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Autore: Love_in_London_night    30/10/2014    2 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Nella puntata precedente: Austin si sente male durante la notte e Rhys, nel panico, chiama Pemberley che si precipita da loro con Naive. Qui la ragazza striglia Rhys perché deve imparare a cavarsela da solo: è lui il tutore di Austin, lei non potrà correre per lui appena ne avrà bisogno, anche perchè ha una figlia a cui badare, le basta e le avanza.
Silene e Joshua riescono a concludere la loro serata come si avevano desiderato da tempo ma, all'inizio, vengono interrotti da Cassidy, che disturba prima Silene e poi usa Joshua come un ripiego dopo il rifiuto della ragazza. Cassidy viene scaricato da entrambi tramite sms e accendegli animi dei due.
Colton, amico e collaboratore di Rhys, confabula con il capo della contabilità della società di Rhys per fare qualcosa di losco.
I Voight più Nathan al seguito partono per una settimana a casa ad Aspen nella loro casa. Rhys si rivela geloso di Nathan perché Pemberley non gli aveva detto della sua presenza, decisa in realtà all'ultimo dai genitori di lei.
Le cose vanno bene in montagna, e tutti ne sono felici, ma Rhys fa una sorpresa a Pemberley e si presenta con Austin per passare più tempo in compagnia della ragazza. Nathan, contrariato dalla presenza di una persona che reputa uno sbruffone, si chiude in camera e decide di guardare avanti, chiedendo a una sua collega di uscire una volta tornato a New York.



Capitolo 10
 

Affogare in se stessi
 

Tornare alla primavera di New York dopo il freddo di Aspen era stato come risvegliarsi da un sogno, uscire da un torpore ovattato in cui tutti i sensi venivano stimolati come se fosse la prima volta.
I colori della città erano più vividi e a capo di questa tavolozza c’era Central Park con i suoi fiori, seppur timidi, sempre pronti – accompagnati da una brezza gentile – a diffondere il proprio profumo per le vie della città in tumulto. Il cielo era terso e ricordava la tranquillità estiva, i giorni si allungavano ogni pomeriggio un po’ e la calma che aleggiava sulla città sembrava quasi insolita per i suoi abitanti.
Tutto scorreva con i tempi dilatati di chi aveva tanto ancora da vivere in quei giorni, come se fossero ancora in vacanza. Era così bello da essere innaturale agli occhi di chi – come Pemberley e Rhys – era abituato a ben altri ritmi.
Il primo contatto con la realtà, per Pem, avvenne tramite Silene. Una chiamata concitata dieci giorni dopo il suo ritorno, accompagnata dall’invito per un pranzo il sabato seguente, era bastato a far cadere la flebile illusione che tutto in quel mondo fosse perfetto.
La verità era che non vivevano nei cartoni Disney, gli uccellini non cinguettavano al passaggio delle persone e nemmeno si appoggiavano sulle loro dita o spalle con fare amichevole, figurarsi se un principe era pronto a trarre la donzella in salvo; Silene sembrava lì apposta per ricordarglielo, come se Pemberley non fosse già conscia che l’unica creatura che era uscita dalle fiabe per mettersi sul suo percorso erano draghi capaci di distruggere con un solo colpo di coda ogni aspettativa che si era creata.
«Allora, a cosa devo questo pranzo?» le sorrise incoraggiante.
Era facile constatare che Silene avesse un aspetto orribile, ma era la prima volta dopo mesi che riuscivano a vedersi nelle loro giornate libere, voleva cercare di rendere quel pranzo gradevole e cercare di rinfrancare l’amica come meglio poteva.
«Levati quel sorriso felice dalla faccia, sei irritante». La mora prese a giocare con le posate senza degnare l’altra di uno sguardo, non fingendo nemmeno di prestare attenzione al menù aperto sul tavolo apparecchiato.
Perché a Silene non serviva guardarla per conoscere l’espressione estasiata di Pemberley, la percepiva dalla sue parole traboccanti gioia e soddisfazione. Era felice per lei, perché dopo Nathan non l’aveva più vista sorridere a causa di un uomo che non fosse il padre di sua figlia, ma ora non riusciva a sopportarlo.
Aveva bisogno di sfogarsi, di sentire qualcuno di arrabbiato quanto lei, non voleva persone che le ricordassero che solo a lei – puntualmente – la parte amorosa della vita andava a rotoli.
«Stavo cercando di rendere questa conversazione più piacevole». Si giustificò Pemberley senza farsi intimorire mentre buttava un occhio ai primi.
«Tentativo inutile». Sbuffò Silene con un broncio degno di un bambino di cinque anni. In effetti ricordava proprio Naive i primi giorni di scuola, quando la madre la portava contro la sua volontà.
«Avanti, cosa succede?» una domanda generica, ma che sapeva avrebbe permesso all’amica di sfogarsi al meglio. Quando era intrattabile aveva bisogno di scoppiare ed esternare il proprio disagio.
Non era solita aprirsi spesso, ma era brava a parlare, complice anche il tipo di lavoro che conduceva, quindi a mettere in allarme Pemberley fu il suo silenzio prolungato accompagnato da uno sguardo che non voleva saperne di alzarsi dal tavolo, trovando molto più interessante guardare le dita giocare con le poche briciole che sonnecchiavano sulla tovaglia immacolata.
«Silene parla, sai che con me puoi aprirti se c’è qualcosa che non va. Siamo amiche proprio perché riusciamo a parlare di tutto». Tranne dei segreti più profondi, quelli che attanagliavano il cuore nei momenti di buio e non lo lasciavano battere a dovere. Quei pensieri così privati da far soffocare per la loro sincerità inespressa, così intimi da risultare inadeguati se accarezzati dalle labbra e resi sotto forma di parole che ne avrebbero limitato l’importanza.
Eccolo il punto di rottura di Silene, la debolezza che la caratterizzava in quel momento come tanti anni prima su un dondolo bianco in legno: cedere davanti al fallimento.
«Joshua» sussurrò incerta, come se il solo nome riuscisse a spiegare tutti i motivi che l’avevano portata – ancora una volta – a sbagliare tutto.
Come era arrivata a essere ancora in balìa di se stessa?
«Ti ha fatto del male?» a Pemberley si era seccata la bocca per l’ansia. Si sentiva preda di una doccia fredda che, al posto di distendere i nervi, la stava rendendo agitata, punta da spilli invisibili pronti a punzecchiare i suoi sensi di colpa: in fondo se Joshua era entrato nella vita dell’amica era colpa sua. E di Cassidy.
Silene scosse la testa quasi offesa. «Non gliel’avrei permesso, lo sai».
Eppure lo sguardo chiaro aveva perso convinzione.
Per Pemberley era sempre stato difficile interpretare ciò che la sicurezza di quegli occhi azzurri celava, ma al loro interno vedeva sempre brillare un barlume di orgoglio che poche volte l’aveva abbandonata. In quel momento tutta la parvenza solita di Silene era sparita, lasciando posto all’insicurezza e a una ben più radicata tristezza.
Sembrava una bambola di porcellana con l’espressione spezzata, il giocattolo rotto con cui un bambino troppo crudele e superficiale aveva giocato fino a farlo cadere in pezzi. Un bambino troppo concentrato sui propri capricci che non si accorgeva di essere uscito da un sacco di tempo dall’infanzia.
Silene scosse la testa per darsi un contegno e riconquistare un briciolo di dignità, non era abituata a mostrare il lato più profondo di sé. Però – per quanto tuttavia non le facesse piacere – doveva sfogarsi con qualcuno, sentirsi dire che tutto sarebbe andato bene e che non c’era nulla di sbagliato in lei.
Inspirò a fondo e poi iniziò a parlare.
«Più o meno quando tu eri ad Aspen con i tuoi, il tuo concubino e il padre di tua figlia» a Pemberley scappò una smorfia di disapprovazione, Silene adorava insinuare in lei il dubbio che quella situazione le si sarebbe ritorta contro prima o poi. «Josh e io siamo riusciti a concludere. Sì, insomma… Dopo tanto tempo abbiamo fatto sesso»
«O mio Dio, era ora!» esclamò sollevata la bionda, una mano sul cuore quasi volesse assicurarsi di aver ristabilito un battito normale.
Poi si concentrò sul silenzio dell’amica, sempre più sospetto.
«Ha fatto così schifo?» azzardò incerta, non sapendo come interpretare la sua mancanza di parole.
«No! Certo che no!» si difese oltraggiata. «Non sarò una pornostar, ma non sono da buttare. Conosco anche io i miei trucchetti».
In realtà non era poi così vero, però i ragazzi con cui era stata le avevano detto che ci sapeva parecchio fare, e Silene era convinta che un fondo di verità in quelle parole ci fosse, perché altrimenti avrebbero potuto semplicemente restare in silenzio.
«Sil, non intendevo questo. Mi riferivo più a lui, o al fatto che tra di voi potesse non esserci la giusta alchimia». Pemberley non intendeva affatto insultare l’amica o – peggio – le sue doti amatorie, ma voleva concentrarsi più sulla chimica tra le due persone coinvolte. Come avrebbe potuto però parlare apertamente della scintilla che vedeva tra l’altra e Cassidy senza infliggerle una ferita in modo deliberato? Era meglio tacere e parlare per estremi. Silene era una ragazza intelligente e avrebbe capito, dalle sue nuove precisazioni, dove volesse andare a parare in realtà.
«Credimi è andata più che bene. È andata così bene che quella sera è capitato una seconda volta. E anche il mattino dopo».
Pem si ritrovò a sospirare, questa volta con una punta di invidia nei confronti dell’amica. Lei, con Rhys, era arrivata dopo tempo all’agognata intimità, ma era ancora strano tra loro. Per la giovane mamma erano passati anni dall’ultima volta, nemmeno così memorabile, e Rhys riusciva a soddisfarla come mai si era aspettata. Aveva scoperto nuovi modi di conoscere se stessa attraverso il corpo di un altro, eppure Rhys non riusciva a lasciarsi andare del tutto, lei lo percepiva. Doveva sempre avere il controllo della situazione, non cedere mai del tutto alla passione come chiunque altro avrebbe fatto, quasi avesse voluto ricordare a lei più che a se stesso che non era come gli altri uomini.
«E allora dov’è il problema?!»
«Il problema è che mi ha scaricata tre giorni dopo».
Ecco il punto focale di tutta la questione, il vero motivo per cui l’aveva chiamata. Era una muta richiesta di conforto atto a garantirle che l’errore non era suo, ma negli uomini che non capivano nulla. E su quello, Pemberley, avrebbe messo una mano sul fuoco.
La invitò a continuare, voleva che l’amica finisse il racconto prima di esporre il proprio giudizio. Non poteva dirle quello che pensava se non era a conoscenza di tutti i fatti, anche se riguardo Silene aveva sempre avuto una teoria ben precisa.
«Ha detto che voleva vedermi e, quando ci siamo incontrati, mi ha detto che non se la sentiva di continuare». Lo ammise scoraggiata, con la voce rotta di chi dentro era ormai arreso da tempo. «Questo perché non è pronto a impegnarsi, e nemmeno io, dice. Cosa ne sa lui? Inoltre aggiunge che in me non ha trovato quello che sperava, che non sono disposta ad aprirmi verso un’altra persona come lui meriterebbe. Ha concluso dicendo che un giorno forse riuscirò a capire appieno il suo discorso. Molto poco pretenzioso il ragazzo, vero?» concluse con amara ironia.
Peccato che Pemberley si fosse focalizzata su altre parole precedenti al finale. Joshua, che stupido non era, forse aveva visto più lontano di lei. Aveva avuto a che fare con Silene e Cassidy, conosceva i caratteri di entrambi almeno quanto i loro precedenti, con un po’ di arguzia era riuscito a fare i calcoli giusti per giungere alla conclusione che i due interessati non avrebbero voluto sentire, almeno da parte di Silene.
«E tu cosa hai fatto?»
Possibile che avesse accettato la scelta dell’amico senza farsi valere? Difficile, considerato il carattere di lei. Eppure non era quello a preoccupare Pemberley, quanto più l’insicurezza di Silene – passata dal silenzio a un fiume di parole pronta a travolgerla – che assomigliava molto alla sua debolezza più grande, quella di non essere più andata avanti da un punto preciso nel passato. La vulnerabilità che incrinava lo scudo, un piccolo riflesso che negli occhi chiari brillava con meno convinzione perché intaccato da quello che aveva all’interno di se stessa, la paura che sospettava le si potesse leggere anche in superficie.
«Ho cercato di fargli cambiare idea e approfondire il discorso, ma era convinto della sua scelta. È stato un buco nell’acqua. Così…» si morsicò un labbro, indecisa se continuare o meno.
Permberley rimase sconvolta da quel gesto, non gliel’aveva più visto fare dai tempi del college, quando Silene era uscita da un’aula dopo un test e non era sicura di un paio di risposte, un tentennamento che non si era più voluta concedere nell’arco della vita; integerrima, cinica e risoluta come si era sempre dimostrata.
«Così ho chiamato Cassidy». La giovane mamma la guardò male, sapeva che         quel nome, prima o poi, sarebbe uscito dalle sue labbra, perché era direttamente collegato ai timori più profondi di Silene, nonché coinvolto a fondo in quel triangolo che aveva portato i tre vertici a ferirsi l’un l’altro. «Dovevo pur prendermela con qualcuno!»
Una giustificazione frettolosa e poco convinta, come se riuscisse a persuadere la bionda della correttezza della sua azione con quelle scarne parole, vuote come l’eco che risuonava fievole tra loro.
«Ho pensato che potesse c’entrare con la decisione di Joshua, ma mi ha detto che anche lui è stato scaricato. In realtà lo sapevo, perché è successo in mia presenza tramite sms, però pensavo fosse una lite passeggera. Invece Josh ha tagliato i ponti anche con lui».
Ecco l’errore di Silene. Sapeva che Cassidy non c’entrava in tutto quello, ma l’aveva trascinato nel mezzo della questione solo per il gusto di prendersela con qualcuno. O meglio, con lui; ora come anni addietro.
Era lì perché sapeva di avere sbagliato, ne era pienamente consapevole in quanto donna, ma voleva sentirsi dire che non era così, voleva sentirsi capita. Cosa che a Pemberley non andò giù.
«E ti domandi perché Yoshi sia scappato?»
«Certo».
Entrambe erano sorprese: Silene per la domanda quasi retorica dell’amica, Pemberley per la risposta sincera di lei, come se non avesse capito dove sarebbe andata a parare con quel discorso.
«Perché la prima persona che cerchi sempre è Cassidy».
Pemberley era pronta a esternare il proprio pensiero senza paura di ferire Silene, forse perché pensava che fosse giunto il momento di metterla davanti alla realtà dei fatti che lei cercava di evitare dai tempi del college. Un comportamento non del tutto edificante visto che tentava in ogni modo di lasciarsi quell’episodio alle spalle.
«L’ho cercato perché lo ritenevo responsabile della rottura della mia relazione» rispose sulla difensiva. Solo lei, per fortuna, sentiva il battito accelerato della menzogna, perché se Cassidy si era infilato tra se stessa e un’altra persona era colpa sua, perché l’aveva permesso.
Lo sapeva, ma non era pronta ad ammettere una simile cose a renderla vera; significava ammettere di aver sbagliato per tutto quel tempo e non era certo il momento. Era corsa da Pemberley per sentirsi compresa, non perché le venisse rinfacciato ciò che di sbagliato aveva fatto nella sua vita, non lo accettava, soprattutto da una persona che – secondo lei – agiva nello stesso identico modo. A differenza sua, però, non ne era cosciente.
«Tu lo ritieni responsabile di ogni tuo fallimento in amore». Un’accusa senza cattiveria, una constatazione arida che feriva più di un’insinuazione rabbiosa, perché aveva il retrogusto della consapevolezza; era come se Pemberley fosse sempre stata a conoscenza della cosa, ma fosse sbottata in quel momento senza un vero perché.
«Forse, ma questo cosa c’entra?» concesse Silene meno accattivante rispetto a prima. Se non riusciva a frenare l’amica come avrebbe potuto fermare se stessa davanti alla verità?
«Non vorrei ferirti, ma sarò estremamente sincera: le relazioni in cui ti imbarchi naufragano a causa tua. Sei tu a mettere Cassidy tra te e loro».
Non altre persone nel corso degli anni, ma sempre e solo Cassidy. L’unica costante oltre alla fine che aveva accompagnato ogni rapporto. Non era stupida, sapeva bene pure lei che le cose andavano di pari passo. Eppure l’eccessiva sicurezza di Pemberley nei suoi confronti l’aveva ferita: sperava di trovare un porto sicuro, non un muro contro cui andare a sbattere.
Così assunse i panni da avvocato con la sua migliore amica per la prima volta in dieci anni. Aveva imparato proprio in aula che il miglior modo per difendersi era attaccare e che, per salvaguardarsi, era meglio cambiare discorso.
Ecco perché si ritrovò a sputare dura: «Non provare a fare la persona sapiente ed equilibrata in materia Pem, non ti si addice. Non hai il diritto di parlare tu che giochi a salvare un uomo che non ha voglia di cambiare mentre fai gli occhi dolci al padre di tua figlia».
Odiava aver detto una cosa simile, si era tradita di nuovo: vittima del momento aveva espresso il proprio pensiero senza filtri. Ferire Pemberley, in quel frangente, sembrava l’unico modo per metterla sul suo stesso livello, cosa che le dimostrava quanto l’amica avesse ragione e lei non avesse argomenti validi dietro cui nascondersi oltre.
«Cosa stai dicendo? Nate è tornato per Naive, e andiamo d’accordo per lei prima che per noi. Senti, so che quello che ti ho detto è una verità scomoda…»
«Altrettanto». La interruppe acida prima che potesse concludere la frase.
Pemberley ignorò il commento e continuò, nonostante il comportamento dell’amica l’avesse delusa: «Ma dovresti fare un po’ di chiarezza riguardo i tuoi sentimenti, perdonarti per essere umana e capire cosa vuoi davvero. O meglio, chi».
Si alzò da quel tavolo dopo aver lasciato quaranta dollari sulla tovaglia per pagare la propria parte del pranzo e della mancia, irritata dalle accuse implicite che l’amica le aveva rivolto. Era la prima volta che le capitava di litigare con Silene e non le piaceva per nulla, come non gradiva il fatto che, per difendersi, dovesse trascinare nei propri casini pure lei, come se la sua vita non fosse già abbastanza caotica.
Pemberley era conscia di vivere in equilibrio precario, non le serviva certo una persona che, nonostante non fosse pronta ad accettare i propri errori, non esitasse a farle notare i suoi, non era disposta ad accettarlo.
«Sentiamoci quando avrai fatto pace con il mondo, non ho voglia di sentirmi offendere in modo gratuito solo per alleviare le tue pene».
La salutò così, senza cattiveria ma con la stanchezza che quel diverbio aveva portato con sé.
Silene rimase seduta in silenzio, impassibile nel caos che la attanagliava.
Aveva sbagliato tutto: pur di non ammettere un suo errore, uno sbaglio commesso anni prima e che continuava a trascinarsi dietro, aveva litigato con la sua migliore amica.
Si mise le mani davanti la faccia, scoraggiata. Ancora una volta l’orgoglio aveva avuto la meglio sul resto, lasciandola come anni prima il college l’aveva resa: arida e l’ombra di se stessa.
Sbuffò. C’era solo un modo per riprendersi quella che era, e aveva capito anche come fare per ritrovare la vera sé: ripercorrere la strada da dove l’aveva interrotta.
Ci aveva messo dieci anni per arrivare a quel passaggio, e ci avrebbe messo altro tempo per scendere a patti con la propria coscienza per accettare la scelta, ma ringraziò Pemberley per averla messa davanti alla realtà dei fatti.
Con un po’ di pazienza sarebbe arrivata ad ammettere quello che in una decade aveva rifiutato con tutta se stessa, doveva soltanto rimettere insieme i cocci della sua coscienza in cui si era specchiata e che pensava di non essere in grado di ricomporre. Ritrovarsi e ricomporsi era il primo passo verso l’accettazione della Silene più vera.
Un po’ di tempo e sarebbe riuscita ad accettarlo. E, quel giorno, avrebbe chiesto scusa a Pemberley, ringraziandola per essere stata così cruda con lei nel momento in cui non pensava di averne bisogno.
 
Era un sabato pomeriggio e Pemberley e Rhys erano sul divano di casa di lei a parlare e guardare ciò che la televisione poteva offrire mentre, con fatica, avevano relegato i ragazzi in camera a guardare un film d’animazione. Loro volevano andare al cinema a vedere il nuovo cartone della Disney, invece gli adulti avevano preferito rimanere in casa a rilassarsi.
Ecco cosa voleva dire delle avere responsabilità: provare stanchezza alla fine della settimana, cosa che i figli, o comunque i parenti, non potevano capire finché non la sperimentavano sulla propria pelle.
Ed era con quella che Pemberley si era avvicinata a Rhys, quasi inavvertitamente, sfiorando la sua gamba con finta indifferenza, cosa che gli fece sollevare un sopracciglio.
Non era abituato a oziare in casa – soprattutto in quella d’altri – e con un abbigliamento così casual per i suoi gusti, avvezzo com’era a mascherarsi d’impassibilità in un completo che non mostrava nemmeno un difetto, proprio come lui; eppure non trovava nulla di male in quello, per quanto gli fosse estraneo.
Forse era proprio così che si sentiva: estraneo. A se stesso, a quella situazione, a un rapporto.
Come se fossero abiti che non era assuefatto a portare, un qualcosa a cui non era in grado di adattarsi del tutto.
Fu distratto dal proprio senso di inadeguatezza da Pemberley che, con calma, si era appoggiata al corpo di lui, che si girò per guardarla con un sopracciglio alzato, quasi quell’espressione potesse sostituire una domanda riguardo il suo atteggiamento.
Pem non attese altro tempo e lo baciò con decisione, avida di quel contatto. Era sì stanca del lavoro, ma non di ciò che la vita aveva da offrirle e, in quel momento, la voglia di entrare a contatto con Rhys prevaleva su tutto il resto.
Lui rispose, all’inizio incerto: se da una parte il desiderio di stendersi sul divano e approfondire il contatto era forte, l’altra del suo cervello – quella più razionale – gli ricordava che oltre la porta della camera di Naive c’erano due ragazzini a cui loro dovevano dare il buon esempio e quello, lo sapeva bene, non rientrava in nessun tipo di buona educazione.
Mise da parte l’indecisione, cosa che odiava perché non lo rappresentava affatto, e decise di rispondere all’irruenza di Pemberley. In fondo non si trattava di assecondare un istinto, ma di lasciare che prendesse il sopravvento il compromesso che permettesse loro di non superare il limite, ma che soddisfacesse la loro voglia di scoprirsi.
Peccato che a Rhys l’adattarsi non andasse poi molto a genio. Era un territorio a lui nuovo – ostico – in cui non si era mai mosso. Non era sua abitudine tirare il freno a mano, le mezze misure per lui erano adatte a coloro che non sapevano come gestire la situazione e vivere la vita al meglio. Invece lui era solito intraprendere le strade del tutto o del niente, e di solito si concedeva tutto. Lampi brevi ma intensi che illuminavano a sprazzi i giorni del suo successo.
Era conscio, però, che da quando Austin era entrato nella sua vita la visione di questa andasse ridimensionata, per quanto accontentarsi non gli piacesse particolarmente.
Pemberley non era un compromesso, ma non poterla vivere come lui aveva sempre fatto nella sua intera esistenza era limitante. Eppure non dipendeva da lei.
Quei secondi persi a ragionare sul da farsi gli costarono cari: stava iniziando a godersi il contatto con Pemberley e il suo corpo quando il campanello vibrò nell’aria, la scheggia di realtà che aveva rotto la bolla in cui si erano chiusi, dove erano soli e potevano fare quello che meglio credevano, almeno per qualche minuto. Era l’illusione di avere ancora potere sugli eventi, cosa che non gli apparteneva più.
«Aspetti qualcuno?» le chiese confuso e contrariato, aveva tutta l’intenzione di riprendere il discorso da dove era stato interrotto, e sapere che di sotto c’era qualcuno che cercava una persona all’interno della casa non contribuiva alla cosa.
«No» rispose Pemberley nell’alzarsi mentre si sistemava i vestiti nel tentativo di eliminare ogni traccia del passaggio delle mani di Rhys. Nonostante non fossero molte le persone in grado di andarla a trovare, preferiva di gran lunga fare bella figura e presentarsi in modo adeguato. In fondo tutta l’educazione impartita dai genitori non era andata persa, e se fossero stati loro ne avrebbero avuto la prova.
«Chi è?» domandò nel microfono del citofono.
Quando le giunse risposta si girò con aria confusa e un sopracciglio alzato verso Rhys.
«Chi è, dunque?» l’espressione di lei non gli piaceva nemmeno un po’.
«È Nathan». Gli si rivolse sempre più dubbiosa.
Rhys sbuffò. Ormai essere interrotti da Nathan era diventata una costante. Poco importava che fosse al telefono, con un messaggio o in qualche altro modo, come se non bastasse la presenza di due minorenni a tenerli a debita distanza, ora ci si metteva anche di persona.
La verità era che non lo sopportava per molti motivi. Il legame che aveva avuto con Pemberley e che, a causa di una figlia in comune, continuava a vederli interagire in buoni rapporti, per giunta, senza tralasciare il fatto che Nathan fosse una presenza invadente tra loro due, qualunque cosa stessero cercando di costruire, e si divertiva un mondo a infilarsi tra loro perché, ingenua come era, Pemberley gli teneva sempre la parte, giustificandolo con la scusa del “È il padre di mia figlia. Tra noi non c’è più niente”.
Due cose su cui lui aveva le idee chiare, ma sembrava che il secondo concetto non fosse chiaro al paparino che si divertiva a improvvisarsi. Era arrivato da qualche mese e si atteggiava come se fosse stato accanto alla figlia da una vita, quasi fosse la cosa più facile del mondo. Forse, in segreto, Rhys gli invidiava la spontaneità con cui si era avvicinato a Naive, cosa che a lui non riusciva con Austin, nemmeno se costretto.
«Ciao!» entrò Nathan senza prestare attenzione agli ospiti in casa. «Dove è la mia ranocchietta?»
Solo allora si voltò verso il salotto e vide Pemberley con un’aria sorpresa e Rhys con un’espressione scocciata. Almeno di una delle due poteva ritenersi soddisfatto.
«Nate? Cosa ci fai qui?» il tono isterico e incredulo di Pem lo irritò, ma decise di non assecondare la sua vena melodrammatica. Voleva dimostrarle di essere maturato e non darle modo di attaccarlo in modo deliberato.
«Sono venuto a prendere Naive. Sabato alle tre, come ci eravamo messi d’accordo. Sono le tre di sabato, dunque…» concluse con fare ovvio, più rilassato dopo quella spiegazione.
«Nathan…» lo apostrofò esasperata Pemberley. «Avevo detto le cinque, non le quindici».
Era sabato e, di solito, Naive lo passava da lui due volte al mese, e quello era uno dei fine settimana prestabiliti.
«Ah». La sicurezza dell’interessato venne meno, tanto che non seppe come giustificarsi. «Sicura? Magari ho confuso, sai, sono pieno di cose da fare ed è possibile che io mi sia sbagliato».
«Tranquillo, niente di preoccupante». Cercò di minimizzare Pemberley mentre tentava di venire a capo di quella situazione imbarazzante. Non era sciocca, si era accorta che tra i due non scorreva buon sangue, due galli nello stesso pollaio portavano solo guai, quindi doveva trovare una soluzione al più presto.
Nathan fissò Rhys, spaparanzato sul divano, e lo vide mormorare chiaramente le parole: “Che coglione”.
Lo detestava e, al contrario di come si era comportato per una vita intera, non faceva nulla per nasconderlo o per essere gentile con lui.
Non riusciva a capire cosa Pemberley vedesse in un tipo così stronzo e cinico, a cui non importava niente di nessuno. Inoltre detestava che frequentasse la casa in cui viveva Naive con assiduità, perché la figlia ne parlava spesso e con discorsi atti a lodarlo. Austin e Rhys di qua, Rhys e Austin di là.
Odiava tutta quella situazione, perché lui era il padre e non gli andava giù che Pemberley non avesse affrontato con lui un argomento così delicato: aveva introdotto nella vita della figlia uno sconosciuto con cui non era nemmeno certa di avere una relazione stabile, e Nathan in tutto quello non era stato interpellato. Certo, sapeva di essere arrivato da poco e – da quel punto di vista – avere poca voce in capitolo, ma era pur sempre il padre, un padre che si stava facendo in quattro per rimediare alla propria mancanza degli anni precedenti e che faceva conciliare tutto quello con un lavoro nuovo che, per quanto stimolante e bello fosse, era veramente stressante.
E – come se non bastasse – Rhys, con la sua faccia di bronzo, si permetteva di giudicarlo mentre lui tentava di essere all’altezza delle illusioni che Pemberley aveva sempre avuto su di lui fin dall’adolescenza. Deluderla e distruggere l’alta considerazione che aveva di lui era, per Nathan, un pensiero inconcepibile, non era pronto a perdere il suo appoggio incondizionato o, peggio, la sua fiducia.
«Scricciolo» urlò Pemberley dopo aver intercettato i ringhi impercettibili che i due uomini si stavano scambiando. «vieni a salutare tuo papà?»
Naive si precipitò il prima possibile fuori dalla stanza spalancando la porta, seguita a ruota da un taciturno Austin.
«Papà!» urlò prima di saltargli tra le braccia tese, atterrando sui piedi di Nathan con i propri. Forse era grande per quel genere di effusioni, ma era felice di vederlo e, in più, era una cosa che gli era mancata durante tutti quegli anni. “Meglio farlo a dieci che a venti”, le aveva detto lui una volta in cui avevano affrontato la questione.
«Ranocchietta!» la apostrofò prima di baciarle i capelli.
«Austin». Lo salutò con un sorriso.
«Ciao» rispose il ragazzino con un gesto simile, anche se più impacciato. Ecco, quello era un Hewitt a modo e che gli piaceva. Non parlava a sproposito, per quanto avesse fatto dei passi da gigante con l’inglese in quei mesi.
«Cosa ci fai qui? Non dovevi venire alle cinque?»
Nahtan alzò gli occhi al cielo, anche sua figlia riusciva a redarguirlo.
«Ho confuso gli orari». Le fece l’occhiolino. «Ma la verità è che avevo voglia di vederti».
«Quindi cosa facciamo ora?»
La domanda che tutti gli adulti si stavano ponendo, ma che solo Naive ebbe il coraggio di fare.
«Cinema!» urlò Pemberley dopo essersi isolata per minuti interi dal contesto per trovare una soluzione adatta.
Lo urlò con fare così esasperato e un tono di voce così alto che tutti la guardarono come se fosse pazza.
Si schiarì la voce e cercò di assumere l’autocontrollo che in realtà non aveva: «Mi spiego meglio. Voi due non volevate andare al cinema a vedere quel nuovo film d’animazione?»
I più piccoli di casa risposero con entusiasmo a quella proposta, creando più scompiglio di quanto gli altri si fossero aspettati.
«Nate, cosa dici?» Pemberley gli rivolse un sorriso così luminoso che rimase stordito per qualche secondo.
Beh, un paio d’ore al cinema non avrebbero fatto male a nessuno, specialmente se serviva a tenere lontana Pemberley da Rhys, dato che i vestiti sgualciti e i capelli in disordine parlavano per loro. Non gli piaceva l’idea che passassero del tempo avvinghiati nella casa in cui Naive dormiva ed era cresciuta, lo trovava disgustoso.
«Per me va bene»
«Perfetto» rispose Pem prima di mettergli in mano la giacca che si era tolto nell’entrare in casa. «Vi conviene avviarvi se non volete perdere lo spettacolo».
«Eh? E voi, scusa?» forse gli era sfuggito un perso della questione.
«Noi…» Pemberley si morse un labbro. Brutto segno,  constatò Nathan, sapeva che lo faceva quando era in difficoltà.
«Abbiamo delle cose da fare» concluse Rhys ambiguo e soddisfatto, un ghigno sarcastico stampato sulle labbra.
Nathan lo fissò con odio, se non ci fossero stati dei minori l’avrebbe preso a pugni senza rimpianti.
«Delle cose che non potete rimandare?» chiese tagliente.
«Deve… aiutarmi con delle scartoffie burocratiche» esalò lei spossata da quella conversazione. «Abbiamo sempre poco tempo durante la settimana, ne approfittiamo del week-end. E poi tu sei qui per vedere Naive, io mi sto solo togliendo dai piedi»
«Sì, certo». La ammonì con lo sguardo mentre i ragazzi si infilavano le scarpe e prendevano il necessario.
Era passato dall’essere padre a un misero baby-sitter solo per garantire alla propria ex ragazza del liceo una scopata, era chiaro. Il problema era che non gli andava giù, per niente, anche perché se Pemberley non fosse stata influenzata da quell’idiota di Rhys non si sarebbe mai comportata così, ed era quello a bruciargli.
Lui stava facendo di tutto per rispecchiare al meglio l’idea che Pem aveva di lui, ma lei non faceva niente per mantenersi all’altezza del ricordo della persona che aveva amato. Scoprire che la Pemberley di una volta si stava scolorendo tra le grinfie di un uomo senza sfumature lo faceva indignare.
Forse soffrire.
«Ci vediamo per cena». Lo rassicurò. «Veniamo a prendere Austin, tanto saremo a Manhattan».
«Perfetto» rispose dopo essersi infilato la giacca leggera. «La mia parcella da baby-sitter la concordiamo dopo?»
Una domanda sarcastica che non passò inosservata a Pemberley, cosa che la fece sentire un po’ più in colpa, anche se aveva cercato di nasconderlo.
«Ti ridarò i soldi del biglietto di mio fratello» rispose Rhys divertito.
«Ti prego, ad Austin posso offrire tutto con piacere, non è un problema». Sottolineò con rabbia crescente. «È il mio disturbo che non so come potrete ripagare».
Si avviò alla porta con la testa che ronzava a causa dei ragionamenti veloci che in essa si rincorrevano, prima di dare tempo agli altri due di rispondere in alcun modo aggiunse: «Ragazzi, prendete tutto l’occorrente, io vi aspetto in auto con il motore accesso, non abbiamo tempo da perdere».
Si chiuse il pannello alle spalle con veemenza, senza salutare.
Volevano giocare sporco, senza tenere conto di lui?
Bene, avrebbe fatto lo stesso: si sarebbe dimenticato della loro esistenza e avrebbe agito come se non avesse dovuto rendere conto a nessuno delle proprie azioni personali. Tutti attorno a lui facevano così d’altronde, non capiva perché rispettare gli altri quando questi erano i primi a fregarsene di tutto.
Mentre saliva in auto estrasse il cellulare e compose il numero.
«Ehi ciao!» una voce sollevata dall’altra parte, un tono così caldo e sincero che riuscì a fargli nascere un sorriso spontaneo sulle labbra.
«Domanda dell’ultimo minuto: hai qualcosa da fare oggi?» era da un mese ormai che frequentava Cynthia, e si sentiva bene. Era una persona piacevole che riusciva a fargli dimenticare con facilità cosa ci fosse di sbagliato nella sua vita, a partire dal passato. Era fresca e riempiva la sue giornate con naturalezza.
Con il tempo era diventato normale cercarla e passare sempre più sere con lei, perché nonostante si fossero conosciuti sul lavoro, era una persona che distendeva i suoi nervi e non gli ricordava affatto gli uffici in cui passava gran parte delle sue giornate.
«Il manuale di seduzione per imbranati mi suggerisce di rifiutare ogni tuo invito per non dimostrarmi troppo disponibile e accrescere così il tuo desiderio nei miei confronti». Esordì con finta sicurezza, concludendo con una risata. «Ma io non sono molto brava a seguire le regole, quindi posso dirti che non ho nulla da fare, cosa volevi propormi?»
Cynthia era simpatica, ironica e intelligente. Aveva i capelli corti e gli occhi nocciola, tratti quasi orientali e la carnagione leggermente olivastra. Sapeva il fatto suo e riusciva a dosare la serietà e la spensieratezza con fare invidiabile.
Era un qualcosa di totalmente opposto alle sue scelte passate.
Cynthia era diversa, e a Nathan bastava per poter pensare di ripartire di nuovo.
«Cosa ne dici ci passare il pomeriggio con me, Naive e un suo amico?» si girò a fissare la porta, sperava di concludere la chiamata prima che la figlia arrivasse, le domande avrebbero potuto affrontarle quella sera a casa, nella calma delle quattro mura che aveva comprato per stare accanto a lei e proteggerla, non gli piaceva l’idea di subire il terzo grado della figlia davanti all’amichetto che, per quanto buono risultasse, era una persona esterna alla faccenda, non voleva renderlo partecipe di cose che non lo riguardavano.
Specialmente se poi avesse riferito tutto a Rhys.
«Nate…» sospirò, sorpresa e allarmata. «Non è… presto? È una cosa importante quella che mi proponi, e usciamo da un mese circa»
«Lo so, ma ci tengo che ti conosca. Siete parti della mia vita, anche se in due misure diverse. Non voglio che ti ignori, non più». Nathan doveva solo abituarsi a quella cosa, si era detto sentendo una fitta di senso di colpa allo stomaco. Non stava giocando, ne era conscio perché non era da lui, ma aveva accelerato le cose per fare i propri comodi, e non era giusto.
Si stava comportando come Rhys e la cosa lo disgustava, ma scacciò anche la nausea.
«Ti presenterò come una mia amica. Avrò il diritto di avere amici anche io in una città nuova, no?» sorrise più tranquillo, parte della sua sincerità – con quell’ultima frase – era ritornata a galla.
«E cosa avevi in mente?» domandò più serena dopo quella precisazione. Ora sembrava che l’offerta la allettasse e la lusingasse. Normale, dato che era da mesi che tentava di diventare importante per Nathan e, finalmente, c’era riuscita.
Era come se il mondo, dopo tempo, avesse ripreso a girare nel verso giusto, con il sole che sorgeva a est e tramontava a ovest.
«Un bel film d’animazione. Penso parli di draghi e cose simili. Noi però potremmo dedicarci ai popcorn e alle bibite gassate e ipercaloriche. Come ti sembra come programma?»
Sentì il portoncino del palazzo aprirsi.
Sapeva di avere poco tempo anche se i ragazzi ancora non si vedevano.
Questione di secondi per capire se essere un perdente o un uomo spregevole ma, a decretarlo, sarebbe stata Cynthia.
«Accetto solo se i popcorn sono dolci» rispose lei allegra, a cuor leggero.
Nate sospirò di sollievo, avrebbe avuto tempo per pensare ai sensi di colpa di quella scelta.
«Ti lascio libera di scegliere, che non so dica che non sono un gentiluomo»
«Allora non posso rifiutare, anche perché amo i draghi». Concluse Cynthia mentre i ragazzi uscivano dalla porta per avviarsi verso l’auto. «Dove ci vediamo?»
«Al Village East Cinema, sulla Second Avenue. Conosci?»
«Certo, sono di New York, io». Lo prese in giro. «Ci vediamo là tra quarantacinque minuti?!»
Sentì le portiere aprirsi e le espressioni entusiaste di Naive e Austin invadere l’abitacolo.
«Ottimo, a tra poco».
E, prima che questi due potessero prestare attenzione alla chiamata appena avvenuta, riattaccò arrabbiato per essere diventato almeno un po’ l’uomo che non avrebbe mai voluto essere. L’uomo che, forse, con gli stessi modi piaceva a Pemberley.
Era convinto di essere andato a New York per non scendere a compromessi, ma al momento non era così convinto di quella certezza.
 
Era un sabato pomeriggio di inizio maggio e il clima concedeva lunghe passeggiate per la città con giacche leggere e abbigliamento altrettanto clemente per gustarsi la città senza la fretta di correre al riparo in qualche locale caldo e una bevanda bollente al seguito.
Fu così che Pemberley propose a Rhys due passi per Central Park. L’uomo, tempo addietro, le aveva confessato che non si era mai concesso una visita approfondita del polmone verde di New York che, oltretutto, campeggiava vicino a casa sua.
Permberley, sconvolta, aveva colto il loro vedersi per portare Naive e Austin a fare un giro trascinando tutti nel parco cittadino più famoso per un’escursione approfondita.
Avevano esplorato le rive del lago centrale, ammirato cigni e barche, proposte di matrimonio e liti. Poi erano passati sopra dei ponti e avevano goduto di paesaggi mozzafiato e angoli nascosti quasi selvaggi. Una piccola cascata, un tunnel di pietra. E poi cani, scoiattoli e l’attraversamento dei campi da gioco piuttosto che le aree per bambini attrezzate con ogni gioco adatto a farli svagare.
Innamorati intenti a gustarsi intimi pic-nic, timidi approcci di studenti insicuri e amici che si concedevano un paio di ore libere per un pranzo a contatto con la natura.
La città stava sbocciando dall’inverno rigido che si era protratto più a lungo del dovuto, e Pemberley si sentiva parte di tutto ciò, e il merito era di Rhys. Per quanto non fosse la sua indole lasciarsi andare riusciva a seguirla nelle sue iniziative più scarne come la passeggiata in un parco in compagnia dei ragazzi; per lei era una cosa importante e lui non si negava più, riempiendola di gioia.
Si era irrigidito quando, in lontananza, aveva riconosciuto alcuni paparazzi del New York Times intenti a fotografarli, ma Pemberley l’aveva tranquillizzato. Potevano scrivere e mettere tutte le foto che volevano, ma solo loro sapevano di cosa era composto il rapporto, quelle foto non avevano alcun valore. Si disse quasi più preoccupata per Naive e Austin che, nonostante la giovane età, avrebbero ritrovato le proprie facce su un quotidiano.
«Rhys». Naive si girò di scatto verso lui e Pemberley che stavano parlando di riservatezza mentre lei aveva smesso di inseguire Austin, rosso in volto e felice per quella libertà così genuina, uno dei pochi momenti che si era ritrovato a vivere con il fratellastro. Era la cosa che più l’aveva fatto sentire a casa in quei mesi, ma non l’avrebbe detto a nessuno.
«Sì?» distolse gli occhi da Pemberley e li rivolse alla ragazzina. Fu incuriosito da quel richiamo perché, per quanto si frequentassero da tempo, non riusciva a ricordare altri momenti in cui gli si fosse rivolta in modo diretto.
«Perché non prendi la mamma per mano?» per sottolineare la cosa corse verso l’amico e imitò il gesto, indicando poi altre coppie che, come loro, si prendevano del tempo per stare insieme.
Naive aveva visto un sacco di persone cedere a quell’eccesso di intimità in pubblico, a partire da sua padre, e voleva sapere perché sua madre e il suo ragazzo non lo facevano mai.
Rhys rimase spiazzato da quella domanda, non aveva una risposta sensata a riguardo. Non era come rispondere a una domanda sulla finanza perché non c’era un postulato adatto. Non c’era un perché, e la cosa lo spaventava parecchio. Sapeva che non era questione di raziocinio, e lui oltre alla ragionevolezza non sapeva andare.
«Non ne capisco il motivo» rispose sincero e sulla difensiva.
Ricordava che da piccolo aveva stretto più volte la mano di una tata fuori dai propri istituti che quella della madre nell’intimità della propria casa o nel bel mezzo di eventi pubblici, perché gli aveva insegnato che soprattutto davanti alle persone non era buona cosa mostrarsi impauriti, era meglio far vedere di essere in grado di muoversi con le proprie gambe, senza appiglio. Di qualunque tipo esso fosse.
Pemberley gli sorrise indulgente: «Non hai mai provato l’emozione di prendere una persona per mano?»
Le piaceva poter essere lei la prima a cui rivolgeva certe attenzioni, in qualche modo sarebbe stata sempre importante. Inoltre la rendeva necessaria nella vita di un uomo che non era abituato a contare sugli altri, e il fatto che Rhys di lei si fidasse al punto da seguirla la lusingava parecchio.
«Perché, suscita emozioni?»
Odiava addentrarsi in terreni a lui sconosciuti, ma accettare di dividere la propria vita con una donna portava a doversi aprire, almeno in parte, di quello ne era consapevole. Aveva avuto altre storie importanti, seppur poche, e ricordava quanto fosse rilevante la condivisione. Ecco perché erano finite: Rhys aveva deciso che certe cose non facevano per lui.
E non capiva cosa ci fosse di tanto speciale in due mani che si univano.
Pemberley si fermò e gli tese una mano.
«Non lo so, dimmelo tu».
Il momento della verità.
Accattare, stringere la mano e buttarsi nell’ignoto, o rifiutare e far cadere le basi di una situazione che poggiava su un precario equilibrio. Da una parte avrebbe sperimentato qualcosa di nuovo e solidificato un qualcosa che gli sarebbe tornato utile, dall’altra avrebbe buttato all’aria mesi di esili progressi che ormai formavano la sua nuova stabilità, mai così duramente ricercata.
Strinse la dita tra quelle di Pemberley con insicurezza, adattandosi tra gli spazi più facilmente del previsto.
Un contatto di pelle che andava molto oltre la superficie, una cosa che sentì vibrare nel sangue quando Pemberley intrecciò la propria mano attorno a quella di lui.
«Allora, come ti sembra?»
Le fissò incuriosito e spaventato. «Meglio del previsto».
Ripresero a camminare con lo sguardo dei due ragazzini su di loro. Naive era soddisfatta mentre Austin – da buon maschio – era disgustato, tanto che lasciò la presa dell’amica per dirigersi verso una zona con varie attrazioni, tra cui le funi su cui arrampicarsi.
«È piacevole».
Ed era vero, perché il calore di quel contatto lo rassicurava, lo faceva sentire protetto per la prima volta. Affidarsi alle cure di un’altra persona era spiazzante e alleggeriva l’anima, e Rhys riusciva a percepire quanto la cosa lo facesse sentire bene.
Eppure non riusciva a ignorare la sensazione pesante che a ogni passo gli impediva di respirare a dovere.
Era il panico. Maggiore di quello provato alla vista dei fotografi che li immortalavano insieme, decretandoli agli occhi del mondo quello che lui non riusciva ad accettare quasi in privato: una coppia.
Più del buttarsi in qualcosa che lui non conosceva bene, come una relazione, il condividere qualcosa di serio con una donna o prendersi cura di un parente come se fosse il suo genitore.
Quella mano diventava incandescente a ogni centimetro mosso in avanti, perché lo stava portando lontano da qualcosa che non poteva più avere: il Rhys che era sempre stato e che non gli era mai dispiaciuto, anzi.
Era quella la sensazione che più lo faceva soffocare, l’essere conscio di abbandonare quello che era destinato a essere, quello che era sempre stato, per scendere a compromessi e diventare un qualcuno che non aveva mai voluto. Un compagno, una specie di padre.
Forse un giorno, ma non in quel modo, non tutto insieme. Non contro la sua volontà che era riuscita a schiacciare per anni quella altrui, tanto da permettergli di costruire un impero e far piegare New York ai propri piedi.
Era Rhys che doveva piegarsi in quel momento per sopravvivere, e non era sicuro di essere pronto per farlo.
Si sentiva come se, per quanto piccola e delicata, la mano di Pemberley fosse sulla sua gola, pronta a togliergli il respiro. Un passo in più e la pressione aumentava. Era come la corrente marittima che portava la propria vittima verso il fondo, un progressivo annegare nel mare della propria consapevolezza, travolto dall’onda che lo spingeva verso un futuro che non aveva costruito con le sue mani e che spazzava via il passato come se fosse stato d’aria e non fonte di sacrifici e sudore. Un’onda così potente da farti piegare, anche se non ti faceva respirare. Non come tu avevi fatto fino a poco prima che ti travolgesse.
«State bene insieme». Decretò contenta Naive, osservandoli mentre li precedeva, camminando a ritroso per farlo.
«Ed è una cosa che mi piace da vedere. Un po’ come per papà a Cynthia»
Il sorriso di Pemberley si tirò, come se fosse stato punto all’improvviso dal gelo dell’inverno appena passato.
«Scricciolo… chi è Cynthia?»
«La nuova ragazza di papà, quella che a volte tiene per mano come fate ora voi».
Si girò e raggiunse Austin, pronta a sfidarlo sulla propria abilità.
Se la notizia fece distendere le spalle di Rhys, rincuorato dalla superficialità attribuita a quel gesto, Pemberley si tese ancora di più.
Nathan le aveva nascosto di avere ripreso la propria vita, di aver aggiunto un tassello importante che in quegli anni era sempre mancato a entrambi, ma Naive la conosceva, e sapeva il ruolo che ricopriva questa donna nella vita del padre.
Si sentiva ferita e rimpiazzata, quasi avessero creato una dimensione solo loro in cui Pemberley non era compresa.
Quelle dita intrecciate, se prima le avevano dato la parvenza di un’ancora di salvezza, ora le sembravano la zavorra che la attirava verso il fondo, annegandola sempre più. Era come osservare un gesto avventato e compiuto con troppa leggerezza e ammirarne poi i disastrosi risultati.
Guardò Rhys con paura, e vide riflesso nel suo sguardo lo stesso sentimento.
Sorrise incerta e lo vide rispondere allo stesso modo, con una sincerità che la rincuorò e sorprese allo stesso tempo.
Forse, da quello tsunami, nessuno ne sarebbe uscito come prima, ma avrebbero potuto provare a salvarsi, insieme.

 


 
Buonasera. Chi non muore si rivede, vero?
Lo so, mi dispiace immensamente. Non ho scuse.
La storia forse è troppo per me, ma non ho intenzione di abbandonarla.
La verità è che la storia è sempre la stessa e io sono cambiata tanto, soprattutto nell'ultimo anno, ma c'è sempre stata, e nel percorso mi ha accompagnata, nonostante tutto.
A dire il vero è stata la scena iniziale a crearmi problemi, ma non ho avuto il coraggio di eliminarla: le amiche litigano, e l'ho trovata veritiera come cosa. Sono riuscita anche a collegarla con il continuo della storia, cosa che mi preoccupava. Ma tanto ho perso i vecchi appunti e ho dovuto rimettere per iscritto le trame dei singoli capitoli. Anche se ho mantenuti i fatti come li avevo sempre pensati ho apportato qualche aggiunta, ma almeno ho tutto nero su bianco.
Questo capitolo è di passaggio forse, ma mi è servito per svelare le carte - ovvero i sentimenti - di tutti. Chi si affaccia su qualcosa di nuovo, chi è geloso, chi è insicuro nonostante tutto.
Dal prossimo capitolo queste carte saranno rimescolate perchè è giunto il momento e perchè doveva andare così. I prossimi 6/7 capitoli, gli ULTIMI 6/7 di questa storia, saranno quelli più densi di avvenimenti, perchè ho portato la situazione ai limite, soprattutto per alcuni.
Spero di cuore che il capitolo vi sia piaciuto.
Ringrazio chi in questi mesi c'è stata, mi ha spronata, ha aggiunto la storia e, magari, ha lasciato il proprio parere.
Ho usato una nuova impaginazione per la storia, spero che non abbiate problemi con essa... In caso ditemelo che mi muovo per trovare soluzioni!
Facciamo così: vi dico che ritorno per le feste di Natale, almeno so di essermi presa l'impegno. Inoltre avere una storia a cui pensare tra un capitolo e l'altro della tesi mi consola.
Se volete leggere una mini long che ho scritto questa estate la trovate qui: The other side of Hollywood.
Qui invece il link al mio gruppo facebook: Love Doses.
Non vi annoio oltre, XO, Cris.
   
 
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