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Autore: crownforaking    28/11/2014    2 recensioni
Arthur, il Dottore, è un Signore del Tempo che si imbatte in Francis, un ragazzino umano all'apparenza normalissimo. Per qualche ragione finisce per tornare da lui una volta all'anno e con il passare del tempo si affeziona così tanto da decidere di portarlo con sé come compagno. L'immensità del tempo e dello spazio è a loro completa disposizione.
[Capitolo 2] «Dottore!» esclama il ragazzino quando le porte della cabina telefonica si aprono e la familiare figura compare, finalmente, nella stanza; «sei tornato davvero!»
«Mai dubitare della mia parola» borbotta il Dottore quando Francis gli si lancia addosso e si aggrappa alle sue gambe in un abbraccio decisamente troppo stretto. Fortunatamente il ragazzino è troppo occupato a dimostrare la propria felicità per notare il sorriso soddisfatto dell’altro.
Genere: Avventura, Romantico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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«E ora, vecchia amica, portami dove c’è bisogno di me» mormora quelle parole sfiorando delicatamente il sistema di comando della Tardis, lasciando che sia lei a guidarlo come ha sempre fatto negli ultimi quattro secoli e mezzo; chiude gli occhi, aspettando che il suono della Tardis che atterra svanisca nell’aria attorno a lui prima di socchiudere la porta e uscire all’aperto.

Al chiuso, si corregge mentalmente, quando nel guardarsi intorno si rende conto di essere finito in una stanza. Una stanza che appartiene a qualcuno che proprio non sa disegnare, visti i fogli sparsi in giro che ritraggono figure dagli arti decisamente sproporzionati e—

«Ciao!» esclama una vocetta acuta e infantile che arriva più o meno all’altezza delle sue cosce; oh, giusto, i disegni potrebbero più semplicemente essere quelli di un bambino. Avrebbe potuto pensarci prima.

«.. Ciao a te» risponde, chinandosi quel tanto che basta per arrivare a guardare l’umano che ha parlato, e cercando nello stesso tempo di capire perché la Tardis l’abbia portato lì.

Osservando meglio il ragazzino prende nota dei tratti caratteristici della specie che si trova davanti — perché ancora non è riuscito a capire dove sia finito —: occhioni azzurri, capelli biondi, naso alla francese. Quello che secondo i canoni del pianeta Terra potrebbe somigliare ad un angelo. 

Non per lui, no: gli angeli che gli vengono in mente sono decisamente poco adorabili e molto spaventosi.

«Chi sei tu? E cos’è quella grossa scatola? E come sei entrato nella mia stanza? E perché sei vestito come un vecchio e sembri un sacco giovane?» il fiume di domande del ragazzino sembra non esaurirsi mai — senza contare l’offesa nemmeno troppo celata nell’ultima frase — e anzi, gli interrogativi si susseguono sempre più velocemente; «sei il mio nuovo baby-sitter? Gli uomini possono fare i baby-sitter? Oppure sei venuto perché oggi è il mio compleanno e mi hanno organizzato una festa? La mia mamma non ti ha detto che non puoi portare grosse cose come quella in casa senza prima chiedere a lei? Se—»

«Shh!» riesce finalmente a zittirlo, scuotendolo per le spalle e aggrottando le sopracciglia giusto in tempo per sentire il ragazzino bisbigliare un ultimo «e perché hai quelle sopracciglia così grosse?» prima di zittirsi del tutto con un’espressione colpevole dipinta sul viso.

«I tuoi genitori non ti hanno insegnato che si porge una domanda per volta?» domanda quasi acidamente, scuotendolo di nuovo per le spalle giusto per essere sicuro che abbia capito cosa non deve più fare.

«I miei genitori mi hanno detto che non devo fare domande perché sono fastidioso» commenta il ragazzino con un mormorio contrariato, evitando lo sguardo dell’altro; «ma io le faccio lo stesso».

«Sì, questo l’avevo capito» risponde quasi automaticamente, tirandosi di nuovo in posizione eretta e guardando il ragazzino biondo dall’alto; «dovresti ascoltare i tuoi genitori»

L’espressione offesa dell’umano potrebbe, secondo la sua modesta opinione, essere incorniciata e appesa ovunque; «non mi piaci, non voglio che tu sia il mio nuovo baby-sitter!»

«Infatti io non sono il tuo nuovo baby-sitter. Grazie tante, non lo farei nemmeno se mi pagassero!» risponde piccato, quasi dimenticandosi per qualche secondo di stare discutendo con un ragazzino che, infatti, strilla in tutta risposta un arrabbiatissimo «e chi sei allora?».

«Sono il Dottore, sono un alieno, vengo dallo spazio e quella» borbotta alzando gli occhi al cielo e indicando con la mano destra la Tardis, «quella è la mia astronave e macchina del tempo».

Il ragazzino spalanca la bocca, assimilando tutte le informazioni, prima di rivolgergli un sorriso sdentato ed esclamare un «fico!» che non era davvero quello che il Dottore si aspettava. A volte tende a dimenticarsi che i bambini hanno delle reazioni profondamente diverse da quelle degli adulti, certo, ma questo ragazzino in particolare sembra aver preso per vero tutto quello che gli ha detto senza battere ciglio.

«Ma se sei un alieno cosa ci fai qui? Qui è noioso!» questa è l’unica domanda che il bambino gli rivolge — grazie al cielo, borbotta tra sé e sé il Dottore.

«Qui..» lascia in sospeso la frase nella speranza che il ragazzino capisca cosa gli sta chiedendo senza che ci sia effettivamente il bisogno di chiedere qualcosa. «Qui—»

«Sulla Terra!» e a quelle parole il Dottore non può fare altro che annuire con la consapevolezza che, per l’ennesima volta, la Tardis l’ha portato su quell’unico pianeta che potrebbe decisamente essere considerato un suo punto debole. Un enorme punto debole.

Deciso a non chiedere altro il Dottore si guarda intorno fino a trovare quello che cercava: su un grosso calendario che ritrae gattini e cagnolini e altre amene creature terrestri campeggia la scritta 13 febbraio 2014 e, finalmente, tutti i tasselli sono al loro posto.

«Comunque io mi chiamo Francis» il ragazzino interrompe i suoi pensieri tirandolo piano per la stoffa dei pantaloni e porgendogli la mano in un eccesso di educazione che il Dottore non comprende — o almeno non comprende in un bambino; «Francis Bonnefoy».

«.. Bonnefoy» aggiunge dopo qualche istante, interrogandosi sul perché quel cognome stia causando in lui una spiacevole sensazione — come di qualcosa che avrebbe già dovuto capire e non ha ancora capito; «perché hai un cognome che suona francese?»

«Perché sono francese!» esclama Francis, ridendo dell’evidente stupidità di quella domanda e causando nell’altro una reazione decisamente esagerata: aggrottando la fronte le folte sopracciglia sembrano unirsi e gli conferiscono, almeno così pensa il ragazzino, un’aria decisamente ridicola.

«Male, male, malissimo» borbotta il Dottore tra sé e sé, non abbastanza piano perché Francis non lo senta e non gli rivolga uno sguardo interrogativo; «i francesi non mi piacciono, questo è molto, molto male».

Il ragazzino gli rivolge un’espressione contrariata, incrociando le braccia al petto per fargli capire ancora meglio quanto sia offeso da quella frase: «.. non è carino dire queste cose».

Il Dottore si limita a borbottare tra sé e sé qualcosa che Francis non capisce e, dopo qualche secondo, comincia a gironzolare per la stanza osservando attentamente ogni singolo dettaglio che possa fargli capire perché l’ha Tardis l’abbia portato in quel preciso luogo.

Francis lo osserva con curiosità per interi minuti, sorridendo divertito del modo buffo in cui aggrotta la fronte — e le sopracciglia si muovono su e giù — e delle smorfie che fa; «sei venuto per le ombre?» chiede dopo qualche istante, quando gli torna in mente che l’uomo ha detto di chiamarsi Dottore. I suoi genitori hanno detto che i dottori non sono soltanto quelli che curano le persone ma anche le persone che sanno un sacco di cose. Almeno crede.

Il Dottore si volta a guardarlo con un’espressione interrogativa e Francis in tutta risposta gli mette tra le mani una pila di disegni. Disegni che ritraggono sempre e comunque, oltre a persone, animali e cose, delle strane ombre sullo sfondo.

«Li hai fatti tu?» chiede per avere conferma di quello che già pensa, interrogandosi nello stesso momento sul significato di quelle ombre. Magari è un bambino con molta fantasia, magari sono soltanto sogni. Magari..

«Sì» Francis interrompe i suoi pensieri, abbracciandogli una gamba e guardandolo dal basso; «le ombre mi fanno meno paura quando le disegno, quindi le disegno».

Pensare che quella sia soltanto la paura di un bambino ed andarsene vorrebbe dire ignorare completamente che la Tardis l’ha condotto lì, in quel preciso momento nel tempo e nello spazio, per un preciso motivo. Il Dottore ha imparato da tempo che ignorare queste cose non porta mai a risultati positivi, per questo si china sul ragazzino e con tutta la gentilezza di cui è capace gli chiede di fargli vedere le ombre.

Francis si illumina a quelle parole, felice che qualcuno abbia risposto alle sue preghiere e sia venuto ad occuparsi delle sue paure, prendendo il Dottore per mano e portandolo fuori.

«E i tuoi genitori?» domanda l’altro, seguendo il bambino senza fare storie. Ancora non si capacita che Francis non gli abbia domandato nulla — di solito c’è sempre qualcuno che chiede ma da dove vieni? Ma non sei verde e spaventoso, come fai ad essere un alieno? O cose di questo genere —, ma è abbastanza sicuro che ai genitori del ragazzino verrebbe qualche dubbio su un tizio che, all’improvviso, è comparso nella stanza del figlio.

«Sono via per lavoro» si limita a rispondere Francis, senza fermarsi fino a quando non è riuscito a portarlo fuori da una casa che, sinceramente, sembra più un palazzo; «c’è soltanto mia nonna in casa. E lei non si sveglia neanche quando accendo la televisione al massimo».

Il Dottore sta per aprire la bocca e replicare qualcosa ma Francis lo tira per la mano e gli indica un punto tra gli alberi dell’immenso giardino che hanno davanti; «guarda! Ci sono le ombre!»

E in effetti il ragazzino non ha tutti i torti: gigantesche, tremolanti ombre si estendono tra l’erba e si proiettano contro i tronchi degli alberi, muovendosi quasi impercettibilmente verso di loro. Quasi impercettibilmente, perché il Dottore lo nota e decide, non sapendo che cosa si trova davanti, di procedere con cautela. E di estrarre il cacciavite sonico, non si sa mai.

«Cos’è quello?» domanda immediatamente Francis, fissando lo sguardo sullo strano oggetto che il Dottore tiene in mano; «cos’è, cos’è? Mi dici cos’è?»

«È un cacciavite. Sì, lo so, non sembra un cacciavite ma è un cacciavite. Un cacciavite sonico, che fa rumori e cose soniche che tu non capiresti» risponde il Dottore, anticipando le due domande che sarebbero sicuramente seguite.

«Rimani qui e aspettami» mormora al ragazzino, ignorando i suoi tentativi di protesta e sperando che faccia come gli viene detto, prima di inoltrarsi cautamente tra gli alberi.

Francis mantiene lo sguardo fisso sulla figura del Dottore fino a quando gli alberi non diventano troppo fitti per poterlo individuare nel buio; «Dottore?» chiama timidamente, rassegnandosi a non ricevere risposta e stringendosi meglio nel pigiama di cotone. Fa freddo ed è buio e le ombre sono sempre più grandi e vicine e il Dottore è sparito e—

«Buone notizie!» esclama improvvisamente una voce dal folto degli alberi, e Francis riesce a vedere un’ombra diversa dalle altre farsi sempre più vicina; «ho trovato la causa delle tue spaventose ombre».

Il Dottore compare improvvisamente sotto la debole luce della Luna, stringendo tra le braccia uno strano animale che Francis osserva prima con un certo timore e poi con una curiosità sempre maggiore.

Il piccolo animale somiglia quasi ad un gatto, nota Francis quando il Dottore si china per farglielo vedere, un gatto più grosso del normale: è di un colore rossiccio e ha delle strisce più scure lungo tutto il corpo e sulla coda e— «Dottore, Dottore, c’è quella?» esclama Francis quando la sua attenzione si sposta sulla cosa che c’è sulla punta della coda dell’animale.

«Oh, be’, diciamo che è una specie di lanterna» borbotta il Dottore nel tentativo di dare al ragazzino la spiegazione più semplice e concreta. In realtà la cosa che vive sulla coda dell’animale è, a sua volta, un altro animale che emette luce e si nutre degli scarti dell’altro.

«Ma è pericoloso?» chiede con una certa preoccupazione Francis, facendo per allungare una mano ad accarezzare l’animale tra le braccia dell’altro.

Il Dottore sorride divertito a quella domanda e scarica, senza farsi troppi problemi, l’animale tra le braccia di Francis: «niente affatto. I Brakathi di Thidia V, un pianeta molto lontano da qui, li tengono come animali da compagnia. Un po’ come se fosse un cane per i terrestri».

Il ragazzino sorride soddisfatto e passa i successivi venti minuti a coccolare l’animale, prima che il Dottore lo convinca a metterlo giù; deve riportarlo sul suo pianeta natale, cerca di spiegargli con gentilezza, perché le condizioni di vita sulla Terra non sono tra le migliori per la sua specie.

Al contrario di quanto aveva immaginato Francis reagisce anche troppo bene: saluta l’animale con un ultima carezza e si fa promettere dal Dottore che starà bene e che nessuno gli farà del male.

«Sarà il caso di riportarti nella tua stanza» borbotta nel vedere il ragazzino sbadigliare sonoramente e risolvendosi, quando quest’ultimo lo guarda con due occhioni assonnati, a prenderlo in braccio e a portarlo in casa.

«Verrai a trovarmi di nuovo, Dottore?» bisbiglia Francis quando finalmente si ritrova al caldo sotto le coperte, stringendo tra le dita la stoffa della giacca dell’altro; «verrai di nuovo?»

Il Dottore rimane in silenzio fino a quando non è sicuro che il ragazzino si sia addormentato e poi, silenziosamente, ritorna nella Tardis.

Sul comodino di Francis che ora dorme serenamente è rimasto uno dei disegni delle ombre; sul retro sono scarabocchiate tre semplici parole.

Al prossimo compleanno.

*

Dianasore brucia in un’unica vampata e il Dottore può vedere con estrema precisione gli ultimi momenti di vita di un pianeta che esiste da millenni, un pianeta che è destinato a finire nel fuoco e nella distruzione. 

Tutto il Sistema Delta Sakina sembra osservare quello spettacolo di morte e devastazione e puntare il dito contro di lui, contro l’unico colpevole di quel genocidio, della morte di miliardi di persone e della cancellazione di un’intera cultura.

Il Dottore distoglie lo sguardo da quella visione e scappa, conscio di essere un codardo, conscio di quello che ha causato, conscio che la sua intera esistenza non sarà mai più la stessa.

   
 
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