Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |       
Autore: Mary P_Stark    21/11/2014    9 recensioni
Sheridan O'Connell è una figlia ribelle e selvaggia della campagna irlandese, fuggita a soli diciotto anni per raggiungere Dublino con il suo ragazzo. Dopo una vita travagliata è infine diventata fotoreporter per il National Geografic, sempre in giro per il mondo, ma sempre lontano da casa. Casa che la richiamerà a sé a causa delle cagionevoli condizioni di salute del padre. E lì, tra quelle lande dell'ovest Irlanda, immersa in ricordi dolce amari, Sheridan ritrova luoghi a lei cari, come il faro in cui si rifugiava sempre per rifuggire le ire dei genitori.
Il suo sancta santorum, però, ora è di proprietà di uno scorbutico guardiano, Ronan O'Sea, che le darà del filo da torcere, prima di permetterle di riavvicinarsi a ciò che le è caro.
La loro convivenza forzata in un luogo comune, però, sgrosserà i caratteri riottosi di entrambi, permettendo a una luce nuova di farsi largo nelle loro vite tribolate.
E darà il via a una serie di eventi che mai, Sheridan, si sarebbe aspettata. Perché un oscuro mistero si cela dietro gli occhi color acquamarina di Ronan.
Starà a lei scoprire quale. - 1° RACCONTO "SAGA DEI FOMORIANI"
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Saga dei Fomoriani'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



In every colour there’s the light.
In every stone sleeps a crystal.
Remember the Shaman, when he used to say:
"Man is the dream of the dolphin".

~ Enigma ~

 
 
 
 
 
 
1.
 
 
 
 
 
 
Tuo padre sta morendo. Vieni subito a casa.

Okay, di tutti i messaggi che uno potrebbe ricevere, di certo questo non spiccherebbe nella top ten dei più gettonati.

Ma ormai lo sapevo da tempo.

Non ero mai stata fortunata, con gli uomini.

Partiamo dal principio, giusto per non fare confusione.

Il fatto di non essere mai andata d'accordo con mio padre non potrebbe, da solo, giustificare questa mia affermazione.

Ma il mio curriculum parla da solo.

Liti aspre, il più delle volte.

Strepiti, urla, insulti, le restanti occasioni.

Non ricordo neppure quante, a dire la verità.

Ce ne furono molte, in molte epoche diverse ma, fondamentalmente, il motivo fu sempre uno, e uno solo.

Io non ero – e non sono – come mi volevano i miei genitori.

Per questo, a diciotto anni, scappai con il mio fidanzatino del liceo, Kieran Murphy, per trasferirmi con lui nella mondana Dublino.

Abbandonammo le calme e noiose rive di Portmagee, nella contea di Kerry, per non farvi più ritorno.

All'epoca, mi parve una buona idea e, col senno di poi, certe cose non le butterei via. Ma, in pratica, quel mio colpo di testa mi costò la scomunica da parte dei genitori e tanto, tanto sudore e fatica.

Io e Kieran eravamo i classici ragazzini innamorati della vita – che parolona! Ma all'epoca ci credevo – che, ingiuriati dalle famiglie, decidevano di fare La Follia.

Ci sposammo neanche un anno dopo, con due testimoni raccattati a caso nel complesso folk dove suonava Kieran per mantenersi.

E lui morì neppure ventenne, lasciandomi i suoi debiti, e un appartamentino in un sottotetto dove, a stento, potevo dire di poter camminare in piedi, tanto era angusto.

Lo trovarono in un angolo di strada, in uno dei quartieri malfamati di Dublino, una pallottola in fronte e una nel petto.

Un regolamento di conti.

Non seppi mai se fu per droga, o per un debito di gioco.

La polizia lo archiviò come aggressione, perché non trovarono mai testimoni o prove di alcun genere per proseguire le indagini.

La famiglia ne richiese il corpo, e io non mi opposi.

Non sottolineai con loro che eravamo sposati e che, legalmente, avrei dovuto essere io a decidere della sua sorte.

Da quel breve matrimonio avevo già avuto tutto, perciò non volli prendere anche quello.

Piansi notti intere, pensando a cosa avevamo sbagliato, cosa ci fossimo illusi di fare, da soli e senza soldi.

Faticai non poco a non perdere il mio lavoro, presso la lavanderia sotto casa, ma per fortuna la proprietaria non mi buttò fuori.

Se fu per affetto o per semplice pietà, non volli mai saperlo.

Fui anche tentata di tornare a casa, ma la mia caparbietà me lo impedì.

Mi iscrissi all'università, trovai un altro lavoro e, quando finalmente riuscii a ottenere il mio tanto sospirato diploma di laurea in giornalismo, ero già vedova da quattro anni.

E a ventiquattro anni, non è il massimo.

Riemergendo a fatica da quei pensieri, guardai fissa la mia insostituibile aiutante e segretaria, il post-it giallo in una mano e la borsa con le mie inseparabili Canon nell'altra.

Mi parve a disagio, e non le diedi torto.

Chiunque ti porge un messaggio del genere, non può non sentirsi a disagio.

A parte i sassi, è ovvio.

Ma Eithe non rientrava nella categoria dei minerali, e neppure nella categoria degli insensibili.

«Mi spiace, Sherry... vuoi che dica a Todd di...»

La interruppi con un gesto della mano, su cui brillava solitario un pesante anello in argento e turchese.

Era un pezzo che avevo preso in India, durante un viaggio per conto del National Geografic, per cui scrivevo articoli e scattavo fotografie.

Il coronamento di un sogno, pagato di sicuro a caro prezzo.

La mia pinta di sangue, oltre alla mia oncia di carne, erano state ampiamente pagate.

Sorrisi a mezzo, mi grattai una guancia accartocciando al tempo stesso il post-it e, alla fine, aprii bocca.

Prima o poi avrei pur dovuto dire qualcosa!

«L'appuntamento con Todd non lo salto. E poi, dovrò pur dare a qualcuno tutto il materiale che ho raccolto a Ottawa. Che ci sono andata a fare, sennò?»

Cercai di mettere ironia nella mia voce di contralto, ma uscì più o meno l'equivalente di uno squittio.
Se fossi stata rossa di capelli come mia madre, a quel punto sarei avvampata in viso, ma avevo preso tutto da mio padre.

Gelida, imperscrutabile.

Da lui avevo ereditato anche i colori, non solo il carattere apparentemente serafico e incrollabile.

Ero nera di capelli e bianca di pelle. Sempre e comunque.

Dovevano ancora inventare qualcosa che mi facesse abbronzare per più di quindici minuti.

E il caro sole, che tanto ho pregato negli anni, neppure mi scalfisce.

Dovrebbero studiare il mio sangue, per farci una protezione solare coi controfiocchi.

L’unica punta di colore vera e propria erano i miei occhi, azzurri come le giornate d’estate più alte, quelle in cui ti illudi che il bel tempo possa durare in eterno.

Scossi la testa, scacciando quei pensieri assurdi, e riprovai.

Di solito, la seconda volta riesce meglio.

«Mi sa che mi prenderò un po' di ferie, a questo punto. Visto il tono del messaggio...»

«E' molto che non senti i tuoi?»

Eithe lo sapeva, ma forse sperava in un mio riavvicinamento dell'ultima ora.

Speranza vana.

Scossi il capo e mormorai un 'secoli' a mezza bocca, prima di veder comparire Todd – il nostro capo – sulla porta del suo ufficio.

A giudicare dalla sua faccia torva, Eithe doveva aver spifferato qualcosa.

Merda.

Non mi piace quando la gente vuole essere carina a tutti i costi, anche quando non è portata per esserlo.

Todd era uno di questi.

Un genio nel suo lavoro, un manager con le … beh, insomma, di polso, e con un fiuto per la notizia davvero eccezionale.

Dirigeva la sede locale del National Geografic da non meno di sette anni, e da tutti era visto come la mano destra di Dio.

Giusto per rendere l'idea.

Ma, insomma, nei rapporti umani era un po’ come me. Impacciato e, a volte, troppo indisponente.

Eppure, andavamo d’accordo. Vai a capire certe affinità elettive…

Mi fece un cenno – non è mai stato loquace, questo no – e lo seguii all'interno del suo ufficio, tutto fotografie e piante verdi.

Mi ritrovai a schivare la foglia tagliente e lanceolata di una dracena marginata e, quando mi accomodai sulla sedia di fronte alla sua scrivania dell'Ikea, gli domandai: «Ha mangiato uno dei facchini, quella pianta? E' gigantesca!»

Todd ridacchiò impacciato. Non voleva ridere alle mie battute per darsi un tono, ma falliva miseramente ogni volta.

Abbozzai un sorriso di scuse, e lui intrecciò le dita sul sottobraccio, impedendosi così di tamburellarle per il nervosismo, che vedevo chiaro nei suoi occhi.

Ahia.

«Com'è andato il volo?»

Classico esordio. La prossima domanda, quale sarebbe stata? Piove? C'è il sole?

Decisi di andare subito al dunque, e dissi: «Penso di prendermi un anno sabbatico, Todd. Mi spetta di diritto, lo sai, visto che non ho fatto un solo giorno di ferie – o malattia – da quando sono qui. Mi sono aperta in due, per te, e...»

Todd bloccò la mia arringa con un semplice cenno della mano e, cordiale, asserì: «So bene che potrei darti il distintivo di impiegato del secolo, Sherry. Volevo solo sapere come ti senti, ma faticavo ad arrivarci.»

«Ho notato. E io, come al solito, sono andata dritta sparata come un caccia bombardiere.»

Risi sommessamente.

«Se avessero mandato te, in Iraq, avresti finito la guerra in tre giorni» ironizzò lui, scrollando le ampie spalle da ex giocatore di rugby.

Feci la lingua, ma non dissentii. Mi conoscevo troppo bene, per dire il contrario.

E forse, solo il mio carattere mi aveva tenuto in piedi fino a quel momento, vista la vitaccia che avevo fatto per anni.

«Quindi? Come stai?»

«La verità? O il politically correct

Non mi rispose. Si limitò a sorridermi, come un padre che redarguisce bonariamente la figlia.

E, in parte, Todd aveva sempre avuto questo ruolo nella mia vita, fin dal primo giorno in cui ero stata assunta.

Gli veniva naturale? Forse.

O magari gli stavo simpatica io.

Anche in questo caso, non avevo mai voluto indagare a fondo.

Buffo, per un giornalista.

Ma certi segreti dovevano rimanere tali.

«Non so come sentirmi, a dirla tutta. Sono stordita, per la maggiore.»

Scrollai le esili spalle – che Todd era solito triturare ogni volta con la sua stretta – e non dissi altro.

«Mi sembra normale. Non hai mai avuto un vero e proprio rapporto, con loro» assentì, sciogliendo le dita per muoverle.

Forse, era arrivato a farle addormentare. Chissà.

Le scosse, apparentemente più nervoso di me, e aggiunse: «Lynn mi ha chiesto se avresti partecipato alla festa per i nostri venticinque anni, ma a questo punto...»

«Oh...»

Non riuscii a dire altro.

Lynn, la moglie di Todd, era la classica mamma dal grembiule bianco e i boccoli in testa.

Dolce come il miele, sapeva diventare un despota e tiranno, se non ti riguardavi.

E la prima volta che mi aveva vista, più magra di un chiodo e nervosa come una biscia, si era fatta personale carico di farmi ingrassare.

E calmare.

Nel primo caso, si era rivelata una causa persa.

Non avevo preso più di qualche chilo ma, nel complesso, ormai non sembravo più anoressica.

Essendo alta un metro e ottanta, e con un'ossatura delicata, non avrei mai potuto sembrare grossa, ma di sicuro non mi si contavano più le costole.

In compenso, Lynn era stata un mago come camomilla ambulante e, alla fine, era riuscita ad avere più o meno la meglio sul mio carattere riottoso.

Che se ne stava lì, pronto a scattare alla prima mossa falsa, ma per lo meno era più ammansito rispetto a otto anni prima, quando ci eravamo conosciute.

«Le spiegherò la situazione. Capirà.»

«Meritereste che io venissi da voi, altro che storie!» bofonchiai, grattandomi nervosamente il dorso di una mano.

«Sherry...»

Mi bloccai al volo, sapendo che era uno dei tic che mi venivano fuori quando ero prossima a esplodere.

«Perché non sei tu, mio padre?» mi lagnai, pur sapendo di essere infantile, al solo dire una cosa simile.

Lui mi sorrise comprensivo, sapendo bene cosa volessi dire.

«Ho quarantotto anni, Sherry. Avrei dovuto averti a quattordici anni!»

«Mi sarebbe andata comunque bene.»

Gli sorrisi generosa e lui, con lo sguardo, corse alla foto dei suoi due gemelli; Cory e Adam.

Due pesti di sette anni, giunte quasi a sorpresa per scombussolare le loro vite, e renderle perfette.
Loro mi chiamavano 'zia Sherry'.

E io li adoravo entrambi.

«Vai a casa, Sherry. Stai con la tua famiglia. Noi, qui, ce la caveremo. Ti chiamerò solo se saremo messi così male da non poter fare a meno di te, d'accordo?»

«Andata. Anche se ho una paura folle.»

«Di prendere l'aereo?»

«Ah-ah.»

Non dissi altro.

Mi limitai a consegnargli una chiavetta USB, dove avevo scaricato articolo e foto dopodiché, mogia, uscii dall'ufficio.

Salutai Eithe con un pugno contro pugno, seguito da un'arricciata di naso – nostro gergo in codice per dire che andava tutto bene – e, afferrata la mia giacca di jeans, andai via.

Quel che successe dopo, non rimase nella mia mente per più di qualche attimo.

Fu più che altro un susseguirsi di mansioni.

Lasciai le piante alla vicina di casa, perché se ne prendesse cura, spiegandole succintamente i motivi della partenza, e altri bla bla bla.

Passai in banca, dirottando temporaneamente la posta presso la casa dei miei nonni, a Portmagee e, con l'umore a terra, mi diressi al pub dei miei amici per avvertirli della mia imminente trasferta.

Alcuni di loro si stupirono persino di sentir nominare il mio paese d'origine – neppure lo conoscevano – mentre altri, preoccupati, mi chiesero se avevo bisogno di qualcosa.

Rifiutai aiuto e consolanti discorsi sull'amicizia e, con un bacio, mi dileguai in fretta.

Non ero mai stata una piagnona, e non avrei di certo cominciato quel giorno.

Sul finire della sera, stordita e con un calice di vino rosso in mano, tornai a guardare l'appunto di Eithe.

Non feci fatica a immaginare il tono di mia madre, serioso e composto, mentre snocciolava con autorità e tono ampolloso quello scarno messaggio.

Immaginai la faccia di Eithe nel riportarlo nero su bianco, così come sopportare i modi di fare sicuramente spocchiosi di mia madre. Doveva essere stato un brutto quarto d’ora.

Forse, si era spinta a usare persino una punta di alterigia, oltre al suo solito tono.

Ai suoi tempi lo aveva sempre fatto, con coloro che lei riteneva inferiori.

E io lo ero di sicuro, e così i miei amici.

Neanche lei fosse stata la Regina d'Inghilterra!

Risi tra me, finendo di bere il vino.

Neppure la sopportava, la regina. Mia madre era a dir poco idiosincratica, quando le si parlava di Impero Britannico e Corona.

Forse era cambiata, ma ne dubitai.

«E adesso mi tocca tornare in quel covo di pazzi.»

Sospirai di nuovo e, con una spinta pari a quella di un moribondo, afferrai il telefono e chiamai l'unica persona che, a Portmagee, mi era rimasta amica a dispetto del mio colpo di testa.

Attesi che qualcuno rispondesse alla chiamata e, quando avvertii il suono trillante della voce di Donna, mormorai: «Ciao, Donna. Sono Sheridan.»

Un attimo di silenzio e, subito dopo, la moglie del mio migliore amico esalò: «Oh... ciao, Sherry. Hai saputo, immagino.»

«Già. Ti scoccia se parlo un attimo con Fynn?»

Lei ridacchiò, come a voler scacciare i miei dubbi e, dopo aver chiamato il marito, disse: «Vieni a pranzo da noi, quando arrivi. Mi farebbe piacere vederti.»

Era buffo.

Io e Donna eravamo diventate amiche tramite telefono.

Non ci eravamo mai viste, in età adulta – l'ultima immagine che avevo di lei, apparteneva ai tempi del liceo – ma, da quando avevo ripreso i contatti con Fynn, sei anni addietro, avevamo imparato a conoscerci.

Io avevo inviato loro alcune foto mie, oltre ai posti che avevo visitato nel corso dei miei viaggi e loro, in compenso, mi avevano tenuto aggiornata sulle vicende di Portmagee.

E sui miei genitori.

Per non avermi detto nulla su mio padre, la notizia doveva essere più che fresca.

«Verrò senz'altro, Donna.»

Ciò detto, avvertii un brusio in sottofondo e, come un vento caldo e piacevole, la voce di Fynn attraversò la cornetta per avvilupparmi tutta.

«Ehi, terremoto, ciao.»

Sorrisi. Mi chiamava così fin dalla prima elementare.

E, anche quando avevamo fatto coppia fissa per un po’ al liceo, prima che la mia passione per Kieran mi portasse oltre il limite, non aveva smesso di usarlo.

Forse, se mi fossi accontentata di Fynn, sarei stata sposata con lui, con un paio di figli al seguito e...

Scuotendo il capo, rifiutai quello scenario.

Non avrei comunque sposato Fynn. Avevo impiegato poco per capire che lui, per me, sarebbe sempre e solo stato – e rimasto – un amico.

Forse, gli avevo persino fatto un favore.

Non ero certo la donna più facile da sopportare, almeno in quell'emisfero terrestre.

Donna era sicuramente una persona più adatta a lui e al suo carattere calmo e posato.

«Ciao, Fynn. Da uno a dieci, quanto è brutta, lì?»

«Oserei dire che dovresti usare la scala delle migliaia. Tua madre ha chiamato tutti i dottori d'Irlanda, indipendentemente dai desideri di tuo padre. Credo che abbia degli appuntamenti da qui al duemilaventi.»

La madre di Fynn non era solo la vicina di casa dei miei genitori, ma anche il miglior agente segreto dell'isola dei trifogli.

Se la regina avesse mai avuto bisogno di una spia, Shemaine Kriegan O'Keefe sarebbe stata la persona più adatta da contattare.

«Immagino che tua madre abbia preso appunti. Di solito, mamma è logorroica, in questo genere di cose, e tenerle dietro è quasi impossibile.»

Ironizzai, ben sapendo che Fynn non se la sarebbe presa. Contavamo sulle buone orecchie di sua madre proprio per tenere d'occhio i miei.

«Credo che abbia riempito un quaderno intero» assentì, facendomi sorridere per un momento.

L’attimo dopo, il suo tono si fece spiacente e colmo di dolore. «Mi spiace davvero, Sherry.»

«Non è colpa tua. Si sa, almeno, cos'ha? Nel messaggio, mia madre è stata criptica.»

«Cancro ai polmoni.»

«Merda! E dire che gliel'avevo detto di piantarla, con le sigarette!» sbottai, sentendomi male al solo pensiero.

Lo ricordavo seduto nel suo studio, come se lo avessi avuto innanzi in quel momento.

Il giornale della domenica in mano, intento a fumarsi la sua sigaretta senza filtro, mentre l'aria salmastra dell'oceano penetrava dalle finestre aperte.

Un mero compromesso per non far ammattire la mamma, che detestava i luoghi saturi di odore di fumo.

Forse, avrebbe dovuto preoccuparsi di più del fumatore in questione, piuttosto che della stanza maleodorante.

«Quando conti di rientrare?»

«Partirò domattina, sul presto. Penso di arrivare lì nel primo pomeriggio, comunque ti darò un trillo con il cellulare, quando sarò nei pressi di Portmagee.»

«Stai attenta, mi raccomando. Sono comunque più di quattro ore di auto.»

Sorrisi. Il caro, buon, vecchio Fynn, che pensava sempre alla salute degli altri.

Perché non mi ero innamorata di lui, al liceo?

Bel mistero.

Assentii tra me e dissi: «Starò attenta. A domani.»

Lui mi salutò con tono vagamente preoccupato, ma mi ero aspettata anche questo.

Tendenzialmente, niente riusciva a sorprendermi, o a cogliermi di sorpresa.

Solo una cosa, al momento, mi preoccupava, perché in questo caso non sapevo davvero cosa aspettarmi.

Che accoglienza mi avrebbe tributato la mia famiglia?





________________________
N.d.A: e con questo capitolo, inizia una nuova serie, intitolata "The Cross of Changes". Sarà composta da quattro racconti e, a partire dalla seconda storia, sarà un crossover con un'altra serie che ho scritto, "La Trilogia della Luna". (giusto per darvi una mano a livello pratico)
Per chi non lo sapesse, The Cross of Changes è il titolo di un album degli Enigma, e i titoli delle varie storie riprenderanno quelli di alcune canzoni del sopracitato gruppo. 
Sono stati loro a ispirare queste storie, e spero sinceramente potranno emozionarvi.
Vi ringrazio in anticipo se vorrete seguirmi anche su questo vascello, diretto verso una nuova meta.
A presto!


  
Leggi le 9 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Mary P_Stark