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Autore: GiorgiaPenzo    22/10/2014    4 recensioni
Tutti mi chiamano Biancaneve, ma non per il poetico motivo che pensate.
Capelli neri come la magia che mi scorre nelle vene. Labbra rosse come il sangue versato per gli incantesimi. Pelle bianca come i cadaveri che mi servono.
Il mio vero nome è Maria Sophia Margaretha Catharina Von Erthal, e sono una negromante.
Genere: Fantasy, Horror, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- PROLOGO - 
 

C’era una volta… anzi.
Iniziamo subito a mettere le cose in chiaro. Quella che narrerò qui è la mia storia, quella vera, non l’impiastro che vi propinano da quando siete poppanti.
Prima che ve lo chiediate, sì, la mia matrigna era una strega.
No, non è mai esistita nessuna mela avvelenata o nanetti delle miniere.
Sono nata principessa. Il mio destino sarebbe stato sposare il principe che il re avrebbe ritenuto degno di tale onore, essere ubbidiente, imparare a cantare e suonare l’arpa, fare tanti figli ed essere felice e contenta per sempre. Inutile dire che, a quindici anni, nessuno dei suddetti punti era in linea con i miei propositi.

Avevo una gran sete di avventure. Volevo essere libera di scegliere il mio futuro, decidere come e con chi andargli in contro. Ero stanca d’indossare la sottana e tutte le altre imposizioni medievali che mi erano state cucite addosso a causa del mio status e del mio sesso.
La svolta arrivò inaspettata.
Quando rimasi orfana di padre, la mia matrigna tentò di uccidermi per ereditare il reame e levarsi dalla vista il mio bel musetto che, diceva, la faceva sfigurare. Ma questo lo sapevate già.
Quello che non sapete è che se solo me lo avesse chiesto con gentilezza, le avrei lasciato tutto e sarei partita il giorno stesso. Purtroppo per lei decise di usare le maniere forti ed io optai per la cara, vecchia legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente.
Mi aveva sottovalutata.
Negli anni in cui aveva tramato alle mie spalle non si era accorta che io, in gran segreto, avevo giocato d’anticipo. Avevo imparato a leggere sulle sue pergamene maledette, e a contare grazie al formulario delle pozioni che pensava fosse ben celato da sguardi indiscreti. Quello che schifava le bambine nobili della corte, mi attirava quanto una falena sedotta dalla luce. Già all’età di dieci anni il grimorio e il mondo macabro di Lady Grimhild non avevano più segreti per me.
Scoprii di essere una maga più forte di lei. Quando mi attaccò, usai le sue stesse arti occulte per difendermi. Colta completamente alla sprovvista, morì in modo atroce piegata dalle sue stesse fatture ed io, ingenuamente, pensai che quelle grida fossero l’inizio della colonna sonora della mia emancipazione.
Seppellii nel giardino reale ciò che rimaneva del corpo di Lady Grimhild. Esausta, mi appisolai poco distante al limitare del bosco, vicino a un prato di bocche di leone.

Il principe del regno confinante incappò in me addormentata durante la sua consueta passeggiata a cavallo, e mi scambiò per una fanciulla bisognosa d’aiuto.
Scese dal suo bianco destriero, mi baciò ed io mi svegliai. Aprii gli occhi e lo vidi in ginocchio al mio fianco, in procinto di chiedermi di convolare a nozze con lui.
Quando gli domandai il perché di quel gesto teatrale, fece spallucce e rispose che suo padre aveva fatto così prima di lui, e suo nonno ancora prima. Era destino, diceva. Era prassi.
Feci mente locale: i suoi baci umidi, una vita agiata, una prigione d’oro…
Non ero mai stata attratta dagli uomini, tantomeno dalla prassi. Ma sembrava davvero destino e l’inizio di una nuova avventura. Anche se la mia era stata legittima difesa, ero pur sempre un’assassina. Quale sarebbe stato il futuro di una sangue blu, nubile ed erede di un regno, con le mani sporche di sangue?
Quando accettai la proposta di matrimonio dello sconosciuto, avevo ancora le unghie insudiciate dalla terra della tomba di Lady Grimhild.
Tutti mi chiamano Biancaneve, ma non per il poetico motivo che pensate. Capelli neri come la magia che mi scorre nelle vene. Labbra rosse come il sangue versato per gli incantesimi. Pelle bianca come i cadaveri che mi servono. Il mio vero nome è Maria Sophia Margaretha Catharina Von Erthal, e sono una negromante.
Questa fiaba non comincia con nessun “c’era una volta”. Fatevi bastare un semplice, rassicurante “sette anni fa…”.

***

2555 giorni fa…

Sette anni orsono indossai per l’ultima volta l’abito da cerimonia di broccato blu e oro, colori che avevo scelto come insegne quali futura principessa consorte. Avevo deciso di sciogliere il fidanzamento la sera del mio diciottesimo compleanno, durante la cena in mio onore. E così feci, senza moine e preamboli.
Il salone, gremito di nobili giunti da tutto il reame, si ammutolì all’istante quando, alzatami in piedi, scandii con voce piena la mia scelta. «Io e il principe non ci amiamo più, lascio il castello per non farvi più ritorno».
Ero stata anche troppo diplomatica. Quando mai Sua Maestà ed io c’eravamo amati? Il mio bel salvatore, dal canto suo, non mi degnò di uno sguardo.
Da quando mi aveva baciato nel campo di bocche di leone qualche anno prima, non aveva più posato le labbra sulle mie. La caccia e i giochi a cavallo erano stati sempre il suo unico pensiero ed io, a dir la verità, non mi ero mai sforzata più di tanto per cercare di fargli cambiare idea.

Sollevai il calice del vino e brindai alla libertà, imitata solo da qualche coraggioso cavaliere.
«I vostri ordini, mia signora?» bisbigliò la dama di compagnia alle mie spalle.
«Vestiti comodi, un cavallo fresco e i miei libri pronti entro l’alba».
Una risata si espanse nella sala, inarrestabile e sinistra come la nebbia d’autunno. «Se te ne vai, esigerò tutto ciò che possiedi come risarcimento» dichiarò il principe, rizzandosi sulla sedia d’oro. «La tua corona» continuò, «le tue terre e le rendite a esse legate fanno parte della dote che mi spetta di diritto».
Una marea di occhi silenziosi si voltò verso di me, in attesa di una replica. Finii il contenuto del calice e posai delicatamente il bicchiere sulla candida tovaglia di lino.
«Qualora dovessi sentire mancanza di casa, Vostra Grazia, saprò riprendermi il mio trono».
Il principe rise di nuovo, con ancora più veemenza. «Tu? E con quale esercito?».
«Di quelli che non vi aspettereste mai» conclusi con un profondo inchino.
Un tappeto di brusii e chiacchiericci mi accompagnò fino agli appartamenti reali. Nemmeno una volta richiusa la pesante porta di legno della mia stanza riuscii a separarmi dalle voci che si rincorrevano al piano sottostante.
La decisione era stata rimandata oltre misura. La mia curiosità e la necessità d’indipendenza che la alimentava erano state strizzate troppo a lungo nei corsetti, insieme alle mie forme.
Gli esperimenti anatomici che avevo condotto marcivano nelle segrete del castello, dal momento che gli impegni di rango mi avevano sempre impedito di seguirli con le dovute cure.

Quella notte non dormii. Studiai la mappa dei principati, cercando d’individuare la via più breve per raggiungere la prima meta, la Biblioteca del Saio Nero. Lì avrei potuto affinare le mie conoscenze ritualistiche e carpire le basi della magia ultraterrena.
Scribacchiai il percorso da seguire annotando a lato, in ordine alfabetico, i testi che avrei voluto consultare.
Sul finire della lista premetti con troppa forza la piuma d’oca sulla pergamena. Un’enorme macchia nera si fece largo tra le sottili stradine di campagna tracciate dall’amanuense di corte.
«Accidenti» imprecai, sparpagliando della sabbia fine nel tentativo di assorbire la chiazza dal foglio.
Era l’ennesima prova che il mio destino sarebbe stato scrivere col sangue, non con l’inchiostro.


Un mese fa…

Capii che la mia formazione era finita nel momento in cui i capelli color pece, che avevo sempre portato corti all’orecchio, mi sfiorarono la cintura appena sotto l’ombelico. Quando me ne accorsi, ero china sull’ultima pagina di un antico manoscritto di psicomanzia.
La candela che la servetta della taverna mi aveva gentilmente fornito era ormai ridotta a un mozzicone, e la notte era scesa da un pezzo sul piccolo villaggio di Bremen.
Avevo passato gli ultimi anni a studiare e approfondire le arti scoperte nel libro di Grimhild. Avevo sperimentato, esaminato, calcolato. Tanatologia, erboristeria e medicina si erano fuse con l’alchimia, gli incantesimi e la divinazione, in un unico sapere di magia e scienza.
Avevo terminato di scrivere il mio grimorio e volevo testarne il potere. Origliando le conversazioni di alcuni avventurieri sentii dire che a ovest, a qualche settimana di cavalcata da dove stavo, c’era un misterioso impero desolato.
Si diceva che da ormai cento anni nessuno osasse entrare o uscire dai suoi confini. La signora del regno, vittima di un qualche maleficio, si era addormentata trascinando con sé tutto il suo popolo.
Si raccontava che gli eredi ai troni più importanti della terra avessero provato ad attraversare le mura ma, alla vista degli abitanti dormienti da un secolo, si erano rifiutati di proseguire verso la torre. Nessuno aveva mai svelato il perché.

Pagai all’oste la tisana di more ormai fredda e radunai le mie cose, poi feci cenno al garzone del locale di sellare il cavallo.
«Dove te ne vai, strega?» domandò il proprietario della taverna, testando con i denti l’autenticità della moneta d’argento che gli avevo lasciato davanti.
Appoggiai un gomito sul bancone e mi sporsi verso il suo viso butterato. «Non sono una strega, sono una negromante» bisbigliai.
L’energumeno mi rise in faccia. «C’è differenza?».
Accennai un sorriso di cortesia e appoggiai il mento tra le dita, con fare frivolo. «Se fossi una strega, potrei far innamorare di te la cameriera che da tutta la sera ti mangi con gli occhi. Sareste felici, gestireste la locanda insieme, avreste tre o quattro bambini sani. In cambio, oltre al consueto pagamento, potrei chiederti un sacrificio, in base al mio livello di corruzione. Una capra, una mucca o un neonato. Il tuo primogenito, magari».
L’oste, per poco, non fece cadere il bicchiere che stava lucidando. Mi fissò con gli occhi ingialliti dall’alcol, senza accennare a chiudere la bocca spalancata dallo stupore.
«Ma dato che sono una negromante» proseguii a voce bassa, «potrei farla innamorare di te gratuitamente e poi, un bel giorno, obbligarla a tagliarsi la gola. Potrei seppellirla nel bosco, attendere tre lune e risvegliarla con i miei poteri. Potrei ordinarle di bussare alla tua porta tutte le notti. Lei sarebbe ogni volta più innamorata e sempre più guastata dai vermi. Allora mi pagheresti per farla smettere. Anzi, mi offriresti tutti e quattro i tuoi bambini per liberarti di lei».
L’uomo indietreggiò un poco, seguendo con sguardo languido l’affascinante domestica che passeggiava ignara tra i tavoli.
«Perdonatemi» balbettò, cadendo quasi in ginocchio.
Il mio sorriso si aprì. «Questa è la differenza tra una strega e una negromante. Fortunatamente per te, nonostante pratichi la più oscura delle magie nere, non sono così malvagia e nemmeno così permalosa».
«Il vostro nome, milady? Così che non possa più offendervi».
«Biancaneve» risposi candida.
«Biancaneve la negromante» precisò, conquistando il mio plauso. «Il mio servo è a vostra disposizione. Può accompagnarvi dove più vi aggrada ed eseguirà ogni vostra richiesta».
Estrassi un’altra moneta d’argento dal sacchetto che avevo legato alla cintura e la porsi al taverniere. «Dove vado io non c’è posto per i garzoni» ammisi. «Questa è per te. Compra dei fiori alla tua amata».
L’oste afferrò il denaro e mi baciò con devozione il dorso del guanto di camoscio.
«Dove siete diretta, se posso chiedere?».
«Al castello dell’Addormentata».
Così com’era successo al banchetto per il mio lontano diciottesimo compleanno, nell’udire le mie parole l’intera locanda si zittì. Accomodai il cappuccio del mantello sul capo e mi avviai verso l’uscita.
«Nessun principe è mai riuscito a svegliare quella ragazza!» urlò un tizio in fondo alla sala, nascosto da cinque boccali di birra vuoti rovesciati sul tavolo.
«Poco male» constatai sulla soglia della porta a spinta. «Io sono una principessa».


Una settimana fa…

L’olezzo di putrefazione m’investì ancora prima che potessi scorgere il castello, oltre la radura. Il purosangue scalpitò spaventato e segnò con gli zoccoli la terra nera e grassa.
«Suolo maledetto, lo so» sussurrai, accarezzandogli la criniera.
Seguendo la puzza e la desolazione, attraversai il villaggio abbandonato e arrivai davanti al portone nel maniero in rovina. Nessuno di guardia, nessuna fiaccola accesa.
L’alba stava avanzando velocemente ma decisi di non aspettarla. Smontai da cavallo e lo baciai sul muso morbido. «Aspettami oltre il ponte».
Indossai la bisaccia e attraversai la soglia marcescente, accompagnata dal solo rumore degli zoccoli del destriero che via via si faceva sempre più distante.
Oltrepassai la corte di casupole disabitate spingendomi fino nel cortile d’arme, dove la puzza era pressoché insopportabile. Ovunque voltassi lo sguardo, corpi esteriormente senza vita e in decomposizione occupavano i posti che avevano avuto da viventi.
Le armature erano penetrate talmente in profondità nella carne disfatta da sembrare un tutt’uno con i corpi dei soldati.
Quelli che una volta erano stati mendicanti si putrefacevano agli angoli della strada. Erano accasciati con gli occhi chiusi, come assopiti, immobili nell’attesa eterna di udire il suono di una moneta nei loro barattoli arrugginiti. Poco lontano piccoli corpicini squamosi, probabilmente di bambini, giacevano vicino ai loro giocattoli di legno, rannicchiati come durante il sonno.
Sebbene i primi raggi di sole contribuissero ad alleggerire lo spettacolo macabro in cui mi ero imbattuta, il numero di corpi non parve diminuire.

Risalendo la via maestra notai, dalle finestre spalancate delle case, alcuni cadaveri dai capelli stopposi raccolti in fazzoletti ormai consunti. Erano presumibilmente massaie, con la testa e le braccia appoggiate sui tavoli nell’atto di riposare.
Sebbene ogni cosa avesse l’aspetto e l’odore della morte, qualcosa dentro di me mi diceva che non era come sembrava. Se quelli che avevo davanti fossero stati comuni cadaveri, dopo cento anni avrebbero dovuto essere polvere.
Le salme invece parevano nel pieno della putrefazione. Ad alcune lo scheletro s’intravedeva sotto gli stracci di pelle grigia, mentre altre erano irriconoscibili sacche gonfie di liquidi e gas nauseabondi.
Tutto era immobile e in bilico, in completo abbandono, così come il paesello alle pendici della fortezza che non mi ero attardata a esplorare. Proseguii verso la torre, nella speranza di trovare quello per cui ero venuta.

Salii le tortuose scale a chiocciola coperte di muschio, buttando lo sguardo di tanto in tanto oltre le fessure poste sui muri fradici di umidità. Silenzio e nulla, dappertutto.
Passo dopo passo notai che, più mi avvicinavo all’ultimo piano della torre, più il fetore che mi aveva accompagnato fin dall’arrivo era sempre più flebile.
Calpestai l’ultimo gradino con deferenza, spogliandomi la testa dal pesante cappuccio di pelliccia e lasciando che i lunghi boccoli neri mi coprissero il petto. Nella stanza al termine della rampa, su un letto a baldacchino impolverato, era adagiata una figura vestita di bianco.
Mi avvicinai con circospezione, attenta a non calpestare la miriade di oggetti disseminati sul pavimento: bicchieri in frantumi, cocci di vasellame, stole di seta e libri distrutti dalle tarme.
La ragazza sdraiata sulle lenzuola ingiallite era la creatura più armoniosa ed enigmatica su cui avessi mai posato gli occhi, più delle creature leggendarie dei miei libri, più delle sirene lacustri, più delle fate dei boschi ingorde di anime. La pelle d’alabastro era incorniciata da capelli color del sole d’estate, lo stesso che filtrava timido dalla finestrella di fronte al giaciglio. Le sue mani affusolate si stringevano sul ventre mentre il viso sereno sembrava rilassato in una smorfia di pace apparente.
«Per il cielo, quanto sei bella» sussurrai, passandole un dito lungo lo zigomo roseo.
Sentii un nodo stringermi la bocca dello stomaco e una vampata di caldo improvviso mi abbracciò il volto. Stava accadendo davvero? Stava accadendo a me?
Ero persa e attonita davanti a quella fanciulla inerme, l’unica persona del castello che non portava sulla pelle il marchio del tempo.
Amore a prima vista.

Mi sedetti sul bordo del letto, aprii la bisaccia e afferrai il grimorio. Sfogliai le pagine avanti e indietro, fino a che non trovai l’incantesimo che cercavo.
Conoscevo bene la maledizione in cui era incorsa la principessa. Se l’avessi svegliata con un bacio, tutti sarebbero vissuti felici e contenti. Il suo popolo si sarebbe ridestato con lei e la ragazza mi avrebbe adorato più di ogni altra persona su questa terra, per il resto della sua vita. Ma l’amore che avrebbe provato per me sarebbe stato falso e incondizionato, indotto dalla stessa magia che aveva imprigionato nel sonno lei e i suoi sudditi.
L’avrei svegliata, questo era fuori discussione. Ma a modo mio. Se mai mi avesse amato, sarebbe stato per sua volontà.
Estrassi dalla borsa una siringa e una fiala di liquido trasparente, la mia personale alternativa scientifica alla stregoneria. Calcolai approssimativamente la quantità necessaria di epinefrina per una ripresa immediata dello stato di coscienza, poi le avvicinai l’ago al cuore.
«Che sia la scelta giusta» pregai, prendendo la mira.
Affondai il colpo e la ragazza si rizzò di scatto. Gridammo all’unisono l’una in faccia all’altra. Io dallo spavento, lei dallo shock.
Ansimò per alcuni istanti, guardandosi intorno con aria confusa. Con le dita sudate toccò più volte il punto dove l’avevo trafitta, poi mi scrutò con i grandi occhi blu che sembravano rubati all’oceano. «Mi aspettavo un principe» dichiarò col fiatone.
«Sono una principessa, mia signora».
«Lo vedo…» rispose timida.
«Siete delusa?».
La ragazza mi posò con tenerezza la mano sulla guancia ed io, senza pensare, l’afferrai e gliela baciai. «Se dovessi riaddormentarmi tra un istante per svegliarmi dopo un altro secolo, e avessi mille principi al mio cospetto, è il vostro il viso che vorrei vedere una volta dischiuse le palpebre».
«Come ti chiami?» chiesi d’impeto, scavalcando ogni protocollo.
La giovane schiuse le labbra in un sorriso etereo. «Aurora, ma tutti mi chiamano Rosaspina».
«Io sono Maria Sophia, anche se la gente mi conosce come Biancaneve».
Aurora rise e mi strinse a sé, in una dolce presa dalla quale non avrei più voluto sciogliermi. «Siamo schiave della reputazione che ci precede, i nostri destini sono già stati scritti da altri» affermò, solleticandomi l’orecchio con il respiro.
Mi scostai da lei solo per annegare di nuovo nel suo sguardo. «Cambiamoli insieme, allora».

Un verso animalesco, proveniente dal cortile sottostante, rimbombò nella stanza infrangendo l’idillio. Aurora si avvinghiò al mio collo, nascondendo il viso tra le pieghe dell’abito. «Cos’è stato?».
La tranquillizzai con una carezza e mi sporsi dalla bifora semidistrutta della torre. Un’orda di non morti stava procedendo verso l’entrata del palazzo, trascinando gli arti marci e le teste scheletriche.
Poiché la sovrana del regno era stata risvegliata, ogni uomo, donna e bambino che marciva nel villaggio adiacente al castello e dentro le mura aveva ripreso vita.
Una postilla non avrebbe però permesso il lieto fine: avevo ridestato Aurora aggirando l’incantesimo che l’aveva imprigionata: la sua corte si era sì rianimata con lei, ma come un branco di zombie.
Afferrai la principessa e la trascinai giù per le scale il più velocemente possibile. «Se restiamo qui, moriremo» dichiarai lungo i gradini scoscesi. «Dobbiamo arrivare nel cortile prima che inizino a salire».
Aurora mugugnò qualcosa d’incomprensibile e mi seguì, stringendomi la mano con fiducia. Mi sarei fatta divorare da quei mostri prima di tradirla.
Arrivammo nella piazza appena in tempo. Gli zombie erano sulla soglia, con le zanne snudate e le unghie appuntite, bramose di sprofondare nella nostra carne viva.
Ci squadrarono con voracità dietro i bulbi oculari vitrei. Misi un braccio davanti ad Aurora e la costrinsi a stare dietro di me, dal momento che tra noi e le bestie ciondolanti c’erano solo pochi metri.
Pensai rapidamente.
Un gruppo di non morti, i più famelici e aggressivi, si stagliò davanti a noi, pronto ad attaccarci. Quella che una volta era stata la guardia reale, stava per disonorare ogni giuramento di fedeltà all’attuale reggente. Se fossero partiti alla carica, ci avrebbero sbranate. Se fossero passati dai ringhi ai fatti, non ci sarebbe più stata una principessa nel dominio.
«Maria Sophia, dobbiamo scappare».
Guardai Aurora nei suoi occhi arrossati e lucidi dalla paura. «Fidati di me».
Liberai la mente e concentrai tutte le mie forze mistiche verso la foresta. Entrai nei pensieri dei cervi, dei lupi e dei falchi, e diedi loro un solo ordine: salvateci.
In lontananza una nube scura e veloce apparve nel cielo porpora. La terra iniziò a tremare sotto il galoppo dei signori del bosco mentre l’aria si riempì d’inquietanti ululati, sempre più numerosi.
«Distruggete i leader» gridai nelle menti degli animali, «e terrorizzate gli altri».
I lupi uscirono dai cespugli come ombre mortali e attaccarono alla gola i fanti della prima linea, sradicando dal collo verdastro le loro teste flaccide.
I cervi irruppero nella folla di zombie, sparpagliandoli come biglie impazzite con le loro corna maestose.
I falchi planarono sui volti degli irriducibili, cavando con gli artigli brandelli di carne putrida ancora attaccata alle ossa.
A un mio cenno, gli animali si placarono. I falchi si appollaiarono sul salice rinsecchito alle mie spalle mentre i lupi e i cervi si sistemarono al mio fianco.
Uno di loro s’inginocchiò davanti a me e Aurora, permettendoci di salire sulla sua groppa. Afferrai il palco vellutato e montai, sistemando la fanciulla dietro di me. «Avete dormito per cento anni» urlai alla folla di non morti, percorrendo i ranghi sul dorso del cervo. «Ora servirete me per altrettanti. In cambio vi darò un riposo e una pace eterna che nessuno potrà mai più disturbare».
I corpi martoriati di una novantina di zombie erano sparpagliati per il cortile d’arme, a monito per gli altri. Non vi erano più capi, non vi erano più guide tra loro.
Gli animali che avevo richiamato mi avevano consegnato un esercito.


Oggi

Il fuoco scoppietta ai nostri piedi e la rugiada ci appesantisce i mantelli. È notte fonda ormai, e Aurora dorme accoccolata sulle mie ginocchia. L’alba è lontana e la foresta tace.
Abbiamo cavalcato tutto il giorno alla testa dell’armata di cadaveri. Con il loro aiuto, domani, riconquisterò il trono che mi spetta.
Osservo Aurora, le sfioro i capelli cercando di non svegliarla. È così bella e talmente fragile che ho il terrore di ferirla, anche solo con un bacio.
Non so se per noi ci sarà mai il “vissero felici e contente”. Non so se morirò tra poche ore sul campo di battaglia, o nel mio letto con i capelli bianchi. Non so se i miei poteri saranno sufficienti e se i settemila zombie al mio comando potranno competere con le truppe del principe.
So solo che Aurora dorme e il suo respiro culla i miei pensieri. Oggi mi ha chiesto cosa avremmo fatto al sorgere del sole e che ne sarebbe stato di noi, implorandomi di non lasciarla.
Le ho risposto che mi sarei ripresa la corona e che avrei fatto di lei la mia regina. So che ci amiamo e che sarà così per sempre. E se questo “per sempre” durerà solo fino al nuovo giorno, beh, ne sarà comunque valsa la pena.
Aurora dorme sulle mie ginocchia e sta sognando. Sorride.
Forse sogna di noi.


Racconto scritto per la rubrica "Lo Scrigno delle Emozioni - Once Upone A Time" del sito Romanticamente Fantasy: http://www.romanticamentefantasy.it/breve-memoriale-principessa-negromante-giorgia-penzo/


Tim
   
 
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