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Autore: ___Page    20/11/2014    2 recensioni
Era lì che l’aveva incontrata per la prima volta.
Non si ricordava di lei fisicamente ma era bastato parlarci pochi istanti per identificarla.
Capelli biondi, occhi cioccolato, sguardo curioso e sorriso indulgente Margaret era da tutti considerata la più bella dea di Skypeia dopo Hancock e l’incarnazione di quella che gli umani definivano “una ventata d’aria fresca”.
Gli umani, non lui.
*Fan Fiction partecipante al LawxMargaret day*
Genere: Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alvida, Corazòn, Margaret, Monkey D. Dragon, Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
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Contro ogni legge, contro ogni regola,
per quegli occhi di ghiaccio capaci di incendiarle il cuore






 
SEI SEMI DI MELOGRANO



 
L’isola di Skypeia era sempre in fiore, luminosa e splendente.
Il cibo cresceva senza sforzo e le giornate trascorrevano placide e tranquille, senza preoccupazioni o intoppi di alcun genere.
L’isola di Skypeia era un luogo paradisiaco e si trovava in cielo perché era la sede degli dei.
Dall’alto della loro casa, la divina famiglia vegliava sugli umani, aiutandoli quando poteva e divertendosi di tanto in tanto a mischiarsi a loro, in quotidiane avventure, per spezzare la monotonia.
E il solo che di noia non soffriva, colui che avrebbe trovato il modo di impiegare il proprio tempo anche in quel colorato e poco eccitante luogo senza tediarsi, per ironia della sorte era il solo il cui ruolo richiedeva di vivere in mezzo agli umani, sull’isola di Raftel.
In mezzo a loro ma in un luogo a loro invisibile, frequentato da demoni e strane creature e da tre adorabili vecchine che, in un angolo del bar Inferis di proprietà del dio in questione, trascorrevano le loro giornate a chiacchierare e filare.
Koreka filava con cura e maestria gli stami della vita, Nyon li avvolgeva sul fuso finché Tsuru li recideva, inflessibile, quando giungeva l’ora di qualche mortale, catapultandolo fuori da quel locale, dove Trafalgar Law attendeva per comunicare loro la triste notizia e mostrargli il passaggio che li portava nell’Ade.
Perché Trafalgar Law era il dio della morte ed era ligio al suo dovere solo perché di discutere un giorno sì e l’altro pure con Dragon-san per non averlo assolto, non ne aveva voglia.
Considerava una fortuna quella sua posizione, poter vivere in mezzo agli umani senza chiedere costantemente il permesso, poterli studiare da vicino, esaminando sempre più approfonditamente la loro natura, senza però mai esaltarsi più di tanto, coerentemente con la sua pacata e imperscrutabile indole. 
I soli momenti in cui i suoi fedeli avventori lo vedevano lasciarsi andare e divertirsi era quando il messaggero degli dei si recava all’Inferis per una bevuta e due chiacchiere.
Cosa potessero c’entrare l’uno con l’altro il moro e algido dio della morte con il biondo, truccato, eccentrico e sbadato Cora-san tutti se lo domandavano e nessuno cercava risposta.
Sapevano solo che lui era il solo contro il quale Bepo, l’imponente lupo bianco di Law e guardiano dei cancelli dell’Ade, non ringhiasse a tutto spiano, minacciando di azzannarlo alla gola, anche senza l’ammonimento del padrone.
E quando Cora non andava a trovarlo, facendolo illuminare come un bambino, non aveva voglia di leggere e non c’erano morti previste per il pomeriggio, spesso si recava ad Amazon Lily, la rigogliosa collina che torreggiava su Raftel, per rilassarsi in mezzo al verde.
Era lì che l’aveva incontrata per la prima volta.
Non si ricordava di lei fisicamente ma era bastato parlarci pochi istanti per identificarla.
Capelli biondi, occhi cioccolato, sguardo curioso e sorriso indulgente Margaret era da tutti considerata la più bella dea di Skypeia dopo Hancock e l’incarnazione di quella che gli umani definivano “una ventata d’aria fresca”.
Gli umani, non lui.
Lui aveva trovato lievemente irritante il suo porre continuamente domande finché non aveva capito  che quello di Margaret altro non era che un disperato tentativo di ammazzare la noia e, a quel punto, l’aveva guardata con occhi diversi.
Si annoiava a morte su Skypeia lei, dove non succedeva  mai niente e le ore scorrevano lente e tutte uguali.
Magiare e dormire non le interessava e ormai conosceva l’Upper Yard, la foresta dell’isola, palmo a palmo.
Colmo della sfortuna, il suo ruolo non la teneva poi molto impegnata dal momento che aveva ereditato il potere della madre, la dea dell’abbondanza, che da sola riusciva a occuparsi benissimo di tutto il lavoro che il potere della fertilità loro imponeva.
Per questo da qualche tempo scendeva ogni giorno ad Amazon Lily, prendendosi cura delle piante che facevano della collina una specie di parco botanico amato dagli isolani, il quale somigliava più che altro a un bosco quasi selvaggio.
E lì per molti giorni avevano continuato ad incontrarsi, prima per caso poi per tacito accordo finché Law non l’aveva invitata ad andare all’Inferis con lui.
Come Margaret aveva messo piede nel locale, da alcune crepe nel muro erano spuntati fiori e piante verdi che in un attimo si erano aggrovigliate tra loro creando un tripudio di colori e profumi che aveva invaso il bar e migliorato l’umore dei suoi avventori.
Sui rami della pianta in vaso che si trovava sul bancone, secca e arida come un albero nel deserto, erano spuntate in un attimo foglie verdi e piccolo sfere rosse e lucenti, simili a ciliegie ma che si erano rivelate essere dei melograni in miniatura, contenenti appena sei semi ciascuno.
Margaret si era subito girata verso di lui, le guance imporporate e lo sguardo dispiaciuto per avergli rovinato l’arredamento del locale, e lo aveva trovato a guardarsi intorno a occhi sgranati prima di focalizzarsi su di lei e regalarle uno splendido ghigno.
Era arrivato Cora-san poco dopo, con le sue immancabili battute, e il pomeriggio era trascorso in un baleno e così piacevolmente che persino l’apparentemente freddo dio della morte aveva finito con il chiedere alla sua nuova ospite di tornare.
E Margaret lo aveva fatto, era tornata ancora e ancora e ancora, per soddisfare  la richiesta di Law e la sua voglia di stare con lui.
Una voglia che male riusciva a celare, lei, innocente e candida come i boccioli che era capace di far nascere persino sui rami seccati dal freddo dell’inverno, e che Law leggeva con facilità nei suoi grandi occhi curiosi, incupendosi sempre più.
Non poteva farlo, legarla a sé, condannarla a restare lì, lei che era vita e luce allo stato puro, tutto il contrario della casa e del destino che poteva offrirle.
E, d’altra parte, lui non riusciva a separarsi da lei, da quel rigenerante raggio di sole che riusciva a fendere la penombra del suo bar e della sua esistenza con la semplicità di uno sguardo o una risata.
Era sconvolto, Law.
Sconvolto da quello che provava e sentiva, senza darlo a vedere, senza cedervi del tutto.
Sconvolto perché una ragazzina era riuscita a scombinare la sua esistenza e spezzare la regolarità del suo mondo senza fare altro che stargli accanto, con un affetto e una vivacità disarmanti.
Cora se n’era accorto e avevo provato a parlare con lui ma era stato tutto inutile, Law irremovibile, la sua decisione una e una soltanto.
-Non farò niente del genere, Cora! Forse ora è convinta di volere questo ma un giorno finirebbe per pentirsene! Chi vorrebbe vivere per l’eternità sopra al passaggio che porta nell’Ade? Nel buio ad aspettare ogni giorno che arrivi qualche anima a cui indicare la strada? Lei non potrebbe mai sopportare questa vita, la ucciderebbe!-
Si era lasciato andare, abbandonando la sua solita freddezza e impassibilità, dimostrando al solo che conosceva quel suo aspetto quanto tenesse davvero a quella ragazza e dimostrandolo, sebbene involontariamente e a sua insaputa, anche a lei.
Perché dopo che Cora se n’era andato, non senza un’affettuosa e incoraggiante pacca sulla spalla, Margaret aveva fatto il suo ingresso, rivelando con una frase, tanto sincera quanto sensuale, che aveva sentito ogni parola.
-Io voglio vivere per l’eternità qui, a un soffio dagli inferi, nella penombra se questo significa vivere per l’eternità con te e ciò che non potrei mai sopportare e che mi ucciderebbe sarebbe stare senza di te-
E nulla più aveva potuto nemmeno lui, quando lei aveva soffiato quelle parole contro le sue labbra, avvolgendolo del suo aroma al gelsomino, implorandolo con occhi innamorati, offrendosi completamente a lui.
Nulla più aveva potuto e l’aveva posseduta e amata lì, con dolce ardore e passionale delicatezza, e quando al mattino si erano  svegliati, avvinghiati l’uno all’altra, l’Inferis si era trasformato in una serra, a testimonianza di quanto Margaret si fosse lasciate andare tra le sue braccia, di quanto avesse adorato essere sua.
E si erano ritrovati a eradicare parecchie piante per ripiantarle sul retro del locale per evitare che, amplesso dopo amplesso, il bar si trasformasse in una giungla.
Erano stati giorni di felicità e onesta spensieratezza.
Giorni in cui Margaret non era tornata a Skypeia e Law non aveva realizzato le gravi implicazioni della sua permanenza lì finché Cora non era giunto un giorno con sguardo sconsolato a comunicare che Margaret era convocata sull’isola nel cielo, al cospetto di Dragon-san.
E se non fossero bastati i suoi occhi e il tono con cui li aveva informati, la reazione di Law che sgranava le iridi grigie, permettendo a un lampo disperato di attraversarle, era arrivata puntuale a confermare i dubbi di Margaret.
Aveva preteso di sapere di più, la giovane dea, ottenendo risposte alle sue domane, identificando sua madre, la sua possessiva ed egocentrica madre, come causa di tutto quel trambusto.
Albida si era lamentata con Dragon-san, impuntandosi per riavere indietro la figlia, alla quale non delegava comunque mai nulla, facendo i capricci come una ragazzina viziata, finché il padre degli dei non aveva ceduto, ordinando a Cora di riportarla indietro.
A quel punto era stato chiaro che quello di Margaret sarebbe stato un viaggio di sola andata nel quale, al colmo della disperazione, Law non poteva accompagnarla.
Con uno scatto d’ira si era chiuso nel retro, per riuscire a calmarsi e salutarla senza l’odio negli occhi, un odio naturalmente non indirizzato a lei, lasciando soli Cora e Margaret.
E il dolce e tenero messaggero degli dei, il cui cuore di panna si scioglieva come neve al sole di fronte a una amore sincero e destinato alla sofferenza, aveva deciso di lasciarsi sfuggire un importante ed essenziale dettaglio.
E cioè che era sufficiente mangiare anche solo una nocciola proveniente dall’Ade per non poter più vivere su Skypeia e restare, volenti o nolenti, a Raftel per sempre.
Era stato straziante vederli salutarsi, entrambi determinati a non far trasparire la propria sofferenza se non dai loro occhi.
Si erano baciati con disperazione e Margaret gli aveva promesso che avrebbe fatto il possibile per tornare, salutandolo con un “A dopo” per sottolineare il suo intento.
E così aveva fatto, al cospetto di Dragon-san, accanto al quale la sua altera e viziata madre sedeva, guardandola dall’alto in basso lasciando trapelare tutto il proprio fastidio per il comportamento a suo avviso sleale della figlia e Cora aveva faticato a non reagire di fronte a tanta insensibilità.
Ad Albida interessava solo ottenere ciò che aveva chiesto, provare un punto, dimostrare che i suoi capricci erano più importanti dei colpi di testa di Margaret, come li chiamava lei.
Ma la giovane dea non si era arresa, chiedendo, pretendendo e implorando finché Dragon non le aveva fatto notare che squallida e tetra vita sarebbe stata al fianco di quel freddo quanto spietato dio.
E tutto, tutto avrebbe dovuto e potuto fare Dragon-san tranne che osare toccare il suo uomo, dipingendolo per qualcosa che non era. 
Margaret si era alzata in piedi, stringendo i pugni e gelando con le sue iridi di denso e caldo cioccolato le due divinità che le stavano di fronte.
Sapeva che a nulla sarebbe valso protestare contro quella descrizione, che tanto correttamente lo dipingeva agli occhi di coloro che non lo conoscevano davvero e così aveva dichiarato tutto il suo amore con una semplice quanto sincera frase, pronunciata con voce tremante ma determinata.
-Sono pronta anche a sfidare l’inferno, per lui!-
Albida era intervenuta, le aveva imposto ipocritamente di non fare i capricci come una bambina, le aveva comunicato la decisione ormai presa da Dragon che no, non sarebbe potuta tornare da lui, mai più.
Mai più avrebbe lasciato Skypeia, mai più avrebbe rivisto Law.
Aveva permesso a una solitaria e amara lacrima di graffiare la sua guancia prima di aprire la mano destra e rivelare sul palmo un piccolo melograno dal guscio frantumato e i suoi sei piccoli semi che brillavano contro la pelle diafana.
Aveva portato la mano alla bocca ingoiando quelle minuscole gemme granata e poi era crollata sotto lo sguardo attonito e sconvolto di Dragon, Cora e Albida, priva di vita.
Il secondo si era riscosso in un secondo, spiegando agitato che quel melograno proveniva dall’Ade e che, mangiandolo, Margaret si era condannata con le sue mani.
Una piccola finestra di tempo le era ancora concessa, breve, troppo breve per permettere ancora ad Albida di lamentarsi.
Doveva tornare a Raftel, dovevano portarla da Law o sarebbe morta per avere mangiato il cibo degli Inferi mentre si trovava nella divina sede.
E a Raftel sarebbe dovuta restare per sempre, qualora fosse sopravvissuta al suo folle gesto.
Law si rese conto di non avere mai conosciuto il panico finché non vide Cora entrare all’Inferis con Margaret esanime tra le braccia.
E con estremo orrore notò Nyon tendere un filo con cura perché Tsuru potesse reciderlo di netto con le proprie cesoie.
Fu un attimo e le due Parche si ritrovarono contro il muro, il collo circondato dalla possente stretta del dio della morte che le osservava terribile e ringhiante, imponendo loro di aspettare, di non osare, di non permettersi.
La sola cosa che potesse uccidere una divinità, Margaret l’aveva fatta e Law non sapeva come comportarsi.
Non era preparato a una simile evenienza e non era abituato ad affidarsi semplicemente all’istinto.
Ma le alternative erano poche, proprio come il tempo che gli era concesso per salvare la sua ragione di vita.
Se la caricò in braccio, precipitandosi giù per le scale che portavano nell’Ade e, senza un apparente valido motivo, si gettò dentro al Lete, bagnandosi e calando lo splendido corpo di Margaret perché galleggiasse nelle limpide acque del fiume.
Attese per un tempo interminabile, nel quale la dea divenne ancora più pallida e fredda e la disperazione ruppe gli argini nel freddo dio.
Non con lacrime ma con un urlo di rabbia che raggiunse il piano superiore, facendo chiudere gli occhi con disperazione e rassegnazione a Cora-san, appoggiato al bancone in attesa.
Voltò appena il viso per vedere Tsuru apprestarsi a concludere quanto Koreka aveva iniziato e, sotto il suo incredulo sguardo, le cesoie della Parca cozzarono contro lo stame di Margaret come se questo fosse fatto di metallo.
Si aprì in un caloroso sorriso, resistendo all’impulso di precipitarsi di sotto, senza poter così assistere al risveglio di lei che, aperti a fatica gli occhi e riconosciuto l’uomo piegato sul suo petto in preda ai singhiozzi sulla riva del fiume dell’oblio, aveva allungato una mano, passandola a dita allargate tra le sue ciocche corvine, facendogli alzare la testa di scatto.
La fissò a occhi sgranati per un tempo che a lui parve indefinito, osservando il volto tirato che riprendeva un po’ di colore e il pallido sorriso che gli rivolgeva, prima di avventarsi sulle sue labbra e dichiararsi con quelle due semplici parole che si era ripromesso di non pronunciare mai.
E lì, sulla riva del Lete, si amarono ancora, il re degli Inferi e la sua regina, trasformando quel tetro luogo in un colorato e variopinto giardino, testimonianza del loro amore, promessa di una vita ultraterrena che non sarebbe più stata desolazione assoluta.
Promessa di una vita che sarebbe stata sole e penombra nella giusta misura per loro.
Promessa di un’esistenza condivisa, di un amore indissolubile.
Nato per caso in un giardino.
Consumato fino all’ultima goccia di sudore.
Consacrato per l’eternità, grazie a sei semi di melograno.
 
  
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