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Autore: mamma Kellina    02/11/2014    12 recensioni
Primi anni del Novecento. Il mondo sta cambiando, ma le contraddizioni nate dal vecchio che stenta a morire e dal nuovo che fatica a nascere sono sempre più evidenti. Angela e Fabrizio sono figli del loro tempo dal quale sono pesantemente condizionati: timida e repressa da una rigida educazione lei, libero e insofferente alle costrizioni lui. Sono incompatibili e la loro unione sembra destinata a fallire. Eppure, nonostante le influenze del mondo esterno e i loro stessi errori, alla fine le loro anime si riconosceranno e sarà vero amore. Però non sarà facile perché:
… chi si conosce tanto a fondo da sapere chi è in realtà? Siamo tutti così. Però, anche se sembriamo solo alberi sbattuti dal vento, nel profondo le nostre radici stanno cercando a tentoni la strada nella terra per diventare più robuste e permetterci di resistere alle intemperie della vita …
Sullo sfondo di Napoli, Acireale, Firenze, Parigi, attraverso tanti personaggi, tutti di fantasia, ma che si muovono in un contesto storico ricostruito con grande cura sia per quanto riguarda avvenimenti realmente accaduti che personalità veramente esistite, un viaggio indietro nel tempo ricco di passione, di tradimenti, di gioia e di dolore, che spero possa essere appassionante ed avvincente.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Fu una fitta al petto a svegliarlo. Provò a toccarsi. Appena le dita si poggiarono sulle costole sussultò di dolore: doveva averle rotte. Come se non bastasse lo assalì un’ondata di nausea e per un breve momento ebbe paura di dover vomitare. Nelle sue condizioni non sarebbe stato piacevole. Cercò di respirare piano mentre un brivido di terrore gli passava lungo la schiena al ricordo del pestaggio subito la notte precedente. Doveva cercare di alzarsi, reagire in qualche modo. Con grande fatica si rizzò a sedere sul letto, ma  dovette restare qualche minuto immobile perché gli oggetti che arredavano la stanza si erano messi improvvisamente a ballargli davanti agli occhi. All’occhio, anzi, perché da un lato non ci vedeva affatto. Dopo un po’ riuscì ad alzarsi in piedi e ad arrivare davanti  allo specchio. Ebbe un tuffo al cuore. Quello non poteva essere Fabrizio Serra, il bel giovanotto di ventidue anni che faceva impazzire le donne! Quel volto riflesso  faceva paura: dei suoi lucenti occhi azzurri solo uno era rimasto normale, l’altro era gonfio e nero tanto da non mostrare più neanche la pupilla. Anche la bocca, di solito così delicata e affascinante nel sorriso, era tumefatta a causa di  un grosso taglio, mentre il blu profondo di un’ecchimosi si confondeva con il nero della barba non rasata. Avrebbe fatto meglio a non guardarsi, adesso si sentiva ancora peggio. Con enorme sforzo ritornò a distendersi e, cercando di calmarsi e di ignorare il dolore, si rimise a pensare all’aggressione della sera prima per capire come erano riusciti a conciarlo in quel modo. Non era stata colpa sua,  però. In circostanze normali, il fisico atletico e ben piantato gli avrebbe consentito di difendersi, ma era stato preso alla sprovvista da quei tre uomini che gli si erano avvicinati all’uscita della sala da gioco. Uno di loro gli aveva chiesto con gentilezza di accendere il sigaro e lui, senza nutrire alcun sospetto, si era fermato per porgergli il fuoco senza avvedersi che gli altri due gli si erano messi alle spalle e stavano per immobilizzarlo. In pratica non aveva avuto nessuna possibilità di movimento né aveva potuto sperare nell’aiuto dei pochi vetturini che transitavano con le loro carrozze per la strada solitaria a quell’ora di notte e che si erano ben guardati tutti dall’intervenire per non immischiarsi. C’era stato un momento in cui aveva pensato di non poter sopravvivere a tante percosse, poi, finalmente, non senza avergli fatto prima terribili minacce, i tre energumeni lo avevano lasciato andare. Era rimasto per un po’ mezzo svenuto sul marciapiedi bagnato. Quando si era ripreso stava così male che aveva accarezzato l’idea di rimanere lì disteso fino a quando qualcuno non lo avesse soccorso. Ma era notte fonda e per fortuna casa sua non era lontana. Si era fatto forza e pian piano, appoggiandosi ai muri come un ubriaco, con il passo vacillante, era riuscito a ritirarsi. Gli aveva aperto  Alfredo, il cameriere. Nel vederlo in quello stato pietoso si era lasciato sfuggire un grido sommesso. Con le  poche forze che gli erano rimaste, Fabrizio gli aveva fatto cenno di tacere: l’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era che si svegliassero i genitori! Con poche parole gli aveva raccontato l’accaduto e poi si era fatto aiutare a mettersi a letto. Il buon uomo gli aveva disinfettato le ferite alla meglio e poi l’aveva lasciato riposare, ma con i dolori che gli attanagliavano tutto il corpo, aveva passato una notte d’inferno.
Eppure il peggio doveva ancora venire  e l’idea di dover affrontare la madre lo faceva star peggio delle costole rotte. Fu quasi contento quando entrò nella stanza, meglio togliersi subito il pensiero.         
 Appena lo vide, Carmela proruppe in un grido di spavento. Si portò una mano sulla bocca per soffocarlo, pallida come uno straccio.
- Mio Dio! – disse e nella sua voce c’era tanto dolore che Fabrizio se ne sentì assai dispiaciuto. Cercò di tranquillizzarla.
- Non ti preoccupare, mamma, non è niente.
Provò ad alzarsi per abbracciarla, ma la testa prese a girargli e rischiò di perdere l’equilibrio.
La donna lo sorresse e, quasi piangendo, gli chiese:
- Chi ti ha ridotto così, figlio mio? Che hai combinato stavolta?
Si era preparato tutta una frottola su una rapina subita, però ora, sotto lo sguardo indagatore di lei, capì che non era  una stupida e che lo conosceva troppo bene. Non se la sarebbe mai bevuta. Preferì tacere.
- Tu finirai per rovinarti, sciagurato! È per i debiti di gioco che ti hanno picchiato, non è così? – lo incalzò l’altra.
Era meglio vuotare il sacco. Tanto non c’era dubbio che se non avesse pagato, quelli lì sarebbero tornati presto a finire l’opera. Lui, studente di legge, non aveva un soldo di suo.
- Sì, mamma - le rispose.
- Tuo padre è diventato una belva: ha giurato di non darti più un quattrino se non metti la testa a posto. Non lo sai questo?
- E allora puoi anche cominciare a comprarti l’abito a lutto perché questo è niente rispetto a quello che hanno minacciato di farmi se non restituirò la somma per il 15 di febbraio.
Ancora una volta la signora Carmela si portò le mani al viso in un gesto di disperazione. Fabrizio si sentì addolorato nel vederla così, ma era stato uno sconsiderato e adesso poteva sperare solo nel suo aiuto. La guardò supplicante con l’unico occhio che gli era rimasto aperto e nel farlo, non riuscì a dissimulare una smorfia causata dal dolore che gli procurava alzare la testa.
- Va bene, cercherò di parlare con tuo padre. Quanto devi dare?
Le rispose con un sussurro che si udì appena. Nell’afferrare la consistenza della cifra, l’anziana signora proruppe in un gemito. Era cosciente che suo marito non aveva più molte possibilità però ugualmente era disposta ad affrontare una battaglia con lui perché in quel momento la salvezza del figlio le stava più a cuore di qualsiasi altra cosa. Anzi, nel vederlo così sofferente, gli disse con tenerezza materna:
- Non ti preoccupare, in qualche modo faremo. Tu però adesso mettiti a letto e cerca di riposare. Manderò a chiamare il dottor Landi per farti curare. È una persona discreta e fidata, non andrà a raccontare in giro quest’ulteriore disonore a cui ci stai esponendo.
- Mi dispiace. Te lo prometto, non accadrà mai più, starò lontano dal tavolo da gioco.
- ...e dalle ballerine, dal tabacco, dai liquori, dai cavalli, dagli amici dissoluti... – continuò Carmela con tono di rimprovero.
Fabrizio tacque, mortificato. Sapeva bene quanto la madre avesse ragione. Adagiato sul letto, in un mare di dolore fisico e di pentimento tardivo, ascoltò il fruscio della sua lunga gonna mentre andava prima a chiudere le persiane per impedire ai raggi del sole di dargli fastidio e poi  usciva dalla stanza.
 
 
Il tranquillo trotto di Stellina e il verde del bosco che brillava nel sole della limpida giornata di fine gennaio, avevano calmato un po’ i nervi scossi dell’avvocato Ferdinando Serra. Da giorni ormai stava lottando con la moglie perché non voleva cedere alle sue preghiere e dare una mano al figlio scapestrato,  cacciatosi di nuovo in un mare di guai. Si era persino rifiutato di vederlo, pur avendo saputo da Carmela che l’aggressione subita l’aveva lasciato molto malridotto. L’aveva fatto soprattutto per non cedere davanti a quello spettacolo e farsi impietosire ancora una volta dopo aver solennemente giurato di non aiutarlo mai più. Certo, a pensarci bene Carmela aveva ragione: non potevano lasciarlo in balia di quattro delinquenti che di sicuro non avrebbero esitato a pestarlo a morte se non avesse pagato, eppure la rabbia gli faceva rimescolare il sangue quando si ricordava che invece di ascoltare le raccomandazioni  paterne e mettere la testa a posto, quel disgraziato aveva continuato imperterrito la sua vita dissoluta. Ora,  per procurarsi il denaro si era addirittura rivolto agli strozzini. Non rimaneva altro da fare che vendere la casa di Sant’Agata sui due Golfi: solo in questo modo avrebbe potuto racimolare la cifra necessaria per coprire il debito. Così, ancora una volta, gli sarebbe toccato intaccare la poca ricchezza rimastagli, l’unica garanzia per una vecchiaia serena.
Si sentiva molto deluso, ma forse quella non era altro che una giusta punizione.  Anche lui aveva avuto molte colpe. Invece di accontentarsi delle sei figlie sfornategli dalla moglie negli anni della gioventù, aveva cercato in tutti i modi di avere un figlio maschio per far continuare il suo nome e la professione di famiglia. Quando Carmela era rimasta di nuovo incinta era stato felicissimo  e quando lei  era riuscita finalmente a dargli il sospirato erede, aveva addirittura toccato il cielo con un dito. Quel  bambino,  arrivato allorché le sorelle erano tutte abbastanza grandi e loro stessi avevano ormai superato i quarant’anni da un bel po’,  era stato la gioia della famiglia e forse avevano finito per viziarlo troppo. D’altronde da piccino era stato adorabile: bello, buono, allegro, simpatico, nulla che lasciasse presagire la cattiva riuscita che avrebbe fatto una volta cresciuto. Anche se non si era mai molto applicato negli studi, la sua intelligenza gli aveva consentito lo stesso di prendere la licenza liceale con ottimi risultati e, tutto sommato, era stato sempre un ragazzino ubbidiente e sereno. Le cose erano cambiate da quando si era iscritto all’Università. Aveva cominciato a frequentare cattive compagnie che lo avevano distolto dai suoi doveri e Ferdinando non sapeva più come fare a correggerlo, proprio ora che si sentiva tanto stanco. Ormai, alle soglie della vecchiaia, avrebbe voluto godersi il meritato riposo lasciando il suo avviato studio legale nelle mani del figlio e invece questi non solo non aveva ancora preso la laurea, ma era diventato un poco di buono, uno di quelli che lui soleva definire “inutili perdigiorno”. Certo il XX secolo incominciato già da sette anni era denso di novità e di attrattive per un giovanotto sveglio come Fabrizio. Poteva capirlo se non voleva seguire il suo esempio  diventando  già marito e padre ad appena vent’anni,  ma restava comunque inammissibile  il modo in cui si era buttato anima e corpo in tutti i vizi possibili, quasi come se in famiglia non gli fosse stata insegnata la rettitudine e la moralità.
Con un sospiro scese da cavallo e tenendo Stellina per la briglia, si accinse a riportarla alla stalla. Era così perso nei suoi cupi pensieri da non accorgersi di un distinto signore che lo stava chiamando. Finalmente si riscosse e voltandosi lo salutò con gentilezza.
- Buongiorno Conte, anche voi al maneggio stamani?
- Sì,  Avvocato, è una gran bella giornata anche se fa ancora freddo. Che ne direste di un buon punch caldo? Mi permettete di offrirverlo?
- Grazie, accetto volentieri.
I due uomini si avviarono al caffè del Circolo e si sedettero a un tavolino a sorbire la bevanda calda.
Il conte Alfonso del Cassano conosceva il Serra da troppo tempo per non coglierne il turbamento. Incuriosito, cercò di capirne la causa.
- Avvocato, che avete? Vi vedo preoccupato. Eppure voi lo scoglio che sto affrontando io in questo periodo lo avete superato molte volte e non vedo cos’altro al mondo possa dare più preoccupazioni di una figlia da maritare – scherzò.
Ferdinando sorrise.
- Dite bene. Ne ho maritate sei ed ogni volta è stata una battaglia, senza contare che mi sono dissanguato per le doti e le feste di nozze. Ma ditemi, quando sposa vostra figlia Dora?
- A marzo. Ha trovato un bravo giovane, forse lo conoscete, è il cavaliere Antonio Pepe.
- Sì, lo conosco. Ha una fabbrica di pellami, se non sbaglio. Però, perdonate, non è un po’ troppo grande di età per vostra figlia?
- Neanche per sogno! Un marito con una ventina d’anni in più è proprio ciò che ci vuole per una donna ammodo. Voi lo sapete meglio di me, l’amore passa,  ma la stabilità di un matrimonio è data proprio dalla solidità di un uomo. Anch’io fui dispiaciuto di dover rifiutare la mano di mia figlia al vostro Fabrizio quando me la chiese però ero convinto che la cosa non poteva andare – soggiunse, quasi a volersi scusare.
- Eravate nel vostro diritto – affermò l’altro un po’ freddamente.  Sapeva benissimo quanto fosse venale e interessato il suo interlocutore. Non avrebbe mai dato sua figlia ad un giovane se non fosse stato più che ricco.
- Comunque ho molto apprezzato la signorilità con cui si è tirato indietro quando ha saputo della mia disapprovazione alla loro unione.
In effetti Fabrizio non si era mostrato troppo addolorato, anzi, si era ripreso dal rifiuto  con una rapidità  e un’allegria che aveva lasciato tutti stupiti, quasi come se si fosse sentito sollevato dal fatto di non dover compiere un passo tanto serio qual è il matrimonio. Però ora, ripensandoci, un dubbio si affacciò nella mente dell’avvocato Serra.
- Già, proprio così, anche se è da quando ha avuto questa delusione che  ha cominciato a fare lo scapestrato e oggi non so più cosa devo fare con lui – commentò.
Tacque subito, pentito di essersi lasciato sfuggire troppo.
Alfonso lo incoraggiò ad aprirsi con lui.
- Cosa c’è che non va, amico mio, non volete confidarvi con me?
- Non lo so come sarebbe diventato se avesse sposato Dora – sbottò il padre ferito – ma oggi è diventato un diavolo,  pieno di vizi e di debiti. Vorrei solo avere il coraggio di lasciarlo andare per la sua strada, quel disgraziato.
- Avanti non fate così. È giovane, pieno di vitalità ed è pure un bel ragazzo, è naturale che si goda la vita. E poi è uomo, non si rovina certo la reputazione se corre un po’ la cavallina.
-  Forse, però io non posso permettermi di mantenere le sue dissolutezze. L’avete detto or ora che ho dovuto maritare sei figlie. Il poco che mi è rimasto volevo conservarlo per fare una vecchiaia tranquilla insieme a quella santa donna di mia moglie. Invece, l’ho appena saputo, deve restituire a degli strozzini una somma enorme persa al gioco e io sono davvero disperato. Se mantengo il punto e non l’aiuto, però finisce che me lo ammazzano. Sarò pure un debole, ma il solo pensiero mi fa tremare.
L’altro rimase un po’ silenzioso a riflettere. Serra temette di averlo tediato con il suo sfogo per cui fece per congedarsi.
- Perdonate, oggi non sono una piacevole compagnia …
Si alzò e salutò con un inchino. Il conte lo fermò.
- No, aspettate, vi prego. Voglio farvi una proposta.
Incuriosito, tornò a sedersi e aspettò con impazienza che l’altro si spiegasse. Sembrava  provasse un certo imbarazzo a dirgli  quanto intendeva. Quando cominciò a parlare la prese un po’ alla lontana.
- Vi ricordate di Angela, la figlia del mio povero fratello Ernesto? – gli chiese.
- Sì, certo, la ricordo da piccola.
- Infatti. Quando mio fratello morì, la madre ritornò nella casa paterna in Sicilia. Dopo qualche anno morì anche lei lasciando la bambina con il nonno. Il vecchio la tenne con sé per un periodo poi fu costretto a metterla in un convento di suore perché non se la sentiva di allevarla,  stanco e  malandato com’era. Dopo qualche anno finì pure lui.
- O Signore Iddio! E che ne è stato della poverina?
- La facemmo venire a studiare in un convento vicino Napoli per poterla andare a trovare di tanto in tanto.
- In un convento? – domandò l’avvocato, corrugando la fronte. Gli sembrava strano che gli zii non avessero accolto la povera orfanella come una figlia in casa loro, così come sarebbe stato giusto. Lui e Carmela lo avrebbero fatto di sicuro.
Alfonso colse benissimo quel dubbio e si affrettò a giustificarsi, piuttosto imbarazzato:
- Non l’abbiamo fatta venire a vivere con noi perché io e mia moglie pensavamo che potesse sentirsi a disagio in un ambiente non suo, abituata com’era alla pace del chiostro. Purtroppo non conoscevamo ancora le disposizioni di quel vecchio pazzo di suo nonno. Le abbiamo apprese solo quando, ad ottobre scorso, la ragazza ha compiuto diciotto anni e il notaio ha aperto il testamento.
Incuriosito, Ferdinando aspettò di conoscere cosa ci fosse mai scritto in quel testamento.
- In pratica – continuò l’altro dopo essersi acceso un sigaro – l’ha lasciata unica erede di una grossa fortuna che ho sempre amministrato per lei, ma che andrà tutta al convento se Angela deciderà di prendere i voti.
- Mi sembra naturale. Se la ragazza ha la vocazione, è giusto così.
- E chi ci dice che abbia  la vocazione? In pratica è stata chiusa lì dentro da quando aveva otto anni. Che ne sa la povera figliola di cosa c’è fuori? Se lo avessimo immaginato, avremmo cercato di farla stare di più con noi. In fondo Dora ha solo un anno in più e  mia moglie è così dolce e buona che forse la piccina si sarebbe anche ambientata a casa nostra.
Ferdinando sorrise tra sé pensando allo smacco che avevano ricevuto i conti del Cassano: avevano evitato come la peste di prendersi cura della povera orfana e adesso scoprivano che avevano avuto a portata di mano una gallinella dalle uova d’oro e se l’erano fatta scappare. Quelle persone non gli erano mai piaciute. Di nobile avevano solo il titolo, in realtà erano vacue, interessate e meschine. Quando Fabrizio si era incapricciato di Dora, aveva temuto che potesse finire nella loro famiglia e aveva cercato di farlo riflettere. Però allora era diverso, nutriva ancora delle speranze su di lui e non pensava si potesse traviare al punto tale da fargli rimpiangere persino quel mancato matrimonio.
Come se avesse intuito che il pensiero di Ferdinando  era andato al figlio, il conte Alfonso proseguì:
- Anche se la madre superiora era contraria, io e mia moglie abbiamo fatto venire la ragazza a vivere con noi per un periodo. Prima che decida di farsi monaca, vogliamo farle conoscere qualcuno, magari qualche bravo giovane, affinché sia ben consapevole delle cose a cui rinuncia prendendo i voti. Purtroppo fino ad oggi non siamo riusciti a smuoverla più di tanto, ma chissà se un ragazzo pieno di fascino e di bellezza come vostro figlio non possa far breccia nel suo cuoricino inaridito…
- State scherzando? Fabrizio non andava bene per Dora e adesso potrebbe andare bene per vostra nipote? Tra l’altro mi sembrano così incompatibili tra loro. Da quello che ho sentito di lei e dopo ciò che vi ho confidato di mio figlio, sarebbe come mettere insieme il diavolo e l’acquasanta.
Alfonso fece un sorrisino divertito mentre guardava la nuvola di fumo del sigaro. Quell’idea gli pareva splendida e non voleva arrendersi così presto.
- Chissà, a volte anche le cose più impossibili si realizzano. Di sicuro, se ci si mette,  Fabrizio può riuscire a conquistare una piccola ingenua come Angela. Lo sanno tutti: le femmine vanno pazze per lui e in fondo, anche se fa la monachella, mia nipote è pur sempre una donna.
Ferdinando rimase esterrefatto da un ragionamento così cinico.
- Se anche fosse così, secondo voi perché Fabrizio dovrebbe sposare una donna che non ama?
Alfonso lo guardò divertito e rispose con un tono ironico, alzando le sopracciglia:
- Per godersi la fortuna di sua moglie  finché campa, ad esempio? Forse se gli parlate…
- Non è il tipo da fare ragionamenti interessati e non vedo come potrei  convincerlo a fare una cosa simile – tagliò corto l’altro.
- Scusate, ma non mi avete detto poco fa che è finito in mano agli strozzini ed è pieno di debiti? Fate leva su questo e vedrete che riuscirete convincerlo. E poi Fabrizio non è uno stupido, sa bene che un uomo anche da sposato può continuare a fare la vita che più gli piace, magari usando un po’ più di discrezione…
- Perché siete tanto interessato al bene di mio figlio e non a quello di vostra nipote? Lo avete detto voi stesso, Fabrizio non dà garanzie di solidità. Come potrebbe farla felice? – obiettò il brav’uomo a cui quella proposta sembrava assai sconveniente.
Il conte proruppe in una sonora risata.
- Qui la solidità ce la mette mia nipote, vostro figlio ci deve mettere l’amore. Tanto, come in tutti i matrimoni, nell’arco di due o tre anni la passione è bella che andata. Lui sposa Angela, le fa fare due o tre marmocchi, poi la lascia a casa a crescerli e riprende a godersi la vita. Sarà contento lui e sarà contenta anche lei che non si chiuderà in un convento per tutta la vita e avrà la soddisfazione di avere una casa sua, un marito, dei figli.
- No, non può andare. Conosco Fabrizio, se anche accettasse, finirebbe per dilapidare la fortuna della moglie in quattro e quattr’otto.
- Ah no, questo non potrà mai essere! Resterei sempre io l’amministratore dei beni di Angela.
Ferdinando non riuscì a nascondere un certo disprezzo per tanta meschinità. L’altro ne rise e aggiunse disinvolto:
- Credetemi, Avvocato, ce n’è talmente  tanto da far star bene tutti.
   
 
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