Latcho Drom
Emma uscì di casa inseguita dalle urla della madre.
Quando per l’ennesima volta trovò le scale vuote non potè non sentirsi
arrabbiata. Sapeva che non aveva il diritto di pretendere che Anton la aspettasse
come un cane da guardia fuori dalla porta, ma… era suo amico, c’era sempre
stato. Non riusciva ad abituarsi all’assenza delle ultime settimane.
Si sedette sulle scale e aspettò qualche minuto, mentre un sentimento cupo le gonfiava sempre di più il petto, rendendo difficile respirare. Scattò in piedi come se si fosse improvvisamente resa conto di essere seduta su delle braci accese e marciò decisa verso la porta della casa di Anton. Aveva deciso, avrebbe bussato. Tanto a quell’ora dove poteva essere? L'avrebbe trovato sicuramente, e si sarebbe fatta spiegare il motivo di tanta freddezza. Sicuramente era un malinteso, avrebbero chiarito tutto in un attimo.
Nonostante nei
suoi propositi fosse decisa, bussò esitante, frenata dalla timidezza. Anche se
conosceva Agnes da quando era bambina ed era stata sempre buona e affettuosa
con lei, tutti gli adulti la facevano sentire impacciata e a disagio. Dovette
aspettare qualche minuto prima che la porta si aprisse di uno spiraglio. Agnes
la guardò con aria severa e preoccupata. «Emma, cosa fai qui a quest’ora?»
«Volevo parlare con Anton.» Bisbigliò a voce bassissima.
Agnes esitò, lanciando occhiate furtive in strada.
«Non c’è tesoro. È uscito con suo padre. Vai a dormire
ora.»
Emma ingoiò la delusione e finse di tornare in casa, solo
per sedersi di nuovo sul pianerottolo. Il fatto che sua madre la odiava e la
trascurava era di dominio pubblico ed Emma sapeva che in tanti la compativano, ma
lei era sempre stata bene. Finché c’erano Anton e la sua famiglia non si era
mai sentita veramente sola. Mai come in quel momento.
Le stelle si stagliavano nette e luminose nel cielo limpido e freddo
di novembre, ma Emma le vedeva sfocate, fondersi fra di loro e tremare, trasformarsi
in scie luminose. Avrebbe aspettato lì. Non importa quanto facesse freddo,
prima o poi Anton sarebbe tornato. L’avrebbe costretto a dirle dove era stato.
«Ma sta dormendo sulle scale? Va a dirle qualcosa.»
«No, non voglio.» I bisbigli concitati si fecero strada
nei sogni di Emma, svegliandola lentamente. Le mani e i piedi le dolevano per
il freddo.
«Morirà di freddo se resta lì tutta la notte. Non discutere.
Vai.» Sentì Anton sbuffare riluttante e salire le scale obbedendo al padre. Senza
pensarci fece finta di dormire ancora. Anton esitò accanto a lei due minuti
buoni, poi le toccò una spalla con un solo dito, come a voler controllare se
fosse reale. Emma aprì gli occhi e fece del suo meglio per sembrare arrabbiata.
«Dove sei stato? Ti ho aspettato una vita!»
Anton arrossì così violentemente che anche con la poca
luce che c’era Emma potè vederlo chiaramente. «Sono fatti miei! Non sei mica
mia madre, che devo dirti tutto. Non aspettarmi più.»
«Perché no? Che ti ho fatto?» Si odiò sentendo la voce
lamentosa che, aggirando il suo orgoglio, l’aveva costretta a svelare la
verità. Era triste, ferita, confusa. Voleva almeno sapere cosa fosse successo.
«Non è… che…» Anton balbettò qualcosa, preso alla
sprovvista. «È che sono un uomo adesso. Non ho tempo di stare dietro a te. Ho cose
più importanti da fare, ok? Lasciami in pace.»
Lo guardò scendere di corsa le scale e rifugiarsi in
casa, in un modo molto poco adulto.
Per qualche
secondo seguì una lotta concitata, in cui Emma cercò di liberarsi senza
successo dalla presa ferrea che le impediva di gridare. L’uomo sussurrò nel suo
orecchio, facendole rizzare i capelli sulla nuca. «Vieni con me e non opporre
resistenza. Non abbiamo intenzione di farti del male.»
Emma urlò una
risposta, che però suonò solo come un mugolio soffocato contro il palmo della
mano dell’uomo. Non riuscendo a gridare, iniziò a pestare i piedi sul pavimento
più forte che potè. Sperando che il rumore avrebbe svegliato Anton o Agnes o
Luis… qualcuno sarebbe venuto a vedere cosa stava succedendo. «È inutile. I
tuoi vicini non sono in casa.»
Emma smise per
un secondo di agitarsi, cercando di pensare a un modo di farsi sentire in
strada. Non sarebbe semplicemente sparita nel nulla senza opporre resistenza. «Sappiamo
che hai letto l’atlante. Ti conviene calmarti e seguirmi in silenzio.»
Dunque era
quello che succedeva una volta finito di leggere? Quei tipi inquietanti
uscivano dall’ombra e ti costringevano a seguirli? Proprio non erano riusciti
ad escogitare un modo più delicato per mettersi in contatto con lei?
Adesso oltre
che spaventata era furiosa, si sentiva come se il suo cuore fosse cresciuto
fino a diventare due volte più grande del normale. Yuri avrebbe dovuto
avvertirla. Yuri avrebbe decisamente
dovuto avvertirla. Visto che aveva smesso di lottare l’uomo allentò la presa ed
Emma riuscì a girarsi per guardarlo. Il suo volto era in ombra, coperto da un
cappuccio grigio.
«Stronzo.»
Sibilò fra i denti prima di massaggiarsi la mascella indolenzita. L’uomo fece
un gesto di stizza e le passò un cappuccio.
«Copriti gli
occhi, ragazzina, e fai quello che ti dico. Non ti succederà nulla, te lo giuro.»
A beh, se lo giuri tu, allora mi fido.
Tutti i nervi
del suo corpo, tesi fino allo spasmo, le sconsigliavano fortemente di
rinunciare alla vista e perdere ulteriormente il controllo sulla situazione. Ma
non aveva molta scelta.
Fece come le
era stato detto e cercò di non scansarsi quando l’uomo le mise una mano sulla
spalla per guidarla giù dalle scale e poi in strada.
«È andato
tutto bene?» La voce era diversa, meno roca di quella dell’uomo che la stava
guidando. Doveva essere il frate grigio che aveva visto per strada. Sembrava
essere più giovane.
«Mi ha
chiamato stronzo.» Il giovane rise di gusto, irritando Emma. Cercò di
memorizzare la voce del secondo frate, promettendosi che se l’avesse incontrato
in un’altra occasione gli avrebbe tirato un calcio.
Ad un certo
punto l’uomo la sollevò prendendola sotto le ascelle, strappandole un urlo di
protesta e di sorpresa. Istintivamente ricominciò a divincolarsi, ma un attimo
dopo i suoi piedi appoggiarono di nuovo su una superficie di legno. «Non ti
agitare, che ci ribaltiamo.» Erano su una barca.
Dovresti farla rovesciare questa stupida barca. Vorrei
proprio vederli a nuotare con quelle vesti, come pipistrelli fradici.
Ma nonostante
l’istinto le suggerisse di liberarsi e scappare, la curiosità era più forte.
Forse quella era una trappola e stava semplicemente andando al macello, e
quella possibilità la faceva sentire come se avesse avuto un gatto vivo nello
stomaco, ma forse le avrebbero svelato dei segreti. Segreti importanti sulle
mura, sulla città, sul mondo… Era disposta a rischiare la vita per scoprirlo? Nel
momento in cui aveva iniziato a leggere l’atlante, aveva già deciso di sì. Deglutì un
paio di volte, cercando di liberarsi le orecchie dal ronzio sordo che sembrava
precedere un attacco di panico, e concentrò tutta la sua volontà nell’intento
di non vomitare.
Di nuovo venne
sollevata e depositata su un pavimento di pietra.
«Puoi
toglierti il cappuccio ora.»
Digli “preferisco tenerlo per non vedere la tua faccia da
culo”.
Ma Emma decise
di stare zitta. Anche perché il volto degli uomini era coperto, la battuta
sarebbe stata sprecata. L’avrebbe conservata per la prossima volta che fosse
stata bendata e rapita. Si sfilò il cappuccio con le mani che tremavano,
scompigliandosi i capelli carichi di elettricità. Le sue narici si riempirono
dell’odore freddo e umido di una cantina, mischiato con un sentore di
salsedine. Erano in un porto sotterraneo, rischiarato solo dalla lanterna
portata dall’uomo più giovane. Non c’era nessuna barca, né le sembrava di
vedere un’apertura sull’esterno. L’unico sbocco di quella specie di grotta
artificiale era un tunnel all’estremità della banchina di pietra, alle spalle
dell’uomo più giovane.
«Vieni. Cerca
di non fare rumore.» Emma deglutì ancora e seguì obbediente. Il ronzio nelle
orecchie era quasi scomparso. Poter vedere quello che la circondava le aveva
restituito almeno un po’ di sicurezza.
I loro passi
rimbombavano sulle pareti del cunicolo sotterraneo, coprendo quasi ogni altro
rumore, eccetto l’insistente gocciolio dell’acqua. Al di fuori del cerchio di
luce della lanterna era completamente buio.
Un forte senso
di dejà vu la fece sentire stordita e confusa. Si fermò per un istante, ma il
più anziano dei frati grigi la spinse avanti appoggiandole delicatamente una
mano su una spalla.
Un po’ tardi per essere delicato. Pensò Emma irritata prima di
proseguire.
Camminarono in
silenzio per una decina di minuti e all’improvviso si fermarono davanti a una
porta di legno chiusa da un pesante lucchetto. Il tunnel continuava e spariva
nel buio, ma sembrava che quella porta fosse la loro destinazione. L’uomo più anziano
aprì faticosamente la serratura con una chiave ossidata. «Bisogna oliare questo
lucchetto.» Si lamentò mentre la porta si apriva con un cigolio. Poi si fece da
parte per lasciarla passare.
Emma iniziò a
salire i gradini di mattoni, titubante. La porta si richiuse alle sue spalle
con un tonfo sordo, lasciandola nel buio totale. I due grigi non l’avevano
seguita e uno scatto sinistro preceduto dallo stridore di meccanismi
arrugginiti le disse che non poteva fare altro che salire le ripide scale, sperando che portassero da qualche parte.
Allargò le braccia, così da toccare con entrambe le mani le pareti umide e
scrostate. La scala era larga poco più di un metro, di certo non rischiava di
perdersi.
Che
cosa
avrebbe trovato in cima? Non aveva idea di cosa spettarsi, sapeva solo
che
probabilmente erano ancora a Sianel: il viaggio non le era sembrato
così lungo. Forse era solo un brutto scherzo. Avrebbe trovato
Rebecca in cima a quelle scale, che rideva di lei e della sua paura? O
forse si sarebbe trovata in prigione. Lasciata al buio, in una cella
minuscola, a morire di fame fra i morsi dei topi. Una svolta nella
scala la colse di sorpresa, facendola inciampare. Recuperò
l’equilibrio e seguì a tentoni l’angolo di novanta
gradi, studiando i bordi dei
gradini con i piedi. Adesso vedeva un lieve bagliore e iniziava a
sentire un
mormorio concitato.
Si ritrovò in un ambiente poco illuminato e odoroso di spezie. Dentro una decina di persone, alcune sedute attorno a un tavolo, altre in piedi accanto a un focolare, bisbigliavano fra loro. Appena entrò tutti ammutolirono.
Emma studiò le persone
lì convenute, guardandole una per una. Appoggiato al muro, con studiata negligenza, c’era
Anton. Incrociò il suo sguardo per un attimo, poi lui diventò viola e guardò
altrove. Luis fumava la pipa accanto al caminetto, guardando corrucciato nelle
fiamme, mentre Agnes le sorrise incoraggiante, senza rivolgerle però la parola.
Anche gli altri erano facce note, uomini e donne del rione, persone che aveva
sempre considerato tranquille e rispettose della legge. Anche il preside della
scuola rionale era fra loro.
Solo una donna
le era completamente sconosciuta, una donna distinta di circa quarant’anni, con
corti capelli neri e occhi scuri dal taglio esotico.
Le andò
incontro tendendole la mano con un sorriso. «Benvenuta, Emma!» Emma non prese
la mano, continuò a guardarsi attorno, ammutolita e a disagio. «Ti starai
chiedendo perché sei qui vero?»
In realtà si
stava chiedendo di più perché erano lì Anton e i suoi genitori, ma non riuscì a
formulare la domanda.
«Siediti,
siediti. Prendi da bere. Spero che non ti abbiano portato qui con modi troppo
bruschi.»
Emma non si
mosse. «Sì, in realtà. Sono stati bruschi.» Alcuni dei presenti si mossero a
disagio, altri sorrisero timidamente come se avesse appena fatto una battuta
che non faceva ridere.
Bene, che si sentano pure a disagio. Pensò quasi trionfante. Di certo non
avrebbe fatto nulla per alleggerire l’atmosfera. La donna però non si fece
scoraggiare.
«D’accordo
allora, saltiamo direttamente alle presentazioni. Di sicuro conosci già tutti
loro.» Emma scoccò uno sguardo freddo ad Anton, che sembrava voler sparire nel
muro. «Ma non hai mai visto me, dato che non sono di qui.» Mostrò la runa
tatuata sul braccio. Era una precisazione inutile: tutto, dal suo accento ai
suoi lineamenti, dimostrava che veniva dalla gilda dei medici. «Io sono Cam
Huang. Dirigo il presidio di Sianel.»
«Presidio di
cosa?»
«Forse hai
sentito parlare di noi come “frati grigi”. So che circolano diverse leggende in
proposito, ma sono quasi tutte sbagliate. Quelle vesti servono più che altro a
non farci riconoscere. Preferiamo chiamare la nostra organizzazione Latcho Drom.»
Emma avrebbe
voluto continuare ad essere fredda e imbronciata, ma era troppo curiosa per
continuare con il trattamento del silenzio. «Latcho Drom?»
«Sì.»
Aspettò
qualche secondo ma Cam non aggiunse altro. «Che cosa vuol dire?»
«È
il nome con
cui ci si riferisce a un viaggio leggendario. Il primo viaggio compiuto
da un
popolo nomade, un viaggio che durò millenni.» Emma
cercò di immaginare un
cammino così lungo da poter essere misurato in generazioni,
più che in chilometri. Come poteva essere nascere in cammino
e non vedere mai due volte lo stesso luogo per tutta la vita? Le
vennero le
vertigini e si appoggiò alla parete, sempre rifiutando
l’idea di sedersi.
«Ancora non ho
capito perché sono qui.»
«Sei qui
perché hai letto l’atlante.»
«No, quello
l’avevo immaginato…» Iniziò a rispondere scocciata. Poi venne colta da un’idea
semplicemente assurda. «Aspetta un attimo… tutti qui hanno letto l’atlante?»
Chiese incredula.
«No, certo che
no. Non tutti. Solo io, te, il tuo amico Anton…» Emma lo guardò con gli occhi
sgranati, mentre il ragazzo sembrava stesse facendo finta di essere altrove.
«Anton in effetti è stato uno dei più giovani ad avere mai letto l'atlante.
Quanti anni avevi? Undici?» Mormorò una risposta incomprensibile e il suo volto
assunse lo stesso colore dei mattoni alle sue spalle. Le sue abilità di
mimetismo sembravano migliorare con il progredire della conversazione. Forse in
un altro momento Emma avrebbe riso.
«E come? Io ho
fatto fatica. Dopo aver studiato all’accademia! Lui… Lui aveva bisogno del mio
aiuto pure per fare i compiti delle elementari!»
«Io l’ho
aiutato.» Rispose Cam con la sua pacata compostezza, come se stesse spiegando
perché due più due fa quattro.
«E perché?»
«Volevamo che
fosse già un membro del gruppo a tutti gli effetti quando il momento di leggere
l’atlante fosse arrivato anche per te. Per questo, con il permesso dei suoi
genitori, abbiamo iniziato a prepararlo per tempo.» Emma non riuscì a sopprimere
una smorfia ridicola, con la fronte corrugata e la bocca mezza aperta in una
perfetta espressione di muta perplessità. Le mille domande che avrebbe voluto
fare le si incastrarono da qualche parte fra il petto e la gola.
«E… perché?»
«Al momento ci
sono troppe cose che non sai perché tu possa capire questo dettaglio.»
Se in quel
momento avesse avuto un’arma l’avrebbe usata senza esitare, e Cam sembrò
capirlo dalla sua espressione, perché con un gesto fece cenno agli altri di
allontanarsi. Rimasero solo la donna, in piedi dietro al tavolo consumato e
incurvato dall’umidità, ed Emma, pallida e appoggiata al muro accanto alle
strette scale che si perdevano nel buio.
Cam sospirò e
riprese con pazienza il discorso. «Di questo ne parleremo dopo. Quando sapremo
se possiamo fidarci di te.» Emma si limitò a scuotere la testa, scioccata.
«Siediti,
intanto.» La invitò Cam indicando una sedia con un tono perfettamente
ragionevole e sedendosi a sua volta. Obbedì riluttante e strinse fra le mani la
tisana che la donna le porse, senza però berla. Aveva un forte odore speziato e
le scaldò le mani in modo piacevole.
«Forse
dovremmo iniziare dalla storia della tua famiglia. Tua madre te ne ha mai
parlato?»
Scosse la
testa, senza aver nemmeno bisogno di pensarci. Sua madre sicuramente non le
aveva mai parlato di niente.
«Ti ricordi,
vero, di essere nata in un altro rione?» Emma rifletté un attimo, finché
emersero ricordi vaghi dello stupore infantile che aveva provato di fronte a un
ambiente nuovo, di una camminata notturna in un tunnel buio avvenuta più di
dieci anni prima. L’aveva sempre saputo in un certo modo, solo che per qualche
motivo, tutte le volte che provava a sfiorare quei ricordi, la sua mente
fuggiva altrove.
«Non molto…»
Scosse la testa incapace di parlare correttamente. Aveva la gola secca e
iniziava a sentire freddo. Senza pensare bevve dalla
tazza che aveva fra le mani. Il sapore speziato della bevanda le pizzicò il palato.
«Sei nata nel
rione degli agricoltori, Abincil. Sia tua madre che tuo padre sono nati lì, ed
entrambi facevano parte della nostra organizzazione.»
«Non può
essere.»
«Perché no?»
«Emma Creuza.
Nome e cognome tipici di Sianel. Pensavo che almeno mio padre fosse di qui…»
«No, non è
così. Quando tu e tua madre vi siete trasferite qua, per aiutarti a integrarti
abbiamo cambiato i vostri nomi. È stata un’operazione rischiosa entrare nei
registri cittadini, dopo quella volta non è più stato fatto.»
«E allora qual
era il mio nome?»
«Non ancora.
Un nome è una cosa potente, saperlo al momento sbagliato non ti aiuterebbe.»
Emma posò con cautela la tazza, si mise le mani nei capelli e appoggiò i gomiti
al tavolo. Non sapeva più cosa pensare.
«Ho conosciuto
i tuoi genitori, sai. Hanno sacrificato molto per la nostra causa.» Emma si
sentì attraversare da una stilettata di irritazione, infastidita dal tono
materno della donna.
«E come? Anzi,
prima, voglio che tu mi dica qual è di preciso la vostra causa.» Riempì le
parole con tutto il cinismo che riuscì a raccogliere, ma Cam non si lasciò
scalfire dal suo astio, trattandola con la condiscendenza con cui gli adulti
trattano sempre gli adolescenti arrabbiati.
«Il
Latcho
Drom ha molti scopi. Di certo non posso elencarteli tutti. Se no che
società
segreta saremmo?» Emma fissò gli occhi in quelli della
donna. Di certo non
avrebbe aderito a nessuna folle organizzazione senza prima sapere
almeno per
cosa si batteva. E a giudicare da quello che avevano detto sul
perché avevano
fatto leggere l’atlante ad Anton, un minimo di potere
contrattuale ce l’aveva, anche se non sapeva perché.
Cercò
di assumere una posa rilassata e una voce dura ma tranquilla, ma non
era mai
stata brava a fingere. Le parole le uscirono come lo squittio lamentoso
di un
bambino che vuole essere reso partecipe di un segreto.
«Molti scopi,
ok. Fammi un esempio concreto, altrimenti dovrai lasciarmi andare.»
«Bene, allora.
Diciamo che il nostro obbiettivo finale è abbattere le mura, o comunque
annullarne il potere.»
«È
impossibile.» Dichiarò Emma categorica, convinta che la donna la stesse
prendendo in giro. «Non so come erano le cose una volta, se quello che c’è
scritto nell’atlante è vero o no, ma so che adesso è impossibile vivere fuori
dalle mura. Ho visto come viene ridotto chi c’è stato.»
«Adesso è impossibile.» Emma guardò la
donna sempre più scettica, aspettando che continuasse. Dopo pochi secondi di
silenzio sembrò decidere di accontentarla. «Non ci sono chiare le ragioni per
cui le mura sono state costruite né come funzionano. Tutti i documenti che le
riguardano sono spariti. Per questo pensiamo che capirlo potrebbe portarci al
punto di farne a meno: se possiamo fare a meno delle mura, possiamo fare a meno
della città e della protezione del patrono. Quale altra ragione potrebbe
esserci per nascondere così accuratamente la verità?» Emma non era del tutto
convinta. Qualcosa le impediva di accettare quell’idea. Per lei senza mura non
c’era vita, punto. Che le piacesse o meno. Cam si prese un po’ di tempo per studiare
le sue reazioni e poi riprese a parlare.
«I tuoi
genitori pensavano che fosse importante scoprire più cose possibile sulle mura,
convinti che, un giorno o l’altro, la razza umana avrebbe riconquistato la
libertà. Per questo accettarono di sottoporsi ad un esperimento. Se avesse
funzionato la loro prole avrebbe avuto nel sangue una refrattarietà alla magia
delle mura.»
«Ma non ha
funzionato.» Constatò Emma. Cam annuì, poi non disse più nulla. Evidentemente
le stava lasciando il tempo di elaborare le informazioni. Bevve un lungo sorso
di tè, cercando di capire come si sentiva per quelle rivelazioni, ma
onestamente non ne aveva idea. Era come se la sua capacità di provare emozioni
si fosse spenta, come un fuoco soffocato dalla troppa legna.
«Quindi voi
pensate che siano le mura a rendere inabitabile il mondo esterno.» Cam sembrò
colta alla sprovvista e per un attimo sbarrò gli occhi, ma si ricompose in
fretta.
«Delle nostre
teorie ti parlerò solo dopo che avrai accettato ufficialmente di collaborare.»
Emma sbatté la tazza sul tavolo, arrabbiata. «Me l’hai praticamente già detto, devi solo
elaborare il concetto! Hanno sempre detto che senza mura perderemmo la nostra
anima, e tu mi dici volete essere refrattari alla magia delle mura. Questo
significa che sono le mura che rendono inabitabile l’esterno? Che se le mura
smettessero di funzionare non moriremmo affatto, anzi, saremmo liberi di andare
dove vogliamo?» La donna tacque, mentre Emma ingoiò il contenuto della tazza in
un sorso, bruciandosi l’esofago. «In questo modo sembra che le mura, più che
per proteggerci, siano state costruite per imprigionarci.»
«Sei una
ragazza troppo intelligente per sopravvivere a lungo in questo mondo» Osservò
Cam ridendo, mentre Emma rimase mortalmente seria.
Io avrei detto che sei troppo scema per sopravvivere in
questo mondo, ma il succo è quello.
«Quindi…
l’esperimento non ha funzionato. Perché?»
«Ci fu un
contrattempo.»
Grazie al cazzo.
«Cioè quale?»
Insistette Emma cercando di evitare il linguaggio brusco che la sua coscienza
le suggeriva.
«Beh… era
pensato per funzionare su un solo bambino per volta, ma i tuoi ne ebbero due.
Tuo padre volle tentare comunque, così un anno dopo la vostra nascita usammo il
vostro sangue per creare un antidoto e lo provò su di sé. Se l’esperimento
avesse funzionato, almeno avrebbe potuto far fuggire la sua seconda figlia ma…»
«Ma non ha
funzionato. Quindi mio padre è morto e, immagino, mia sorella è fra i servi
delle mura.» Cam sembrava essere molto a disagio, ed Emma per un attimo si
sentì trionfante. Non sapeva come sentirsi nei confronti di un padre e di una
sorella che non ricordava per nulla, ma capiva molto chiaramente cosa provava
nei confronti della donna che aveva davanti: astio, antipatia e l’irrefrenabile
desiderio di farla sentire più a disagio di quanto si sentisse lei.
«Beh… sì, è
così. Ma pensiamo che in te sia rimasta una traccia di refrattarietà. Non
sufficiente per funzionare, ma abbastanza per non dovere iniziare da capo. »
«Per questo
vuoi che entri a far parte del vostro gruppo. Per voi il mio sangue è una
risorsa importante.» Constatò ancora. Non sapeva spiegarsi quel bisogno di fare
la saputella, né perché le importasse così poco del destino toccato alla
famiglia di cui era l’unica superstite. Si sentiva come un blocco di pietra
appena scaldato dal sole. Uno strato sottile del suo essere era scaldato dalla
rabbia, dall’indignazione. Era ferita per quello che le stavano rivelando,
scossa perché adesso capiva in parte perché sua madre l’aveva sempre rifiutata,
ma solo in superficie. Dentro di lei tutto era stranamente immobile. Cercò di
trasmettere tutta la durezza che provava nello sguardo e continuò. «Mia madre
ce l’aveva con voi perché l’esperimento ha causato la morte di mio padre,
giusto? Ci siamo trasferite perché non volevate che lei parlasse con qualcuno
del vostro gruppo, e qui a Sianel lei non poteva sapere di chi fidarsi e di chi
no, perché avete mantenuto la divisione dei rioni. In più la famiglia di Anton
aveva il compito di sorvegliarci.»
«No.»
La
interruppe Cam con uno sguardo pietoso. «Vi abbiamo trasferito
perché tua madre
aggredì una guardia quando vennero a prendere tua sorella.
Riuscimmo a
nascondervi a Sianel, ma fu costretta a vivere da latitante, senza
poter
parlare con nessuno del fatto che era stata trasferita. Ufficialmente
risultava
morta. Gli Acquafredda avevano il compito di prendersi cura di voi,
visto che tua madre non era più in grado di provvedere né
a te né a se stessa.»
Emma strinse
la tazza ormai fredda fra le mani, rimpiangendo il lieve conforto che le aveva
dato il calore pochi minuti prima. Lentamente di alzò e si avvicinò alle braci
del focolare, cercando di fermare i brividi che le correvano lungo la schiena.
La sua curiosità era ben lontana dall’essere appagata, eppure sentiva che a
quel punto sarebbe bastato pochissimo per far crollare quello strano equilibrio
immobile che si era creato dentro di lei.
«Immagino che
nemmeno adesso tu voglia dirmi il mio vero nome, giusto? O quello di mia
sorella.» Cam scosse la testa. «No. Non ancora. Ho bisogno di sapere, Emma, se
hai deciso di collaborare con noi oppure no.» Emma non rispose. Non lo sapeva.
«Adesso esco. Ti lascio qualche minuto per riflettere. All’alba tornerò e
dovrai darmi una risposta.»
Emma non alzò
nemmeno la testa mentre la donna se ne andava. Si sedette con la schiena
appoggiata alla pietra del focolare. Il lato del suo corpo esposto al calore
bruciava, l’altro era gelido.
Con un dito
iniziò a tracciare righe sinuose nella cenere calda, cerchi e virgole panciute.
Sapeva che avrebbe dovuto riflettere su cosa avrebbe detto a Cam di lì a poche
ore, ma proprio non riusciva a concentrarsi. Tutta la sua attenzione era
rivolta alla cenere e al rumore delle braci che scoppiettavano sommessamente,
spegnendosi.
«Cosa stai
facendo?» Emma sobbalzò sollevando una nuvoletta di cenere che le andò in gola
facendola tossire. Anton si era avvicinato di soppiatto ed era a pochi
centimetri da lei. Incrociò le braccia e lo guardò con astio.
«Cosa sei
venuto a fare?»
«Mi hanno
mandato a vedere se ti serviva qualcosa…» Anton esitò all’improvviso, notando
gli strani disegni che stava tracciando. Emma li cancellò bruscamente con una
mano.
«Non mi serve
nulla.»
Anton ignorò
il suo chiaro rifiuto e dopo aver ravvivato il fuoco mise a scaldare una
pentola d’acqua. Poi si sedette di fronte a lei e rimase lì in silenzio per
lunghi minuti.
Più quel
silenzio durava, più Emma sentiva crescere la rabbia e l’irritazione maturata
in quegli anni, come l’acqua che bolliva accanto a lei, la tensione lottava
sempre più per liberarsi, venendo in superficie prima con un leggero tremore,
poi in grosse bolle roventi. No, non poteva sopportarlo più. Con un urlo
afferrò una manciata di cenere e provò a lanciarla all’amico, ottenendo il solo
risultato di disperderla nell’aria. «Sei
un idiota.» Urlò ancora fra un colpo di tosse e l’altro, alzandosi in
piedi e camminando avanti e indietro per la stanza. Anton rimase seduto e
scrollò le spalle.
«Per che cosa?
Perché ho iniziato ad ignorarti o perché non ti ho detto dell’atlante?» Emma
agitò le mani in aria, frustrata. Fra la cenere e la sporcizia delle scale
erano completamente nere.
«Sei un idiota
e basta.»
Anton sbuffò. «Avevo
undici anni Emma. Tu hai letto l’atlante ora che ne hai quasi diciassette, che
effetto pensi che possa avermi fatto all’epoca? Ci ho provato, davvero, ma non
potevo continuare la vita di prima come se nulla fosse!» Emma boccheggiò
qualche secondo, pensando a come replicare.
«Potevi dirmi
dell’atlante! Io sono coinvolta in questa storia anche più di te, avevo il
diritto di sapere!»
«No che non
potevo. Credi che ti avrei raccontato una cosa così pericolosa? Non volevo
darti anche questo problema. Speravo che te ne andassi davvero all'accademia e che non venissi coinvolta in tutto questo.»
«Beh, indovina
un po’, adesso sono coinvolta, mister Scoreggia Stantia.» Anton divenne rosso e
sembrò rimpicciolire, mentre mormorava di nuovo qualcosa che somigliava ad
“avevo solo undici anni”.
Rimasero in
silenzio altri lunghi minuti, poi Emma sbottò. «Potevi parlarmi comunque. Fare
uno sforzo! Inventati una spiegazione! Hai smesso di parlarmi da un giorno
all’altro!»
«Ci ho
provato, ma se non ricordo male ti sei rifiutata di ascoltarmi. E mi hai spinto
nel canale.»
Emma arrossì,
ricordando l’episodio. Era successo poco prima che partisse per la scuola. In
effetti, lei cosa aveva fatto per capire perché Anton aveva smesso di parlarle?
In realtà quasi nulla. Si era limitata ad offendersi e a tenergli il broncio,
ferita dal suo primo rifiuto, quella notte di novembre. Forse, se avesse
insistito, se quel giorno, prima di partire, l’avesse lasciato parlare…
Ma poi lei era
tornata dall’accademia. E aveva provato a parlargli. E lui non l’aveva nemmeno
voluta incontrare.
Forse aveva paura che lo spingessi di nuovo nel fiume.
«Ah, basta!
Stai solo cercando di rigirare la frittata. La realtà è che sei un idiota.»
Anton alzò gli
occhi al cielo, esasperato. «D’accordo, sono un idiota, contenta?»
«No che non
sono contenta. Lo dici solo per farmi stare zitta!» Protestò oltraggiata. Non
aveva dodici anni. Non si sarebbe fatta trattare ancora con condiscendenza. Anton
la guardò con aria di sfida, ancora viola in volto, Emma non riusciva a capire
se per la rabbia o l’imbarazzo.
«Dico sul
serio, invece. Sono un idiota. Mi dispiace.» Solo Anton poteva dire una frase
del genere con un tono orgoglioso e strafottente completamente fuori luogo e
sembrare comunque sincero. Ad Emma venne quasi da ridere, ma si trattenne e
guardò altrove, ostinata.
Avete
torto entrambi. In più lui voleva proteggerti in qualche modo,
insomma, fa tenerezza. Accetta la cosa con dignità e chiedigli
scusa.
Ma Emma non
era capace di mettere da parte l’orgoglio ferito così in fretta. Si sedette di
nuovo vicino al caminetto e frugò distrattamente con il dito fra la cenere
tiepida. L’acqua bolliva e Anton la tolse dal fuoco. Non guardò quello che stava
facendo, ma un forte odore speziato riempì l’aria e un attimo dopo Anton le mise
in mano un’altra tazza di tè. Le sue dita lasciarono impronte nere sul legno
chiaro.
Guardò un
attimo l’amico negli occhi. Erano più seri di quanto ricordava, ma ancora non
avevano perso la luce vivace che li animava quando erano bambini. Qualcuno
strizzò il suo stomaco come se fosse stato una spugna ed Emma abbassò lo
sguardo in fretta, con il naso che pizzicava come se stesse per starnutire.
«Cosa
succederà se rifiuterò di collaborare?»
«Ti lasceranno
andare, ma… faranno in modo che tu non possa parlarne con nessuno.»
Ad Emma venne
da ridere. Come pensavano di ricattarla? Non aveva nulla da perdere. «Ti rendi
conto, vero, che se parlerai scopriranno che tua madre era una latitante, e che
non potendo pagare lei per i suoi crimini pagherai tu?» Non ci aveva pensato.
Non che avesse intenzione di raccontare niente a nessuno. Bastava un decimo
delle cose in cui era stata coinvolta quella sera per farla spedire nei campi
esterni con un’unica, fluida pedata.
Ancora non le
sembrava reale la morte di sua madre, figuriamoci sapere che era latitante, che
aveva avuto un’altra figlia, che lei e suo marito facevano parte di una società
segreta di ribelli.
«E invece se
accetto?»
Anton esitò.
«Se accetti non importa cosa succederà, ti starò vicino.»
Emma si sentì bruciare la faccia e quasi le sfuggì la tazza di mano, lo stomaco in gola come se avesse appena saltato dalla finestra del primo piano. Sbuffò sopra la tazza di tè fumante. «Sei un idiota.»
Lo so, sono in ritardo. Sapete com'è, tesi, esami, visti studenteschi... Comunque sono viva. Se volete aggiungermi su facebook, ogni tanto farò sapere a che punto sono (Qui!)
Comunque vi avrò fatto anche aspettare ma il capitolo è un po' più lungo del solito. E si scoprono anche un bel po' di cose! Anche se da scoprire c'è ancora tanto. Più di quanto immaginate.
Non sono brava a scrivere scene dove gli amici litigano e fanno pace. Mi mettono in imbarazzo, non so perché! Spero che abbiate apprezzato o che abbiate qualche consiglio utile da darmi per migliorare!
Ancora per qualche settimana la mia vita sarà abbastanza un inferno, poi dovrei aggiornare più regolarmente. Spero. Abbiate pietà di una povera laureanda <3 ---- 羽毛
P.S: Latcho Drom tecnicamente vorrebbe dire "buon viaggio", ma io lo userò come mi pare e piace perché sì.