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Autore: Bloomsbury    09/11/2014    6 recensioni
ATTENZIONE: Questa Os non è una storia a sé ma un ricettacolo di spoiler di una long conclusa. Quindi, chi volesse leggere la storia Jay Hahn è in pericolo, chi invece non fosse interessato alla long potrà leggere questa Os serenamente. Senza capirci un cavolo, però.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE: Questa Os non è una storia a sé ma un ricettacolo di spoiler di una long conclusa. Quindi, chi volesse leggere la storia Jay Hahn è in pericolo, chi invece non fosse interessato alla long potrà leggere questa Os serenamente. Senza capirci un cavolo, però.
Mi mancavano questi miei personaggi, ma spero di non sentire mai più l’esigenza di scrivere ancora di loro.





***
 
Mi aggiro per la casa come se avessi una palla di piombo attaccata alla caviglia e con enorme fatica riesco ad aprire lo shaker nel quale Izaya ha conservato l’impasto dei pancakes. Guardo perplesso la padella già sui fuochi e che non ricordo di aver mai lasciato lì e do un’occhiata all’orologio a muro che mi dice tacitamente: “Dai, Jay. Datti una mossa, sono le sette”.
Non mi pare di aver disposto una certa organizzazione della cucina prima di andare a dormire, è tutto pronto come se durante la notte ogni oggetto si fosse animato di vita propria per facilitarmi il compito. Mi incammino verso il frigo per prendere il burro e noto sul tavolo una specie di messaggio subliminale che mi inculca in testa di preparare le frittelle con le more, o con lo sciroppo, o al naturale…
Insomma, in qualsiasi modo, ma le more devono esserci perché sono lì sul tavolo ad aspettarmi e mi ricordo di non avercele mai messe.
D’un tratto tutto mi è chiaro.
«Izaya» ruggisco battendo i piedi, avvicinandomi alla stanza nella quale ancora sta dormendo per cantargliene quattro.
Apro la porta violentemente facendola sbattere al muro e urlo: «Mi tratti come un deficiente?»
«Buongiorno, amore. Anche io sono felice di vederti» farfuglia voltandosi dall’altra parte mentre con le sue lunghissime braccia afferra tutto con avidità. Per quanto è grosso è un bambinone, perché se c’è una cosa che non riesce a fare Izaya è dormire senza abbracciare un cuscino. A volte mi illudo che mi abbracci per avere me vicino, ma poi mi accorgo che è solo un bisogno impellente che lo costringe ad intrappolare qualsiasi cosa si trovi a tiro.
Salgo sul letto calpestandolo e mi posiziono direttamente su di lui, in piedi, perché so che solo così posso vantarmi di una certa autorità. Lui sta di fianco e continua a dormire in mezzo alle mie gambe. Le sue ciglia sono così lunghe da proiettare la loro ombra sugli zigomi e mi dico che con uno come lui non ci si può arrabbiare, ma devo mantenere il punto. Quando mi sono trasferito da lui ha sempre ribadito che dovevo imparare a vivere come un ragazzo normale, prendendomi le mie responsabilità e dimenticando la mia vecchia vita da principino, peccato che quelle fossero solo prediche sterili perché da quando ho messo piede in questa casa non mi ha fatto mai fare un tubo.
Con quel suo perenne sorrisetto mi ha solo insegnato a rapportarmi pacificamente con la lavatrice, ma a parte questo, non so fare altro.
«Se non mi sbaglio, ieri sera, avevo espresso il desiderio di preparare la colazione per noi. Ricordi?» chiedo schiarendomi la voce con un colpo di tosse.
In risposta: un mugugno, che di solito significa sì.
«Ecco. Quindi, perché hai preparato tutto come se avessi a che fare con un demente?»
«Menti» dice a fatica mentre io, sempre più arreso, stendo le braccia lungo il corpo. «La padella giusta è sui fuochi, l’impasto è pronto nello shaker, i mirtilli sono sul tavolo…»
«Le more sono sul tavolo, non i mirtilli.»
Gli punto il dito contro: «Beccato! Se non sei stato tu, come fai a sapere che ci sono more e non mirtilli?»
«Sento l’odore» risponde fingendo serietà – in realtà chiunque si accorgerebbe del sorrisetto sarcastico che nasconde dietro alla sua finta sonnolenza.
Mi metto a cavalcioni su di lui e mi accorgo in mezzo secondo quanto quella scelta sia stata deleteria: mi afferra per i polsi come se fossi un prigioniero e mi atterra sul letto, costringendomi a serrare gli occhi.
Li riapro e mi accorgo che ancora una volta dovrei ringraziare il cielo per ciò che vedo. Dovrei ringraziare la pioggia e la tempesta.
«Borbotti sempre, Hahn. Non ti stai sul cazzo da solo?» mi chiede con quella sua solita calma placida che mi confonde, che non mi fa capire se ciò che dice è uno scherzo o ciò che pensa realmente.
«Mi sto simpaticissimo» affermo con insolenza cercando di liberarmi dalla forza con la quale ha totalmente conquistato le mie mani.
Mi bacia ed io mi stupisco ancora.
Mi meraviglia sempre la dolce prepotenza con la quale tocca le mie labbra con le sue e mi lascia vorticare in una continua sensazione di pace, desiderio, vergogna. È il primo uomo al quale concedo di prendermi così, come se fossi di sua proprietà.
Non mi oppongo e mi lascio soggiogare dal fluente incedere della sua lingua tra le mie labbra, mentre mi tiene legate entrambe le mani al disotto del mio mento che gode del contatto con la sua barba incolta. Profuma di agrumi la sua barba, di fragranza pungente ma zuccherina che risveglia ogni senso. È un odore che non avvolge ma attrae e che inevitabilmente imprigiona la mente, rimane impresso, sa di sole, sa di estate.
Si distacca proprio nel momento in cui reagisco e insisto per baciarlo ancora, ma lui si sottrae e mi riempie con il suo sorriso accompagnato dalle rughe d’espressione che circondano i suoi grandi occhi scuri: «Non volevo farti perdere tempo. Devi correre all’università. Non ti offendere…» si sofferma, sapendo che potrei dispiacermi – in realtà non succede mai, ma lui insiste a trattarmi con delicatezza, come se avesse paura di spezzarmi. «Ma sei un bradipo in cucina».
Sorrido abbassando gli occhi sulle sue dita ancora avvolte ai miei polsi: «Non mi offendo e hai ragione». Lo bacio ancora impercettibilmente, stuzzicando con la lingua la sua. Ogni volta che lo provoco sento che man mano inizia a perdere il controllo e lascia che il poco tempo che abbiamo si perda tra le lenzuola sfatte e che sembrano esigano ancora un po’ di noi, insieme.
Ti ho conosciuto, Izaya, qualche tempo fa, e tu mi hai salvato senza volere mai nulla in cambio a parte me, a parte questo piccolo ragazzino che non sa ancora niente, che ha imparato ancora troppo poco per vivere e che quelle poche cose le ha imparate da te, perché tu lo hai voluto, l’hai preteso. E non esiste nessuno al mondo che pretende di diventare una strada sicura, una bussola in mare aperto. Tutti reclamano una strada sicura, una bussola in mare aperto, tu hai voluto essere per me quella strada e quella bussola, senza mai volere nulla in cambio.
A volte mi chiedo perché, altre mi domando se potrei mai bastarti, ma tu rispondi sempre con quella leggerezza che ti appartiene da chissà quanto tempo, mi rassicuri comportandoti come se fosse tutto normale, ma io so che non lo è, per questo non posso fare altro che lasciarmi trascinare da te in quella accomodante leggerezza che ti fa sembrare il più stupido tra gli idioti e il più saggio tra gli ignavi.
Prendi le vite altrui, intanto che gli altri dormono crogiolandosi nella loro indolenza, e le rendi esistenze sensibili transeunte ma che valgono la pena di essere vissute.
Tu sei ieri, oggi e domani e non fai paura, anzi sei speranza perché trasformi l’ignoto in un concetto semplice da accettare, lo semplifichi, lo fai diventare curiosità e tu sei come un bambino che si stupisce sempre e il tuo stupore è contagioso, invidiabile.
Io ti invidio, Izaya; ma allo stesso tempo ti sono grato perché mi stai insegnando a vivere come fai tu, a vedere ogni cosa con una semplicità che rasenta il ridicolo. Ti ho visto ridere di cose serie e piangere per cose idiote e non perché tu fossi incapace di soppesare le cose, ma solo perché per te è sempre stato inutile gettare ulteriori pesi sulle cose che fanno male e che già pesano di per sé. Qualcuno ha detto che sei uno stupido incapace di misurare le cose per poi farsene carico in modo coscienzioso, io ho sempre pensato, invece, che il vero stupido fosse colui che perdeva tempo davanti alla bilancia a disperare.
Mi perdo nei miei pensieri e mi accorgo solo in quel momento, mentre gli cingo le spalle, quanto lo amo disperatamente, quanto lo venero e lo stimo. Io ti rispetto, Izaya, perché sei come una stretta di mano salda e pregna di promesse.
D’improvviso si ferma, mi chiedo perché, forse mi sente assente ed io non so più come fare per tenerlo attaccato a me.
Mi aggrappo a lui benché sappia quanto la mia resistenza sia terribilmente debole, lui di solito mi strattona per liberarsi di me, ma stavolta si ferma e mi guarda, sorridendomi: «Amore». Mi aspetto parole romantiche perché il suo sguardo urla un disperato bisogno di me, così continuo ad osservarlo in attesa, in sospeso. «Sono le otto meno venti».
«Cazzo» urlo dimenandomi sotto di lui. Le otto meno venti non le reggo. Sarà che ho la fobia della lancetta dei minuti quando si posiziona al lato sinistro del quadrante, mi fa sempre sentire in ritardo, qualsiasi sia l’ora.
Lui mi blocca ancora perché adora farmi i dispetti, vedermi nel panico, dice che inizio a sciorinare parolacce indicibili senza rendermene conto, così mi do un contegno e cerco con gentilezza di rimuovere la montagna paciosa che mi costringe al letto: «Potresti, per favore, mollarmi?» Non faccio in tempo a finire la frase che suonano alla porta. Lui si scosta divertito ed io corro verso l’ingresso sapendo già chi troverò: «Chaz, mi fai fare tardi!!!»
«Io?» domanda sdegnato. «Fino a prova contraria io sono pronto da più di mezz’ora, sei tu quello in mutande».
Non posso dargli torto. «Entra, ti prego! Dammi solo cinque minuti.»
«Non permetterti ad uscire con i capelli bagnati. Si gela» mi raccomanda, come se fosse il mio papà.
Mentre corro verso il bagno lo vedo dirigersi nella stanza e un misto di gioia e gelosia mi annebbia la visuale. Per non destare sospetti mi chiudo nel bagno ma non posso fare a meno di pensare che il mio ragazzo ed il mio migliore amico sono nella stessa stanza. Il fatto che loro abbiano sepolto l’ascia di guerra mi rende felice, ma allo stesso tempo mi fa paura. Chaz e Izaya si somigliano in qualche modo, ciò che li differenzia è il fatto che il primo sia più giovane, quindi più istintivo, ma il più delle volte vanno d’accordo più di quanto riesca io con ognuno di loro.
La colazione è andata a farsi benedire come, probabilmente, tutto il resto dei miei programmi e dopo essermi preparato mi precipito nella stanza ritrovandomi davanti la ragione per cui mi sento stupido ogni volta che mi preoccupo di lasciarli soli.
Izaya è al centro delle letto con le gambe incrociate mentre Chaz fuma una sigaretta seduto sul davanzale della finestra aperta e che a quest’ora e con questa temperatura dovrebbe stare rigorosamente chiusa. «Potevi aspettare di essere fuori per fumare?» borbotto e già mi sto sulle scatole perché lo faccio un po’ troppo spesso, soprattutto quando sono agitato.
«Jay, ti devi muovere. Forse non hai capito: il professore non aspetta te per cominciare. E va bene che sei una diva…»
«Oggi non lavoro» ci informa Izaya ed entrambi non capiamo cosa voglia farci intendere, così lo ignoriamo e continuiamo a battibeccare.
«Mi annoia stare solo» continua, mentre noi non lo ascoltiamo affatto.
Si stende di nuovo sul letto e inizia a cantare col suo vocione una canzone irriconoscibile per attirare l’attenzione. «Mi spieghi cosa c’è?»
«Non andate a lezione. Andiamo al bar da Lizzie, vi giustifico io» propone pur sapendo che la sua giustificazione non vale niente.
«Non credo che a Mr. Turner, quando non passeremo l’esame, freghi qualcosa delle tue giustificazioni» ribatte Chaz con una puntina di speranza: in fondo neanche lui vuole veramente andarci.
«Vi giustifico con Lizzie, intendevo. È di lei che dovreste avere paura. Robert mi appoggerà di certo e dato che noi due siamo gli adulti, possiamo garantire per voi».
 
La fantasia sfuma nel bicchiere di vodka che stringo nelle mani mentre fisso le bottiglie allineate sulla mensola di cristallo del bar dell’Escape e una morsa allo stomaco mi riporta alla realtà. Sono giorni che sogno ad occhi aperti chiedendomi come sarebbe stato se fosse andata diversamente. Mi accorgo di non aver mai detto ad Izaya cosa pensavo di lui e mi ritrovo qui ad affogare i miei rimpianti, a gemere disperato sotto un manto oscuro ricamato di errori. Ho sbagliato tutto e mi manca ciò che ho avuto per poco e che non avrò mai, mi manca Chaz e il bar, e Lizzie, e tutto ciò che ho perso per seguire una vita che non mi appartiene e che non sarà mai mia.
Solo adesso mi accorgo di aver vissuto per anni in perenne stato di sovrappensiero.
Chi non riesce più a provare stupore e meraviglia è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere”.
Invero ho fatto l’inverso: mi sono privato della mia capacità di vedere per morire, così da non provare più stupore e meraviglia verso cose o persone che ormai, senza chi amo, non hanno più alcun effetto su di me. Benefico men che meno.
Mi volto verso una ragazza che è qui accanto a me, attira la mia attenzione cinguettando qualcosa.
«Sono Beatrix…»
«Come La Sposa» la interrompo. Un’immagine ridicola mi balza nella mente e mi sento molto simile a Beatrix Kiddo.
In Kill Bill, La Sposa si sveglia dopo quattro anni di coma e si vendica su colui che ha ucciso tutta la sua famiglia, suo figlio, l’uomo che amava con tutte le sue speranze: Bill l’ha privata di tutto.
Vorrei avere qualcuno sul quale rigettare tutto il mio odio, proprio come lei, ma l’unico su cui posso infierire sono proprio io.
Così lo faccio e sta proprio qui la differenza tra me e lei: “Per andare pari, pari veramente, dovrei uccidere prima te, poi andare su da Nikki, ucciderla, aspettare tuo marito, il dottor Bell, e uccidere anche lui. Così saremmo pari, Vernita. Quel che si dice "quadratura".
Per me non c’è alcuna quadratura e se voglio andare pari, pari veramente, dovrei solo uccidere me stesso.
La ragazza accanto sembra confusa, perché come al solito ho buttato lì una frase inutile delle mie e ho continuato a farmi assorbire dai miei pensieri. Bisognerà trovare qualcos’altro da dire per non far la figura del solito maleducato: «Che ci fa una ragazza etero qui?» le chiedo, perché lei è etero, lo sento dal suo profumo, quello tipico che indossa una donna per far piacere ad un uomo.
Mi racconta, o meglio, mi fa capire che il suo uomo l’ha mollata proprio qui, a Soho, così mi lancio nelle mie congetture neanche troppo ponderate e le dico che lasciarla davanti ad un locale per omosessuali è stata una scelta studiata, per non farla cadere nella tentazione di consolarsi con un altro uomo. Vedi, Beatrix? Non c’è errore più grande per un uomo che dare ad una donna la possibilità di prendere respiro altrove e magari conoscere un altro ragazzo del quale potrebbe sentirsi attratta. Lui questo errore non l’ha commesso, anche se, solo per fargli un dispetto, verrei a letto con te. Per darti modo di prenderti una piccola soddisfazione. Penso spesso alla vendetta e se avessi avuto un oggetto sul quale scaricarla sicuramente sarei stato il più sanguinario dei vendicativi.
D’improvviso guardo la gente dietro di noi e mi accorgo che lì in mezzo c’è la mia arma, quella che uso per farmi male giorno dopo giorno. Lo fisso, lui mi chiama a sé ed io come un burattino eseguo, lasciando Beatrix sola: abbandono l’idea di aiutarla a prendersi la sua rivincita.
Cammino tra la folla che si impatta contro la mia irremovibile marcia verso quella terra che ho conquistato tempo fa e che vorrei tanto abbandonare, perché solo adesso mi accorgo quanto quel pezzo di terreno non dà frutto, anzi mi fagocita e banchetta sadicamente con la mia carne putrida. Se solo sapessi, Brad, capiresti che il vero sadico sono io, perché tanto quanto ti sei imposto, io ti ho usato, perché l’odio che provo per te è l’unica cosa che mi fa sentire vivo.
Mi avvinghio a te e ti permetto di uccidermi ancora, ti bacio mordendoti le labbra come se fossi ciò che più desidero e vengo via con te, sapendo che faremo sesso nel tuo nauseante alloggio, dove ogni notte, ogni singola fottuta notte, ti prendi con violenza ogni pezzetto di me mentre il mio odio esplode attraverso il piacere inevitabile che mi fai provare. Ti sfami con me mentre mi svuoti implacabilmente, ed io ti lascio fare, così da diventare presto una bambola con gli occhi vitrei e il cuore di lana.
E questa è la mia vendetta verso la vita che non amo più, che non voglio più, ma sono sempre stato troppo coraggioso e impavido per togliermi la vita di mio pugno, così lascio fare a te, Brad. Prenditi ogni cosa che ho amato e svuotami, fammi diventare niente cosicché io possa omaggiare con un insulto il destino che con altrettanta rabbia mi ha privato dell’anima.

 
 
 
 
   
   
   
 
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