po’ a se stesso e un po’ alla pioggia, contò sulle punte delle dita le quattordici bugie che si erano detti in quei cinque giorni e l’unica verità negli ultimi minuti, quando ancora una volta avevano saputo azzerare tutte le distanze e riempire tutti i vuoti nell'insieme caldissimo fra la loro pelle e le loro voci.
 
 
 
Note dell’autrice:
Mi domando se qualcuno si ricorda ancora di quando c’era la prima stagione e nel fandom giravano questi TRE BELLISSIMI NUOTATORI che facevano cose insieme ed erano fantastici. Ecco, so che la seconda stagione ci ha riempiti di MakoHaru e SouRin annebbiandoci tutto il resto (annebbiando tutto il resto a me soprattutto), ma spero che qualcuno si ricordi ancora quant’erano perfetti questi tre amorini insieme <3 Sì perché questa fic è scritta un po’ in onore di quei tempi, ed è scritta perché dovevo farlo.
 
Partecipante alla "500 prompt per una challenge" col prompt “213: Verità”, perché non c’è verità più vera del fatto che si amano e io amo loro.
Fatemi sapere che ne pensate, sì?
Alla prossima!
(Per la cronaca, questa è la terza storia che scrivo nel fandom: o mi cacciate adesso o non mi cacciate più!)
   
 
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