Anime & Manga > Saint Seiya
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Autore: Rucci    20/10/2008    6 recensioni
Giungono attutiti, i sentimenti, dalla battaglia. E gli anni che passano non fanno che attutirli di più. Doko e Shion continuano a cercarsi, e sono duecento anni che i loro cosmi risuonano da lontano, senza essersi detti un vero addio. Ma prima o poi la resa dei conti giunge.
[NO spoiler su "Saint Seiya - The Lost Canvas". La storia si rifà ai pochi accenni già dati da Kurumada nella serie ufficiale. Enjoy.]
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aries Shion, Libra Dohko
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mantelli bianchi


La guerra aveva lasciato dietro di sé tanti morti e tante macerie che l’addio era stato solo una delle tante emozioni che il passaggio della falce scarlatta di Ade aveva tranciato a metà. Giungevano attutiti, i sentimenti, dalla battaglia. Come se un colpo troppo forte alla testa, uno dei tanti, avesse annebbiato vista e udito, tu solo nel polverone, in una nebbia di ombre colorate. Nessun colpo fatale, nessuna percezione del dolore. Eppure, alla fine di tutto, ad abbassare lo sguardo, quella falce di morte tante volte sfiorata aveva deciso di non tagliarti la testa; in campo, si era piantata nel cuore come un paletto, senza riguardi, e ne stillavano lacrime e sangue. Lacrime e sangue.
Corpi di cavalieri giacevano avvolti in guaine di metalli preziosi, e mantelli bianchi che nascondevano loro il viso. Era pallido, il viso, ed il bianco aveva particolare riguardo per gli occhi spenti. Oro, argento e bronzo rendevano loro l’ultimo tributo prima di lasciare i guerrieri, pronti per un nuovo destino, pronti per la speranza, i germogli e i fiori. I mantelli invece li avrebbero accompagnati. Dall’alto del cielo, le costellazioni sfavillavano feroci, ricevendo il sacrificio di sangue. Ariete e Bilancia, opposti, brillavano di luce trionfante, bianca e pura. Ma l’alone rosso delle stelle pulsanti lungo tutta la volta celeste palpitava, come gli ultimi spasmi potenti e fieri di un cosmo che si spegne.

Il contegno dei due cavalieri d’oro sopravvissuti era irreprensibile, come i volti dei bassorilievi, immobili eroi, che emergono dal passato sulle pareti di pietra delle cattedrali. Anche loro erano eroi. Anche loro già appartenevano al passato. Era già stato deciso. Athena l’aveva voluto. La dolce Athena dalle bianche braccia, commossa, aveva sorriso con gli occhi pieni di lacrime che erano stelle (altre stelle bianche e pure, e talmente più lucenti), e li aveva ricoperti dell’onore più grande. Si erano inchinati assieme, i mantelli bianchi come bandiere sventolanti.
Come lenzuoli di sepolcri.
Anche, sì. Ma era meglio non pensarci.
Stelle rosse palpitavano, fiere, e troppe lacrime erano state versate. La Terra non sapeva più piangere, asciutta. Giaceva stanca con gli occhi rossi, la vista e l’udito annebbiati. Non era davvero il caso di pensarci.
Giungevano attutiti, i sentimenti, dalla battaglia. E l’addio era stato solo una delle tante emozioni che il passaggio della falce scarlatta di Ade aveva tranciato a metà.

Chi sei tu
che nella sera ti fai sentire fioco
da così lontano,
come accendersi di torce?

Doko era andato in Cina respirando l’aria famigliare e antica delle cascate, il cuore gonfio di onore e responsabilità, che gravava sulle sue spalle larghe, così forte, Doko, in quel corpo così piccolo. Era giovane, allora. Ma con il cappello calato in testa e senza fare domande, come i vecchi, era partito.
Shion era rimasto in terra attica, la grande antica straniera, un mantello e paramenti carichi di potere e responsabilità, che pesavano sulle sue spalle larghe, elegante, Shion, in quel suo ergersi così carismatico. Era giovane, allora. Ma con la maschera d’avorio sul volto, senza fare domande, come i vecchi, era rimasto.

In Cina c’era l’aria pura di un tempo che non scorre, silenzio e tempo per pensare. Molto tempo per pensare. E Doko, così giovane, così vecchio, era l’unica persona che aveva scelto con un sorriso il luogo all’ombra dove si sarebbe seduto a vegliare per due secoli. Nei primi tempi avrebbe potuto muoversi, avrebbe potuto costruirsi una piccola casa, e sistemare per la vita quei terreni tanto generosi della Cina. La Cina gliel’avrebbe permesso. Ma col passare del tempo, era inevitabile, quando il sigillo avrebbe incominciato a cedere sotto il peso degli anni e del cosmo di un dio potente e crudele un santo di Athena si sarebbe seduto, immobile, di guardia e sentinella, concentrando ogni più piccola fibra di sé stesso per contrastare gli spettri ululanti di cui i bambini di solito hanno tanta paura. Avrebbero battuto colpi e ringhiato, senza voce, sempre più insistentemente, fino a quando non si sarebbe rotto. E sarebbe occorsa molta più attenzione, per sentirli. Lungo gli anni avrebbe cominciato a muoversi sempre meno, e sarebbe arrivato il giorno in cui sarebbe stato necessario non potere più sciogliere le gambe intrecciate, e viaggiare solo con la mente. Dolcemente, un giorno sarebbe successo, in maniera molto naturale, alle prime paure di quella bambina dagli enormi occhi neri.
Roshi? Ho fatto un brutto sogno. C’era un fantasma, nella notte.”
Allora ossa stanche di duecento anni si sarebbero posate per l’immobilità, senza una spiegazione, sotto l’acqua, il gelo e il sole, un sorriso senza un perché, nel vento, leggero come uno scacciapensieri che tiene gli incubi lontani. Ma Doko non sapeva nulla di tutto questo mentre sceglieva con un sorriso più giovane il luogo dove si sarebbe seduto a vegliare per due secoli. Vi si sedette per la prima volta, scattante, senza un solo pensiero al mondo che non fosse il vento, per il momento. E pensò a che ora potesse essere, mentre la nebbia purissima dell’acqua della cascata gli riempiva i polmoni, per chi assaggiava l’acqua salata del Mar Egeo.

Chi sei tu…?

Si era illuminato da lontano, come la fiamma di una candela. Appena un punto.
Nella sera ancora blu di quando si accendevano le candele prima che arrivasse la Notte a distendere il suo mantello intessuto. Nύξ, la chiamavano, dove il Mar Egeo bagna la terra, e i greci dicevano del suo mantello che era nerissimo, come la pece, come l’inchiostro, come il mare quando va più a fondo, e a Shion pareva naturale. Solo così le stelle avrebbero potuto risaltare. Bianche splendenti come gioielli.
Ma era prima che Nύξ calasse il suo manto tenebroso che si accendevano le candele, subito dopo che Shion poteva deporre il peso dei paramenti, appena prima che il nero tingesse come acquerello le coste frastagliate. Ed era proprio come la loro luce fioca che si accendeva, quel punto lontano. Invisibile, minuscolo astro, poi la luce rossa, poi la fiamma lontana. Oltre il mare.

…che nella sera ti fai sentire fioco
da così lontano…

Morti e macerie, e l’addio era stato solo una delle tante emozioni che il passaggio della falce scarlatta di Ade aveva tranciato a metà. Giungevano attutiti, i sentimenti, dalla battaglia. E la separazione tra di loro era stata svelta. Erano gli eroi già scolpiti nei bassorilievi, già pronti al passato. La loro generazione era già ricordo. Shion vedeva ogni sera le tende immacolate spostate dal vento tiepido verso l’orizzonte, verso quella luce di candele, sventolare come mantelli bianchi.
Come lenzuola di sepolcri.
Come sudari.
Ma ancora non era tempo per pensarci.
Athena dalle bianche braccia, dagli occhi commossi che rifulgevano di tenerezza li aveva veramente ricoperti di onori grandi. Erano ciò che rimaneva. Erano i guerrieri della speranza. E in fondo, giungevano attutiti, i sentimenti, anche dopo la battaglia. Erano ombre colorate. Era un richiamo lontano oltre il mare.

…come accendersi di torce?

“Amico mio, mi cerchi da molto lontano.”
“Il cosmo fa molta strada, e supera i mari.”
“Lo avverto distintamente, come nel mezzo della battaglia, quando ci cercavamo, per sostenerci l’un l’altro. Quando dovevo accorrere, quando lo facevi tu. E allora risuonava alto per sollevarsi dalla polvere e dalle grida. Ma ora mi giunge distante, Doko, amico mio. Come accendersi di torce, da lontano. Sui bastioni.”
“È tempo di smettere di parlare di guerra. È tempo di pensare alla pace.”
“C’è pace, lì, presso i cinque picchi?”
“Pace da morire di noia. C’è pace, lì, presso il Santuario?”
“La guerra lascia le macerie da ricostruire.”
“Non un attimo di pace, Pontefice.”
“Ma ora che ti sento, mi pare di sentire anche la cascata.”
“È sempre qui, Pontefice, e non si sposta.”
“Mi rincuora.”
Shion non poté sentire la risata.
La intuì nelle ossa, come un impercettibile vibrare, e non seppe sorridere di rimando.
Provò nostalgia.
“L’addio è stato confuso, amico mio.” Si risvegliò a sorpresa, la torcia lontana al di là del mare, di luce dorata e fioca: “Ricordo il tuo volto come se fossi lì, eppure ti cerco senza poterti parlare, e ti sento senza poterti udire.”
“L’addio è stato solo una delle tante emozioni che ci hanno sopraffatto, come in sogno. Athena, il silenzio, la polvere. Si è mischiato tutto, annebbiandoci.”
“Non ricordo di averti salutato.”
“Lo hai fatto, Doko.”
“L’ho fatto, sì. Eppure non me ne ricordo.”
“E mi cerchi la sera, quando ancora non fa buio, come un fantasma. Noi non siamo morti.”
“È sera, lì?”
“Le candele sono accese da poco.”
“Non è ancora nera, la notte?”
“No. Sono rientrato da poco nelle mie stanze, e ti ho trovato quasi ad aspettarmi.”
Doko non rispose nulla, allora.
Però quando tornò a cercarlo lo fece sempre alla stessa ora, illuminandosi da lontano, come la fiamma di una candela. Appena un punto. Sempre lontano. Sempre oltre il mare. Prima che la notte si facesse nera.

Gli anni che passano attutiscono i sentimenti ancor più che la battaglia.
Scorrono come cenere fra le dita, palpabile e morbida. Lasciano aloni grigi. Sfumano.
La luce che si accende da lontano, come le torce sui bastioni, segnali luminosi attraverso i chilometri, è alla pari di un eco confuso in mezzo a tutto il resto. Sorprende sempre, e non giunge improvvisa. Non si accende nella notte più nera, spaventandoti. Segue sempre il tramonto, con delicatezza. È l’unica musica dolce nell’amarezza, una corrente d’acqua calda in alto mare. Non sai quasi più da dove provenga, ma le sei grato. Non ricordi quasi più quel volto. Non ricordi quasi più quella risata. Sono sprazzi confusi ed incredibilmente dolorosi che avvolgono il corpo in vampate, quando t’immergi nei ricordi, e i ricordi sono troppi, e per questo sono dolorosi. Rimani l’unico testimone al mondo di un’epoca bruciata, Athena, Athena, non è troppo?, pensa, Shion, quando tutto tace sul mare e il silenzio si fa innaturale, e le voci spente da un secolo – un gran Signore, un secolo, passa a larghe falcate, il mento rivolto in avanti, trascinandosi dietro il suo mantello – riemergono dalle profondità del niente. Suonano di una musica così diversa da quella del presente. Il pianoforte trova nuovi accordi, i pennelli marcano nuovi colori, ed improvvisamente i volti di un tempo hanno la consistenza bellissima e vecchia degli affreschi sulle cattedrali. Dei bassorilievi. Sono Storia. Perché li ricordi come vivi, pontefice di Athena?
Ma l’universo attorno è colorato, e più sonoro.
E altri anni attutiscono ancora i sentimenti. Un po’ come la battaglia.
Per un bambino dagli occhi grandi, Shion allunga la mano.
Riprende in mano strumenti e polveri di stelle, trasmette conoscenze e virtù.
Lo guarda, serio e coscienzioso, adoperare materiale celeste e parole misurate.
Pensa che vorrebbe guidarlo a lungo. Pensa che le sue spalle diverranno forti.
Lo vede già ammantato d’oro, chiudendo gli occhi, ed il suo cuore trova pace in un orgoglio gonfio di sicurezza. Per fortuna, per fortuna, prega Athena, per fortuna posso guardare in quegli occhi sicuri che lo trattengono alla realtà, di quella sola dolcezza che possiede il fatto di avere qualcuno accanto. Un po’ come gli occhi enormi e neri di una bambina in Cina, per cui Doko si deciderà fra poco ad intrecciare le gambe per sempre, su una roccia lontana. Per Mu Shion apre con gesti sacri un baule vecchio di tanti di quegli anni da non poterli contare, sotto uno sguardo silenzioso e carico di aspettativa. E gli tremano anche un po’ le mani affusolate e solcate dalle vene, mentre lo fa, ma sorride. Deve cercare, ma cerca poco, perché si fa trovare, ciò che cerca, e può prenderlo tra mani vecchie e spiegarlo come una bandiera.
Come lenzuola di sepolcri.
No, stavolta no.
Non ancora.
Si commuove anche, Shion. Facendogli dono di quello che ha, ammantandogli le spalle di mantelli bianchi, che per lui sono molto. Sono bandiere nel vento e negli inchini solenni, sono stralci di nuvole abbaglianti contro un cielo tanto turchese che la prima volta l’aveva meravigliato, sono il riserbo candido per l’onore di uomini che ricorda come fratelli. I nomi si confondono, mentre le lacrime minacciano di uscire, pizzicando gli occhi stanchi, e le ciglia sempre belle, verso cui il ragazzo che ora si trova di fronte da piccolo allungava dita minuscole, come se per lui fossero farfalle. Mu ha rispetto e sorride, e china il capo, per l’onore. Percepisce l’emozione del maestro e non dice nulla, come sempre, perfetto nella sola dolcezza che possiede il fatto di avere qualcuno accanto. Shion lo abbraccia, sospirando, e i ricordi sono troppi. Sorride, vinto. Già il presente è colorato e sonoro, e luminoso. Quando i ricordi pretendono di riavere luce è troppo, Athena, oh, è troppo.

Per Doko i ricordi erano meno attutiti, e meno spenti. Laggiù tra le nebbie purissime e il verde assoluto della natura nella sua perfezione, il tempo diventava un concetto astratto, ed ogni viso, luogo, sentimento era sullo stesso piano. Solo lui invecchiava, a guardia di un sigillo pieno di incubi.
Aveva visto nuovi volti, qualche volta. Li aveva conservati come tesori. Erano tutti passati.
Ma si avvicinava il tempo in cui avrebbe dovuto rimanere a vegliare più attento, più cauto, in cui i suoi passi avrebbero dovuto essere sempre più brevi. Già le sue stesse gambe cominciavano a cedere, ormai vecchie di tanti anni che nemmeno li si poteva confidare senza suscitare una bella risata. E ancora non c’era nessuna bambina dagli occhi enormi, lì, a fare risuonare belle risate. Solo la cascata, e un cosmo lontano, ancora dorato, colmo di ricordi belli e distanti.
Ah, ma gli anni scorrono come cenere ovunque, e sempre tra le dita, ingrigendo. I sentimenti si racchiudono, lasciando spazio al mondo e ai suoi cicli più grandi.
Così dall’universalità attratto, Doko viaggia con la mente e con lo spirito, soffermandosi di tanto in tanto su luoghi che i suoi occhi hanno visto, percependo il nascere di piccoli cosmi, che vede ogni tanto accendersi come torce, da lontano, sui bastioni. Sentinelle. Intuisce l’arrivo di una generazione nuova. Capisce che Shion, in terra di Grecia, sta radunando a sé bambini dall’animo puro e giovani uomini con forza nelle braccia, per risvegliare i loro universi nascosti. Li cerca. Da un bassorilievo bianco sulla parete di una cattedrale, conta sulla sua discrezione, la discrezione dei vecchi, sempre inosservati, per sorvolare con la mente quei luoghi, attento, gli occhi spalancati sul mondo come quando vide per la prima volta il cielo turchese del Mediterraneo e se ne meravigliò. Doko, solo nella sua solitudine e nel suo assoluto, un anno dopo l’altro, medita ed invecchia; e ascolta il palpito del mondo e la trasformazione nelle cose. E un giorno, costernato, si ritrova gli occhi pieni di lacrime.

“A volte ripenso al tempo trascorso, sorprendendomi di quanto sia. Ogni volta affiorano sempre più ricordi. Ma li sento sempre più distanti. Sono lontani, e ormai sfocati.”
“Lo pensi davvero?”
“Per te non è così?”
“Nella mia mente non c’è nessuna ombra. I ricordi si susseguono in ordine, assieme alle sensazioni. Qui è così facile ricordare. Quasi piacevole, nonostante la nostalgia. Ma è così amica, la nostalgia, per i vecchi, Shion: qui la mia sola compagna è la cascata immortale, che mi prega di raccontarle le mie storie. Per te è diverso.”
“Ti ricordi di me?”
“Mi ricordo di te? Certo che mi ricordo.”
“E come era, allora, Doko? Come ero, io? Gli anni scorrono tra le dita come cenere, ed ingrigiscono i colori. Anche adesso, ti sento come la prima sera in cui ti sentii da così lontano, ed anche allora le candele erano appena accese, e tu baluginavi da lontano come se fossi già un ricordo.”
“Vuoi che ti racconti com’era?”
“Sì, se c’è stato un tempo in cui noi due marciavamo fianco a fianco. Sono così vecchio, Doko, e il tempo mi scorre addosso sempre con più pesantezza. Ricordami com’ero.”
“Era l’epoca in cui l’uomo ancora non volava, eppure tu toccavi le stelle.”
“Era così.”
“Eri forte e giovane, allora, il più elegante, fra di noi. Passavi emanando autorità, alto com’eri, solenne. Una nave fra cortei di mantelli bianchi.”
A questo punto, era solo silenzio.
“Ma forse ero io che ti vedevo così. Non ero più alto di un soprammobile cinese.”
Doko non poté sentire la risata.
La intuì nelle ossa, come un impercettibile vibrare, e sorrise di rimando.
Provò nostalgia.

I sentimenti si dischiusero di colpo, come la corolla di un fiore sotto il primo sole.
Erano i mille petali bianchi delle ninfee sulla superficie della cascata, e Doko le vide stendere mille dita come per consolarlo, disperate, per raccogliere le lacrime a cui non arrivavano. Laggiù tra le nebbie purissime e il verde assoluto della natura nella sua perfezione, il tempo diventava un concetto astratto, e così i sentimenti, perfetti nella loro immutabilità, ignorando il mondo, persi nei suoi cicli infiniti. Così Doko accolse con sofferenza l’incrinatura crudele in quel ritmo perfetto, provando per la prima volta, da quand’era lì, vero dolore.

Shion.
Shion, amico mio, cosa è accaduto?

I fiori erano di sangue.

Perché non sento più il tuo cosmo, da lontano…?

Il sangue sapeva di tradimento.

…come accendersi di torce?

Assisteva ad una rivolta senza precedenti. Il Pontefice era stato assassinato da un Santo.
Muto, seduto sulla sua cascata, venne inondato dal corso della storia che accelerava, lontano da lui, che prendeva pieghe insospettate, che si ribellava ad ogni regola. Il sigillo, dietro di sé, sembrava vibrasse. Qualcosa turbava la quiete di quel luogo. Qualcosa l’avrebbe turbata per decenni. Si alzò, faticosamente. Mettere i passi uno di fronte all’altro era faticoso, constatò amaramente, quando le membra vecchie di secoli avevano dimenticato come si camminava e le lacrime offuscavano gli occhi.
È difficile, quando soffri. Oh, com’è difficile. Trattenere al di fuori i cicli del mondo, il sorgere e il tramontare, il vivere e il morire. Lo scorrere del tempo.
Sollevare le braccia lo è altrettanto – minuscole, rachitiche braccia, rattrappite dal tempo, come soffrì, per una volta assalito dai ricordi con più intensità del solito – e deve anche cercare, ma cerca poco, perché si fa trovare, ciò che cerca, e può prenderlo tra mani vecchie e spiegarlo come una bandiera.
Non smise di piangere, guardando la stoffa bianca gonfiarsi nel vento, tra gli spruzzi, come la vela di una nave. Pensò a Shion, e pensò ad un veliero imponente, una nave fra cortei di mantelli bianchi.
Zai Jian, amico mio.”
Lo guardò fluttuare nell’aria, elegante, librandosi nel vento.
Come lenzuola di sepolcri.
Come sudari.
Sì.
Proprio così.

 

 

Dedicata al dolce Mu, che mi ha dato l'imbeccata e che ha sfornato per me tanti biscotti.
Per ringraziamento, l'ho fatto comparsare in tutta la sua lillità.

  
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