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Autore: TheHeartIsALonelyHunter    06/11/2014    4 recensioni
[Quinta classificata e vincitrice del premio speciale "Don't be dead" al contest "I'm Johnlocked" indetto da DonnieTZ]
La prima volta che aveva sentito lo sviolinare malinconico dell’archetto sulle corde se ne stava chino su una cartella medica particolarmente imbarazzante che Sarah l’aveva obbligato a portarsi a casa, “perché se non riesci a concentrarti al Barts, allora forse ce la farai a casa tua”.
[Dedicato a Miriam perché shippa Johnlock e perché mi ha reso una Nephilim]
Genere: Comico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La prima volta che aveva sentito lo sviolinare malinconico dell’archetto sulle corde se ne stava chino su una cartella medica particolarmente imbarazzante che Sarah l’aveva obbligato a portarsi a casa, “perché se non riesci a concentrarti al Barts, allora forse ce la farai a casa tua”. Non aveva potuto –né voluto- spiegarle che, se al lavoro il pensiero dell’ultimo, irrazionale caso (ovviamente irrazionale solo per lui) era soltanto un’ombra che aleggiava fastidiosamente ai limiti della sua mente, al 221B tutto assumeva un’aura molto più concreta, con Sherlock che non finiva mai di fissare il vuoto, gli occhi penetranti che trafiggevano il muro e le mani giunte come in una preghiera muta.
Sembrava un’aquila pronta a balzare sulla preda, in quei momenti, ma aveva imparato a tenere per sé le sue considerazioni sulle quanto mai bizzarre abitudini del suo coinquilino col diretto interessato. Altra cosa che aveva imparato, col tempo e con una buona dose di scatti d’ira quando l’aveva interrotto durante quelle specie di crisi mistiche, era stata che quell’espressione diceva “Sto riflettendo” e che non era affatto una buona idea disturbare Sherlock mentre stava riflettendo.
Doveva ammetterlo, si imparavano un bel po’ di cose, vivendo con Sherlock Holmes. E questo lo inquietava fortemente.
Quando la melodia gli era arrivata all’orecchio aveva alzato per un attimo la testa dal foglio che stava consultando (Emorroidi, un caso davvero imbarazzante e delicato, considerando che il povero diavolo era un membro del Governo), poi aveva di nuovo ricominciato a sfogliare il fascicolo distrattamente.
Sherlock lo aveva avvisato di quella piccola mania, e in fondo non era nulla di così grave paragonata a certe pazzie che a volte aveva dovuto sopportare. Ricordava ancora troppo bene la volta in cui si era ritrovato delle dita nel barattolo della marmellata, secondo Sherlock per “studiare la decomposizione di questi organi in un ambiente freddo”, e alcuni minuti di musica non erano poi così gravi.
Peccato che “alcuni minuti” si erano rivelati essere “alcune ore” e alle otto di sera Sherlock stesse ancora suonando, gli occhi chiusi come persi in qualche estati, il viso concentrato e quel miagolio infernale che andava avanti imperterrito.  

 

La seconda volta che il miagolio arrivò a turbare la quiete del 221B, (Sherlock era alquanto tranquillo nell’ultimo periodo, e questo lo preoccupava molto più dei momenti in cui arrivava a sparare al muro per la noia) John era ben prevenuto: sotto consiglio della Signora Hudson aveva acquistato già da tempo un paio di tappi per le orecchie e a casa tentava di tenerli sempre a portata di mano nel caso ve ne fosse stato bisogno.
Così, quando sentì Sherlock attaccare un’aria classica (forse “Il Danubio Blu”? Da quando al detective interessava la musica classica?), afferrò in fretta e furia i tappi e se li infilò senza complimenti nelle orecchie.
Si rese conto solo più tardi che, durante tutta l’esecuzione del brano, Sherlock gli aveva riferito i dettagli riguardanti un nuovo caso “particolarmente bizzarro” e ovviamente “particolarmente divertente”. Così, quando si ritrovò davanti la testa mozzata di una donna, che l’altro gli aveva lanciato malamente dall’altra sala perché “trasse le sue conclusioni” (che per la cronaca alla fin fine erano totalmente inutili alla risoluzione del caso, o almeno a lui sembravano così), John scattò in piedi terrorizzato e si rinchiuse velocemente in camera.

La terza volta che la voce del violino tornò a cantilenare pigramente, John aveva deciso ormai da tempo, dopo un’attenta e ponderata riflessione, che avrebbe sopportato quelle sedute eterne per non ritrovarsi con la testa di qualche malcapitato tra le mani. Certo, sopportare il miagolio l’avrebbe condotto prima o poi alla pazzia, ma vedersi lanciare le parti del corpo di qualche persona gli sembrava decisamente più nocivo per la sua salute mentale (se non era già uscito pazzo per colpa di quella stupida convivenza).
Si trovava in soggiorno a studiare uno strano codice in aramaico che il compagno (amico? Convivente? Conoscente?) gli aveva ordinato di decriptare, quando la musica invase il salotto.
“Inverno”, Vivaldi, si rese conto stupito. Che all’uomo non dispiacesse così tanto la musica classica?
A John scappò un sorriso, nell’immaginarsi la figura alta e ritta di Sherlock nel bel mezzo della sala, quell’aria ufficiosa e elegante di un sacerdote che sta amministrando un rito sacro e la solennità terrificante che solo lui sapeva incutere con quelle sue folli cerimonie. Era straordinario quanto riuscisse a far sembrare anche quella del miagolio un’abitudine intoccabile.
Si lasciò scappare una risata leggera quando l’immagine di Sherlock in tonaca da prete gli balenò alla mente, e d’un tratto tutto tacque.
“Ti dispiacerebbe non disturbarmi, per piacere?”. La voce dell’uomo nell’altra stanza era così stizzita che a John venne voglia di ridere ancora. Ma si trattenne.
“Bel lento, comunque” scherzò divertito. Se doveva davvero fare la figura dell’ignorante, tanto valeva che fosse completa.
Sherlock si sporse dalla porta del salotto, il violino stretto in una mano e l’archetto in un’altra. Era quasi strano non vederlo con provette o becchi Bunsen o aggeggi potenzialmente velenosi o taglienti tra i palmi.
“Sapevo che le tue conoscenze in musica fossero scarse, John” commentò in tono freddo l’uomo. “Come anche in qualsiasi altra materia, ovvio”, constatò alzando per un attimo gli occhi al cielo. “Ma non ti facevo così idiota.”
A John scappò una risata divertita. Se avesse saputo che quello era il campo in cui, dopo la medicina, si considerava più esperto, probabilmente gli avrebbe distrutto anche quella convinzione con il freddo raziocinio con cui oramai aveva imparato a convivere. E che ormai amava.
“È un allegro non molto, per tua informazione” continuò l’altro, stupito da quella reazione. “Concerto in Fa minore composto da Antonio Vivaldi, uscito nel 1725 con altri tre concerti, ma scritto come ammesso dallo stesso autore precedentemente”.
John alzò le sopracciglia fingendosi stupito.
“E la tua determinazione a lasciare la tua mente libera da informazioni inutili e spazzatura?”
“Non ricordo di averla mai definita spazzatura di fronte a te, ma probabilmente sarebbe la definizione più adatta”, considerò il detective con nonchalance.
Il dottore alzò gli occhi al cielo: si era arreso da tempo a cercare di inculcare nella mente selettiva di Sherlock informazioni “non importanti” per il detective, “essenziali” per lui.
“Ma l’ultimo caso che ci è stato affidato riguarda un violinista morto mentre provava questo particolare spartito”, spiegò l’uomo appoggiandosi allo stipite della porta.
John si finse interessato.
“E l’hai già risolto?”
“Non ancora, ma sono quasi certo che la chiave sia in questa composizione”, spiegò l’altro, sospirando. “Magari se oggi fossi stato un po’ più attento a teatro, invece di pensare al tuo appuntamento con Diane…”.
John non si prese neppure la briga di chiedergli da cosa l’avesse dedotto (probabilmente le scarpe appena lucidate, o forse il risvolto dei jeans tirato nervosamente su, o forse era quella camicia appena uscita dalla lavanderia?): riprese il codice tra le mani e ignorò volutamente l’amico (convivente? Compagno?).
Non gli sfuggì però lo sguardo spaesato di Sherlock, forse un po’ sorpreso che non gli avesse chiesto informazioni o forse un po’ deluso per non aver potuto esibire nuovamente le sue rinomate doti. Qualsiasi fosse stata la ragione di quella semi smorfietta da prima donna, John non poté fare a meno di trovarla adorabile.
Probabilmente non si era reso conto del fatto che oramai non gli importava davvero più conoscere quali fossero i dettagli, le pagliuzze di paglia, le minuzie che rendevano Sherlock Holmes quello che era: non se n’era mai reso conto, ma erano sempre state lì, sotto il suo naso, viste da tutti ma osservate da pochi.
John iniziava a osservare, ma a volte sembrava non vedere. O meglio, non vedeva quello che non voleva vedere.
Non aveva visto gli occhi di Sherlock posarsi un attimo sul suo viso, prima di scomparire nel silenzio che ora sembrava tanto più vuoto del salotto.
Non aveva visto il sorriso che per un singolo istante aveva increspato le labbra del detective, quando gli aveva comunicato che l’ “Inverno” era un lento, e Sherlock sapeva (lui sapeva sempre tutto, ma a volte avrebbe preferito non sapere).
Non aveva visto gli occhi di  Sherlock chiudersi (perché a volte era così noioso sapere cose che gli altri non sapevano) e l’archetto dare di nuovo voce al suo proprietario nel vortice maestoso di accordi.
Alla fin fine, aveva deciso John, il miagolio non era poi così tanto fastidioso.   

La quarta volta che John sentì il suono melodico del violino invadere l’appartamento con la sua prepotenza delicata e in fondo gradita, erano passati meno di due giorni da quando il suo amico (più che amico?) si era richiuso in un mutismo penetrante e fondo come non mai. Certo, John era abituato a questo. Ma il fatto che solo due giorni prima il cadavere della Adler fosse stato ritrovato rendeva quel silenzio quasi più assordante del solito.
Oramai Sherlock si esprimeva quasi e solamente con la musica dal giorno in cui era stato per la prima (e John sperava ultima) volta sconfitto. Da tre mesi a quella parte l’aveva sentito suonare “God save the queen” almeno sei volte, “Amazing grace” circa una decina e una melodia che non era riuscito a identificare pienamente (forse qualcosa del “Rocky horror picture show”? Sherlock aveva davvero guardato il “Rocky horror picture show”?) forse in una ventina scarsa di occasioni. Ma quella musica era nuova, sì, decisamente nuova.
Nulla di classico, stavolta, nulla di quello a cui Sherlock l’aveva inconsapevolmente assuefatto.
Forse una sua composizione? Qualcosa di nuovo?
Non aveva mai sentito qualcosa che fosse solo e solamente di Sherlock, e le poche volte che aveva provato a chiedergli perché mai non componesse lui stesso la risposta era stata:
“Come ogni opera dell’uomo la musica, per quanto sublime e decisamente più elevata rispetto a certe arti inutili e prive di qualsivoglia forma di grazia, nasce dalla noia. E non ho certo voglia di annoiarmi per compiacere un tuo capriccio, John”. Non sapeva perché ma aveva dovuto stringere i pugni per non ribattere che sì, avrebbe potuto eccome “compiacere un suo ‘capriccio’”. Ma oramai era arrivato alla conclusione che Sherlock non avrebbe mai fatto nulla per lui, nulla che non fosse ovviamente altamente melodrammatico o che non si fosse verificato in situazioni in cui lui rischiava la pelle (e doveva ammetterlo, erano state decisamente tante le volte in cui era stato vicino a morire da quando viveva con Sherlock Holmes).
Accordi discrepanti, si rese conto, aspri come carta vetrata che sfrigolava sulle corde, decisi come la punta di uno stilo che si conficcava nella carne…
Strano che Sherlock si dedicasse a una musica tanto “particolare” rispetto ai suoi canoni. Un bel po’ di crisi di nervi e di improperi gli avevano insegnato che, se c’era una cosa che faceva uscire l’uomo fuori dai gangheri (una delle tante cose che facevano uscire l’uomo fuori dai gangheri) era che, che variare in qualche modo le sue abitudini o i suoi modi di agire poteva essere pericoloso quanto impedirgli di fumare o interromperlo mentre stava sviluppando qualche teoria. Stranamente, nella quotidianità di tutti i giorni (per quanto ‘quotidiane’ fossero le loro giornate) Sherlock era un uomo in modo quasi inquietante ordinario, ligio nelle sue abitudini e non affatto disposto ad abbandonarle.
Lenti come veleno che si infilava piano piano in ogni fibra del suo essere… Gli accordi scivolavano via, uno dietro l’altro, con una velocità tale che quasi lo spaventavano. Possibile che stesse inventando tutto sul momento? Riusciva a immaginare le sue mani che si muovevano sull’archetto con la stessa esperienza con cui si muovevano su ogni brano che gli aveva mai sentito suonare, come se lo conoscesse da sempre, come fosse stata una melodia che in qualche modo avesse conosciuto da sempre ma che solo allora si azzardava a vedere timidamente la luce.
Accordi sensuali come quel dipinto che avevano rubato qualche giorno prima alla galleria d’arte (Sherlock aveva impiegato due ore a risolvere il caso), e che appena aveva visto il detective aveva definito “mera e sconcia invenzione dell’uomo per appagare il desiderio sessuale di qualche idiota”. John non se l’era sentito di ribattere che probabilmente a qualcuno faceva piacere quel genere di cose. Gli era sembrato fuori luogo, e non aveva saputo spiegarsi neppure lui il perché.
Impiegò qualche istante a capire perché, in quella particolare situazione, quegli accordi gli dessero tanto fastidio. Non certo per il miagolio sfrigolante a cui oramai si era abituato, e neppure per il fatto che avrebbe voluto che Sherlock tornasse a parlargli, e lo voleva come non mai.
“Stai componendo?”.
“Mi aiuta a pensare”.
E John si era sentito salire il sangue al cervello, perché per lui non aveva mai composto nulla.

La quinta volta che il miagolio si fece sentire erano le tre del mattino.
Sherlock l’aveva avvertito che avrebbero dovuto svegliarsi presto per cogliere in flagrante i contrabbandieri (il perché Sherlock avesse accettato quel caso, tra l’altro, gli era praticamente oscuro: era decisamente noioso perfino per lui), ma non avrebbe creduto che per “presto” intendesse quell’orario indecente e che la sua sveglia sarebbe stato quel dannatissimo violino. Aveva ricominciato a odiarlo inconsciamente dopo la faccenda della Adler, e da allora non aveva quasi più visto Sherlock con lo strumento tra le mani.
Da militare John aveva imparato ad essere pronto a svegliarsi in qualsiasi momento, ma la vita da civile l’aveva decisamente ammorbidito, anche se vissuta con quella forza della natura che era Sherlock Holmes.
Quindi quando quel suono gli giunse alle orecchie, solo dopo poche ore e inutili ore di sonno, il medico schizzò in piedi urlando un non proprio composto “O Dio santo!”. La prima cosa che si ritrovò davanti fu un imperturbabile e come sempre inflessibile Sherlock, il violino ancora in mano e il polso che imperterrito continuava nei suoi movimenti, come se il suo sconcerto o la sua reazione non l’avessero affatto toccato (ma in fondo Sherlock non era mai toccato da quello che gli succedeva).
Già vestito, lavato e pronto all’azione. Dio, se lo odiava.
La sua prima reazione non fu certo delle migliori (“Cristo Santo, Sherlock, ti rendi conto di che ore sono?!?!”), ma non bastò a fermare il miagolio, che continuò a arieggiare sotto gli occhi vitrei e impassibili del compagno.
“Buongiorno anche a te, John”, commentò, richiudendo solo per un attimo gli occhi per riprendere il filo della composizione. Sembrava quasi più concentrato di quanto non fosse già di solito, come se quella cerimonia fosse addirittura più importante di tutte quelle che aveva presieduto fino ad allora.
John si accorse solo dopo aver letteralmente mandato al diavolo il suo convivente (solo convivente, si ritrovò a pensare… Tristemente?) ed essersi beccato con Sherlock, ovviamente impassibile e sordo ad ogni rimprovero, una vera lavata di capo dalla signora Hudson, che quella particolare melodia non era una delle arie classiche solite dell’uomo, né la tanto conosciuta (e odiata) composizione di Irene Adler.
Quell’aria era sua.
Scritta da Sherlock solo per lui.
Solo quel giorno John si rese conto che, in fondo, doveva pur valere qualcosa per Sherlock, se per lui era disposto ad annoiarsi.

La sesta e probabilmente ultima volta che John sentì il violino erano passati due anni dall’ultima volta che era entrato in quell’appartamento.
Non ne aveva avuto il coraggio fino ad allora, e forse avrebbe fatto meglio a non provarci neppure. Come nei suoi peggiori incubi, come in quelli più oscuri che tentava di ricacciare in un angolo della mente in cui non avrebbero fatto danni, la figura di Sherlock appariva nel buio, in un angolo della stanza, in quella stanza che era rimasta sempre la stessa, in quella polvere rarefatta che si era posata silenziosa su ogni cosa, proprio come a Sherlock piaceva, proprio come Sherlock avrebbe voluto.
Era tutto com’era allora.
C’era lui, lui che, nonostante quei baffetti che a Mary piacevano tanto (o forse no?) e qualche peso in più sul cuore era sempre lo stesso John Watson che aveva incontrato, un giorno come tanti, Sherlock Holmes, e da allora non c’era stata una giornata uguale ad un’altra nella sua vita.
C’erano le due poltrone, ancora lì, pronte a riaccogliere i loro rispettivi proprietari, se solo avessero voluto.
C’era il teschio, testimone (decisamente inquietante, ma questo non l’avrebbe mai detto a Sherlock) di tante avventure, ancora lì dove l’uomo l’aveva lasciato l’ultima volta, i bulbi oculari vuoti e il cranio ben impolverato. Forse di quello Sherlock si sarebbe lamentato, era una delle poche cose che voleva fossero lucidate. Ma in fondo poteva anche essersene dimenticato, poteva essere stata una distrazione… Ma sì, in fondo Sherlock aveva avuto da fare tanto, non aveva certo potuto pensare al teschio…
C’era il violino, c’era quel miagolio infernale che riempiva ogni angolo della casa, che permeava attraverso ogni parete, che gli riempiva le orecchie e il cuore… E John avrebbe ascoltato, sì, avrebbe ascoltato fino alla nausea quella volta, perché se c’era il miagolio c’era anche Sherlock, e se c’era Sherlock tutto sarebbe stato perfetto.
Il medico si illuse per qualche istante che non fosse cambiato nulla, da allora. Che il detective ci fosse ancora, che non si fosse gettato da quel dannato palazzo, che ci sarebbero stati altri casi da risolvere, altri litigi da sopportare, altro silenzio con cui convivere, altri organi da trovare nei luoghi più inaspettati, altra voglia di prenderlo a pugni quando assumeva quell’aria da sapientone, altre volte in cui Sherlock l’avrebbe svegliato con la voce del violino a parlare per lui, perché l’amico (decisamente più che amico) non era mai stato bravo con le parole.
Poteva immaginare che fosse tutto ancora normale, al 221B Baker Street, per quanto normale fosse mai stato Sherlock, lui, loro.
Ma se riapriva gli occhi l’illusione cadeva malamente, l’appartamento tornava vuoto e una sola consapevolezza lo prendeva tutto: non c’era Sherlock a suonare il violino.
E non ci sarebbe stato mai più.

Note d'autrice:
Non proprio romantica, LO SO. Ma la verità è che questa è la mia visione del loro rapporto, e non riesco a vederli a letto. Quindi mi scuso in anticipo con la Giudicia. Questo è il meglio che sono riuscita a cavare. Fatemi sapere che ne pensate dell'IC, sono davvero terrorizzata per quello. è stato divertentissimo scrivere per la prima volta su questo fandom e non vedo l'ora di farlo ancora.

 

  
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