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Autore: Kary91    29/11/2014    7 recensioni
[Everthorne|Gale!centric|insieme di Missing Moments|Gale&Vick;Gale&Haymitch;Gale&Annie]
Gale sbuffò e tornò ad osservare il contenuto del suo bicchiere, facendolo ondeggiare; il pensiero di Katniss riusciva ancora a far bruciare delle ferite che ormai credeva avessero incominciato a cicatrizzarsi.
Tre volte era stato costretto a salutarla; tre volte era stato sul punto di perderla e l'ultima era stata quella definitiva.
In passato non era stato in grado proteggerla e alla fine era stato Peeta a sanare le sue ferite. Ma tutto questo non lo infastidiva, non più. Perché, scegliendo di non salvarla, era lui che la salvava sempre.
[I tre addii di Gale a Katniss nel corso dei tre volumi della saga]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Gale Hawthorne, Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Vick Hawthorne
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'I don't love you (but I always will); '
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Goodbye my lover

goodbye my friend

you have been the one

you have been the one for me.

Goodbye my lover. James Blunt

 

Goodbye my lover

gbm2l

 

 

La sala principale del War-R!ot era gremita di chiacchiere già dai toni sfasati per via dell’alcool, come tutte le sere.

Gale prese il bicchiere che il barman gli stava porgendo e ne buttò giù il contenuto tutto d’un fiato, ignorando la domanda di Quinn.

 

“Non fare lo stronzo e rispondimi” insistette il compagno di accademia, dandogli un calcio da sotto lo sgabello.

 

Gale abbozzò un mezzo sorriso; se l’ufficiale del loro corso li avesse visti in quel momento, intenti a bere e a punzecchiarsi come due ragazzini, probabilmente avrebbe condannato il loro intero squadrone a tre giri dell’accademia di corsa in piena notte. In fondo, agli allievi, non era nemmeno consentito uscire liberamente e senza permesso. Tuttavia, al R!iot, nessuno faceva mai caso ai due soldati; chiunque conosceva quella testa calda del Gancio[1], ed era bastato poco perché anche la presenza di Gale diventasse consuetudine agli occhi di tutti.

 

“Parlami della tua bella” tentò ancora Quinn, prima di ordinare un secondo giro. “Ci sarà pur stata una qualche signorina che ti abbia fatto girare la testa, in quel buco di Distretto dove sei cresciuto.”

 

Il compagno lo freddò con un’occhiata, prima di annuire.

 

“Forse” ammise infine, giocherellando col suo bicchiere. Lestat riconobbe in fretta il bisogno di bere impresso nei suoi occhi e glielo riempì di nuovo.

Quinn sorrise canzonatorio.

“Katniss?” chiese, voltando lo sgabello verso di lui.

Gale gli rivolse un’occhiata sorpresa; una punta di nervosismo incominciò a stuzzicarlo.

“Dici il suo nome quando ti svegli, qualche volta” spiegò l’amico, stringendosi nelle spalle. “Sei fottutamente imbarazzante, e non mi lasci nemmeno dormire. Non è il nome della tizia che facevano sempre vedere in televisione?”

Gale si limitò a stringersi nelle spalle.

“Sul serio, che fine ha fatto?” lo interrogò ancora Quinn, osservandolo buttare giù il secondo bicchiere.

Il compagno scosse la testa.

“Non lo so” rivelò, prima di passarsi il dorso della mano sulle labbra. “Le ho addetto addio tre volte. E l’ultima è stata quella definitiva.”

Quinn aggrottò le sopracciglia, prima di attirare l’attenzione del barman, bussando sul legno del bancone.

“Tre volte? Perché?”

 

Gale sbuffò e tornò ad osservare il contenuto del suo bicchiere, facendolo ondeggiare. Erano passati tre mesi dal suo trasferimento nel Due, ma il pensiero di Katniss riusciva ancora a far bruciare delle ferite che ormai credeva avessero incominciato a cicatrizzarsi.

Tre volte era stato costretto a salutarla; tre volte era stato sul punto di perderla.

Serrò una mano a pugno, sul bancone, e incominciò a raccontare, dapprima con riluttanza, poi sempre più in fretta, guidato dall’ebbrezza dell’ alcool.

 

 

***

 

Riprese a camminare avanti e indietro per la cucina, cercando qualcosa con cui occupare la notte, che sembrava interminabile. Non aveva nemmeno cercato di dormire: se chiudeva gli occhi per qualche istante, ogni immagine o suono che gli aveva provocato dolore quel pomeriggio tornava a echeggiare nella sua testa; le urla di Prim e le lacrime che la ragazzina aveva versato fino a sera, prima di riuscire ad addormentarsi. Il volto sofferente della signora Everdeen e i suoi silenzi carichi di debolezza e disperazione. Le mani tremanti di Katniss, l’insistenza con cui la ragazza aveva cercato il suo petto per rannicchiarvisi contro durante i saluti, la paura che s’intravedeva nel suo sguardo al di là della determinazione.

Perciò, Gale tenne gli occhi aperti. Si alzò più volte dalla sedia, per andare a controllare che sua madre e i suoi fratelli stessero dormendo, contò i soldi, preparò delle trappole per il giorno dopo e consolò Posy quando la bambina incominciò a piagnucolare nel dormiveglia, infastidita da un brutto mal di pancia. Aveva bisogno di tenersi occupato, di ignorare la sensazione di inquietudine che continuava a minacciare di travolgerlo. Katniss aveva lasciato il Distretto Dodici più di dieci ore prima, ma ancora si sforzava di rifiutare il pensiero di averla persa. Scacciò via l’immagine della caccia in solitario che avrebbe caratterizzato le sue giornate dall’indomani, senza qualcuno con cui condividere i propri guadagni, il peso di due famiglie da sostenere, il silenzio dei boschi. Nessuno con cui avanzare per la radura senza mai dire nulla, muovendosi come due parti dello stesso essere. Nessuno.

 

Erano ormai le quattro del mattino, quando un passo leggero s’intrufolò in cucina, distogliendolo da quei pensieri. Vick sbadigliò e lo raggiunse al tavolo, stringendosi nel vecchio maglione del padre: era sempre più logoro e consunto, ma di tanto in tanto il ragazzino lo indossava ancora, specialmente nei momenti in cui si sentiva triste o nervoso per qualcosa.

Vick strinse una spalla del fratello, prima di sedersi di fianco a lui. Gale si accorse che aveva gli occhi ancora gonfi, per via delle lacrime che gli avevano rigato gli zigomi con costanza, quel pomeriggio. La sensibilità di suo fratello era qualcosa di sorprendente, nonostante la sua giovane età. Soffriva, quando riconosceva il dolore negli altri e cercava di rassicurarli come poteva. Quel pomeriggio aveva pianto per lui, perché percepiva lo smarrimento che il fratello maggiore aveva provato, quando si era visto strappare via la sua migliore amica. Aveva pianto per Prim, perché sapeva quanto lui avrebbe sofferto se al posto della maggiore delle sorelle Everdeen ci fosse stata Posy su quel palco o se Gale avesse preso il posto del ragazzo dei Mellark. E aveva pianto per la signora Everdeen, perché ricordava ancora bene le lacrime silenziose che Hazelle aveva soffocato nel cuscino per giorni e giorni, quando suo padre era morto.

 

“Non dormi?” chiese Gale, sistemandosi i capelli arruffati sulla fronte.

Vick si strinse nelle spalle.

“Posso venire a cacciare con te, domani?” chiese, avvolgendo le dita nelle maniche del suo maglione. “Tanto è domenica.”

 

Gale chiuse gli occhi per un istante, avvertendo la stanchezza gravargli sulle palpebre. La domenica era sempre stata il suo giorno preferito; da ragazzino lo dedicava alla caccia con suo padre ma, in seguito alla morte dell’uomo, aveva sostituito quei momenti con i pomeriggi trascorsi assieme a Katniss.

 

“Meglio di no, Vick” rispose, scuotendo la testa. “Tu e Rory, però, potreste andare da Prim per farle compagnia. Ne ha molto bisogno, in questo momento” aggiunse, incrociando il suo sguardo.

Vick si morse il labbro inferiore, guardandolo con espressione preoccupata.

Anche tu, stavano mormorando i suoi occhi; Gale finse di non accorgersene.

 

"Lei hai detto addio?” chiese il minore dei due fratelli.

L’espressione di Gale si fece più nervosa.

 

“Non c’era bisogno che lo facessi” rispose asciutto. “Potrebbe tornare; potrebbe vincere.”

 

Dirle addio avrebbe significato arrendersi. Avrebbe suggerito a Katniss che la stesse dando già per spacciata, che non avesse fiducia in lei, e non era così.

 

“Lo so” bisbigliò in fretta Vick, scuotendo la testa. “Lo so, ma a volte stai un po’ meglio quando dici addio. Aspettare e basta è più difficile, perché continui a pensarci e ti arrabbi o ti viene da piangere; l’ho scoperto quando è morto papà” aggiunse, rivolgendo al fratello un sorriso triste. “Ma quando fai finta di arrenderti, quando dici addio… allora va un po’ meglio. Ci penserai sempre meno.”

 

Gale aggrottò le sopracciglia, mentre ascoltava quel ragionamento insolito; Vick aveva solo dieci anni e appariva spesso distratto e con la testa fra le nuvole, ma in momenti come quello il fratello maggiore si rendeva conto che riusciva a capire e ad ascoltare le persone meglio di quanto lo sapessero fare lui e Rory.

 

“Andrà meglio, Gale” sussurrò ancora Vick, alzandosi della sedia e posandogli un’ultima volta una mano sulla spalla. “Te lo prometto."

 

Sbadigliò e si stropicciò gli occhi gonfi con un pugno, prima di tornare in camera da letto.

 

Gale rimase in cucina ancora per qualche ora, sforzandosi di tenere gli occhi aperti, ostinandosi a non cedere.

 

Poco prima di arrendersi alla stanchezza, il pensiero di Katniss tornò a trafiggerlo, alimentando la sua inquietudine. A quel punto una parola gli attraversò la mente, aiutandolo a mettere da parte la rabbia e il dolore fino all’alba.

 

Addio.

 

*

 

Si allontanò in fretta dal corridoio che portava al Comando, diretto verso le scale; Boggs aveva concesso dieci minuti ai volontari per la spedizione, dopodiché avrebbero dovuto riunirsi sull’hovercraft in partenza.

 

Gale sfruttò i suoi rassicurando una spaventata Hazelle prima di scendere nell’ospedale del Distretto, per controllare come stesse Katniss.

Ignorò Haymitch, seduto di fianco al letto della ragazza, e si chinò su di lei per scostarle una ciocca di capelli dal volto sudato; era ancora priva di sensi per via del sedativo e le sue palpebre fremevano, indici di un sonno agitato.

 

Guardarla in quel momento, addormentata e vulnerabile, lo riportò con la mente alla sera della prima Mietitura di Katniss, quando le era stato accanto fino a quando la ragazzina non aveva preso sonno; lei aveva cercato di farlo desistere, sforzandosi di nascondere la paura dietro il solito sguardo determinato. Ma ogni volta che aveva aperto gli occhi di scatto, spaventata al pensiero che l’indomani fosse già arrivato, aveva disteso i lineamenti del suo volto, individuando la sagoma ben delineata di Gale nel buio. La sua presenza e i suoi abbracci avevano sempre avuto un effetto rassicurante, su di lei. Erano una certezza, un appoggio al pensiero che, se mai le fosse successo qualcosa, lui sarebbe sempre stato lì per prendersi cura di lei, di Prim, di sua madre.

 

Adesso, però, non era più così: da quando Katniss era partita per gli Hunger Games, lui sembrava aver perso quella qualità ed erano altre le persone a cui la giovane si rivolgeva per trarre conforto. C’erano Finnick e i suoi nodi, che riuscivano a distrarla dalla paura costante di ciò che stava accadendo a Peeta. C’erano Haymitch e i suoi abbracci; le strette di chi condivideva con lei il timore di perdere qualcuno a cui voleva bene.

 

Quelle erano cose che Gale non poteva darle; non aveva vissuto i Giochi con lei, né era disposto a rinunciare alla rivolta pur di salvaguardare i propri sentimenti.

 

Eppure, quella sera, avrebbe combattuto anche per Katniss.


Le sfiorò una guancia con delicatezza, avvertendo gli occhi di Haymitch puntati su di sé; da quando era entrato nella stanza il Mentore del Distretto 12 non aveva fatto altro che fissarlo e la cosa stava incominciando a infastidirlo. Sostenne sfrontato il suo sguardo, aspettando che si decidesse a parlare.

 

 Alla fine Haymitch sbuffò, tornando ad appoggiarsi allo schienale della sedia.

 

“Non avresti dovuto offrirti” borbottò infine, prima di indicare Katniss con un cenno del capo. “Se la nostra dolcezza qui presente fosse sveglia, probabilmente ti chiederebbe di restare.”

 

“Lo so” rispose semplicemente Gale, tornando a guardare la ragazza.

 

“Sei giovane e hai una madre e tre ragazzini a cui pensare.”

 

“Lo so” ripeté il ragazzo, questa volta in tono seccato. Gli scoccò un’occhiata piena d’astio e Haymitch ricambiò il suo sguardo con fare impassibile.

 

Quella reazione lo infastidì ulteriormente; anche il mentore aveva cercato di offrirsi volontario per la missione, ma Boggs aveva finto di non vedere la sua mano alzata. Per quello avrebbe dovuto capirlo e non cercare di ostacolarlo usando Katniss e la sua famiglia per trattenerlo al Tredici.

 

“Puoi dirmi quello che ti pare, tanto andrei comunque” dichiarò infine.

 

Non c’erano parole o persone in grado di farlo indugiare di fronte alla decisione presa.

 

Nemmeno lei, aggiunse mentalmente, sfiorando la mano di Katniss.

 

Haymitch abbozzò un sorrisetto, guadagnandosi una seconda occhiata seccata da parte sua.

“Lo so” rispose poi, come a volergli fare il verso. “Forse non sembra” aggiunse poi, indicandosi la pancia gonfia con il mento. “Ma sono stato anch’io un ragazzo del Giacimento. So quanto possano essere testoni quelli come noi.”

 

Gale lo squadrò con attenzione, rimuginando sulle sue parole; per la prima volta si sorprese a domandarsi che vita avesse fatto quell’uomo, prima degli Hunger Games. Se avesse avuto una famiglia, dei fratelli, una ragazza. Probabilmente le loro infanzie non erano state poi così diverse. Al Distretto Dodici c’era da sempre un luogo comune; si diceva che i ragazzi del Giacimento si assomigliassero un po’ tutti, e non solo per l’aspetto fisico. Quell’affermazione di norma aveva una connotazione negativa, ma Gale l’aveva sempre trovata piuttosto veritiera. E doveva essere lo stesso anche per Haymitch. Al di là della patina di stordimento dovuta all’alcool e dell’insensibilità che gli si era attaccata alla pelle come uno strato di sporco, dopo tutti quegli anni trascorsi a veder morire dei ragazzini, restava un ragazzo del Giacimento. E forse lo capiva più di quanto non avrebbero potuto fare Boggs o altri suoi compagni di squadra.

 

Per un attimo, la sua ostilità iniziale nei confronti dell’uomo venne meno.

 

“Cerca di tornare indietro tutto intero” lo ammonì infine Haymitch. “Fallo per tua madre. E per lei” aggiunse, tornando a voltarsi verso Katniss.

 

Gale fece lo stesso, chinandosi un’ultima volta sulla giovane. La baciò sulla fronte, fermandosi poi a fissarla, come se si aspettasse che da un momento all’altro si sarebbe svegliata. Che avrebbe smascherato le sue intenzioni solo guardandolo, come sapeva fare un tempo, e l’avrebbe supplicato di non andare.

Lui sarebbe partito lo stesso, ma lo avrebbe fatto per motivi diversi, forse per la prima volta da quando la rivolta era incominciata.

Avrebbe lottato per tornare da lei e non solo per i suoi ideali.

Avrebbe combattuto per farsi amare e concedersi la flebile illusione di un futuro dove Katniss sarebbe stata al suo fianco, senza esitazioni né vacillamenti. Lei e magari anche un figlio, che non avrebbe mai conosciuto gli stenti e le paure che avevano nutrito l’adolescenza dei suoi genitori.

Ma Katniss non riaprì gli occhi, e in fondo Gale sapeva che, se l’avesse fatto, probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Perché lei non era più quell’attimo di respiro che sorprendeva entrambi nei boschi, quando il grigiore del Giacimento li abbandonava per un po’, rimanendo impigliato nella recinzione di filo spinato. Katniss era la fiamma che alimentava il fuoco sul suo corpo cosparso di braci, pronto a bruciare sin dalla morte del padre.

 

Ed era per quella fiamma che la stava perdendo; lui non avrebbe mai potuto essere come Peeta, che aveva conquistato la sua fiducia dimostrandole di poter rinunciare a tutto, per lei. Non poteva e non voleva sacrificare i suoi ideali pur di averla.

 

Per questo avrebbe cercato di salvarlo.

Non soltanto perché sapeva che, senza di lui, Katniss non avrebbe mai compiuto alcuna scelta e i suoi baci sarebbero sempre stati vuoti, spenti dalla resa e dalla disperazione.

L’avrebbe fatto per dar prova a se stesso di poter rinunciare a tutto, pur di darle quel qualcosa che l’avrebbe riaccesa. Ma si sarebbe fatto avanti senza tradire se stesso, lottando per sputare in faccia alla capitale ciò che credeva giusto.

Avrebbe combattuto da ribelle, perché da bambino suo padre gli aveva insegnato che se non si è liberi non si può nemmeno amare fino in fondo. E lui non voleva vivere di contentini e cuori concessi a metà: limitarsi a sopravvivere non gli bastava più.

Diede le spalle al letto, sentendosi addosso lo sguardo di Haymitch. Resistette all’impulso di guardare ancora indietro e abbandonò la stanza, accettando di lasciarla andare per la seconda volta.

L’addio che scivolò in un sussurro dalle sue labbra venne mascherato dal rumore deciso dei suoi passi.

Forse, sarebbe stato l’ultimo.

*

Il centro d’addestramento di Capitol City era il posto peggiore in cui Gale avrebbe voluto trovarsi in quel periodo, ma non aveva avuto scelta. Era lì che si stava tenendo il processo su Katniss ed era sempre lì che si erano stabiliti i soldati che, come lui, erano in attesa di venire trasferiti all’accademia di aeronautica militare del Distretto Due.

Faticava a percorrere quei corridoi, dove perfino l’odore riusciva a portare i segni del lusso con cui ogni anno i Tributi venivano coccolati prima di venire gettati in pasto a se stessi. Le stanze affacciate a ogni androne erano state le confezioni ammiccanti di centinaia di giovani costretti a diventare giocattoli per un gruppo di adulti viziati.

Per quello Gale non aveva resistito un solo giorno in quel palazzo, al termine della convalescenza. Per quello e per via del lampo rosso che infiammava i suoi incubi ogni notte, e che l’aveva spinto a rimandare più volte la sua visita a Katniss in ospedale, fino a quando non aveva deciso di andarsene. A lei, d’altronde, non avrebbe giovato la sua vicinanza. Forse, saperlo lontano e in un altro Distretto, l’avrebbe fatta sentire meglio. Era tornato solo per l’esecuzione, per consegnarle la freccia che avrebbe dovuto rappresentare la fine della guerra. Per attendere un perdono che non era mai arrivato.

Per quello non riusciva a capacitarsi di quel continuo viavai che lo stava trascinando ogni giorno fino alla stanza in cui Katniss era tenuta sottochiave. Del perché appoggiasse sempre l’orecchio alla porta, per captare anche il più flebile lamento da parte sua, senza mai cercare di parlarle.

La visita che le stava facendo in quel momento, tuttavia, sarebbe stata l’ultima. L’indomani un Hovercraft l’avrebbe riportato al Distretto Tredici, per permettergli di salutare i familiari prima del trasferimento nel Due.

Raggiunse la stanza della ragazza e appoggiò l’orecchio alla porta, ascoltando con attenzione. Non sentì nulla, proprio come i giorni precedenti. Katniss era tornata a chiudersi nel mutismo che le aveva troncato la voce dalla morte di Prim.

 

Gale adagiò la mano sul legno e fece pressione, come se quel gesto potesse aiutarlo a farle sentire la sua presenza. Il silenzio costante alimentava la sua apprensione, perché gli rendeva impossibile intuire come stesse, se mangiasse e dormisse o avesse rinunciato a curarsi di se stessa. La rabbia minacciava di serrare le sue dita a pugno ogni volta che il ragazzo abbandonava quella porta. Lo incolleriva il pensiero che coloro che l’avevano spinta a fomentare la rivolta la stessero abbandonando a se stessa, permettendole di lasciarsi andare a quel modo. Isolandola da chiunque, ancora malmessa e bruciante di rabbia.

 

Bussò gentilmente alla porta, talmente piano che poche persone avrebbero potuto captarne il rumore: solo qualcuno intrappolato nel silenzio ci sarebbe riuscito. Qualcuno con l’orecchio allenato, come chi è abituato a cacciare per sopravvivere.

 

La porta era chiusa a chiave e ogni contatto con la ragazza era proibito, ma quel tocco leggero delle dita contro il legno era una delle poche cose che aveva potuto fare per lei nei giorni precedenti. Per insinuare nella sua testa il dubbio che non fosse sola. Che qualcuno, là fuori, l’aveva tenuta d’occhio con costanza, seppur in silenzio, come aveva sempre fatto.

 

Un rumore di passi affrettati riempì il corridoio e Gale si allontanò dalla porta, nel riconoscere la giovane donna che gli stava venendo incontro; Annie aveva i capelli arruffati e i vestiti spiegazzati, quasi si fosse appena svegliata. L’aria trascurata era accentuata dai suoi occhi gonfi, ma aveva lo sguardo meno perso del solito, come se il troppo dolore la stesse costringendo a rimanere vincolata alla realtà.

 

La ragazza gli rivolse un sorriso triste, prima di appoggiare a sua volta una mano alla porta.

 

“A volte vengo qui a parlarle” ammise, senza guardare Gale. Non era nemmeno sicuro che si stesse rivolgendo a lui. “È terribile restare soli quando si viene torturati dai ricordi.”

 

Lo sguardo della donna si riempì tutto un tratto di sgomento e Gale avvertì una punta di disagio; non voleva essere presente durante uno dei suoi momenti di crisi. Non avrebbe saputo come calmarla. Non aveva modo di aiutarla, perché l’unica persona che avrebbe potuto farlo era morta e lui non aveva fatto niente per evitarlo. La sofferenza di Annie non era altro che l’ennesima macchia sulla sua coscienza sempre più imbrattata.

 

“Dovresti entrare” mormorò a un certo punto la ragazza, questa volta guardandolo negli occhi. “Puoi aiutarla a zittire i ricordi come Finnick faceva con me.”

 

Gale distolse lo sguardo e si allontanò ulteriormente dalla porta.

 

“Dov’è Peeta?” chiese, in tono di voce più brusco rispetto a quanto si fosse aspettato.

 

Annie tornò a distogliere l’attenzione da lui e appoggiò l’orecchio alla porta.

 

“Non lo so; con il dottor Aurelius, forse. Ha cercato di convincere la Paylor a farlo entrare, ma non c’è stato verso; vogliono che Katniss resti in isolamento fino alla fine del processo.”

 

Un mezzo sorriso amaro piegò le labbra del ragazzo.

 

“Non fanno passare lui e dovrebbero permetterlo a me?”

 

Annie scosse la testa.

 

“No, non te lo lascerebbero fare” confermò, arricciandosi una ciocca di capelli attorno all’indice. “Ma penso che, se solo lo volessi, troveresti il modo di entrare comunque.”

 

Gale non rispose alla sua ultima osservazione; Annie aveva ragione. Avrebbe trovato una via d’uscita da quella situazione, se solo l’avesse voluto. Ma per quanto fosse forte il desiderio di starle vicino per poterla rassicurare, sapeva anche che averlo accanto in quel momento non sarebbe stato giusto, per lei. Katniss non si sarebbe più rintanata fra le sue braccia, sollevata dalla sua presenza. Trovarlo seduto vicino al suo letto ogni volta che apriva gli occhi non l’avrebbe più aiutata a scacciare gli incubi. Gale era diventato una leva che faceva perno sul suo dolore. Forse insistendo nel voler stare al suo fianco, quella leva prima o poi si sarebbe arrugginita. Forse, un giorno, Katniss sarebbe riuscita a mettere da parte l’angoscia che la investiva quando il pensiero della perdita di sua sorella la riportava istintivamente a quello del suo migliore amico. Ma il riavvicinamento fra di loro sarebbe stato forzato: le fratture nel loro rapporto sarebbero guarite male, e avrebbero continuato a comportarle del dolore.

 

Per quello, Gale preferiva prendere le distanze da lei.

Per quello, aveva deciso di rinunciare a starle accanto.

 

Ciò di cui Katniss aveva bisogno in quel momento non aveva più a che fare con lui; Gale era diventato il promemoria costante del momento che l’aveva privata di tutto e la sua presenza non avrebbe fatto altro che spingerla più a fondo nel baratro che già la stava risucchiando. Quella era una cattiveria che non poteva infliggerle; a costo di essere costretto a dirle addio.

 

Sospirò, appellandosi all’ostinazione con cui aveva convissuto fin da piccolo, per convincersi a lasciarsi alle spalle quella porta di legno.

 

In quel momento, dei rumori dall’interno della stanza catturarono la sua attenzione. La voce attutita di Katniss affiorò nel corridoio, soffocata dal muro che lo separava da lei, ma comunque nitida. Non stava piangendo, né parlava da sola, cercando un contatto con l’esterno della sua stanza: stava cantando.

Gale tornò ad appoggiare la mano al muro, come a volersi avvicinare al canto. Conosceva la melodia che la ragazza stava eseguendo: era una vecchia ninna nanna che le madri cantavano ai figli dei ribelli, durante i giorni bui. Suo padre ricordava tutte le strofe: era stato Caleb Everdeen[2] a insegnargliele. Di tanto in tanto Joel gliene aveva canticchiato qualche pezzo per farlo sorridere, viste le sue stonature. Tuttavia, le parole racchiuse in quei versi gli erano sempre rimaste impresse. Raccontavano di persone come lui, come suo padre; i figli dei ribelli non avevano scelta: erano destinati a ribattere alle ingiustizie con violenza, come i genitori, perché fin da piccoli si addormentavano al suono di una ninna nanna che parlava di libertà e giustizia. Anche per lui era andata così; era diventato un ribelle prima ancora di riuscire a comprendere a pieno il significato di quella parola.

 

E adesso, ne avrebbe pagato le conseguenze.

 

Avvicinò l’orecchio alla porta un’ultima volta, prima di notare lo sguardo di Annie puntato su di sé. La donna, che fino a qualche momento prima gli era sembrata completamente assorbita dal canto di Katniss, gli aveva appoggiato una mano sull’avambraccio. Il suo tocco era talmente leggero che lo avvertì a malapena.

 

“Puoi ancora salvarla, se ci provi…” mormorò a quel punto la giovane. “…Capitano[3]” aggiunse all’ultimo, distogliendo lo sguardo: i suoi occhi, adesso, erano umidi di lacrime.


Gale voltò bruscamente la testa, avvertendo il disagio crescere dentro di lui. Quel soprannome, Capitano, non fece altro che ricordargli quante impronte sporche di sangue imbrattassero la sua coscienza.[4] Quelle di Prim, quelle di Finnick, quelle di bambini senza nome, né volto. Quelle di chi li aveva persi e li avrebbe pianti per sempre. Non voleva altro sangue addosso. Non voleva che anche le impronte rosse di Katniss facessero presa dentro di lui, cicatrizzandosi al suo interno. Il suo istinto di salvare chiunque schiacciava con violenza il suo bisogno di amare. E per salvare lei, occorreva lasciarla andare.

 

“Hai ragione” ammise infine, spostando il braccio per allontanare la mano di Annie. “Posso farlo.”

 

Appoggiò la fronte alla porta, lasciando che il canto della Ghiandaia Imitatrice gli echeggiasse dentro per l’ultima volta.

“Addio” mormorò, serrando la mano a pugno contro il legno. Si scostò poi con decisione e si lasciò alle spalle il corridoio, Annie, e quel granello di speranza che aveva conservato fino a quel momento e che finalmente si era convinto a gettare per terra. Diede le spalle al ragazzo e alla ragazza che si erano incontrati per caso nei boschi e che avevano imparato a prendersi cura l’uno dell’altra, diventando inseparabili.

La ninna nanna per i figli di Ribelli continuò a risuonare nella sua testa fino a quando il giovane soldato non si lasciò alle spalle anche Capitol City. E Catnip con lei.

 

***

 

Il ragazzo del Distretto Dodici si schiarì la voce, prima di passarsi il dorso della mano sulle labbra. L’alcool consumato quella sera aveva incominciato a fare il suo effetto e nella sua mente si mescolavano stralci di ricordi un po’ confusi; non ricordava con esattezza cosa avesse raccontato a Quinn. Probabilmente la maggior parte di ciò che aveva rievocato nel corso degli ultimi venti minuti era rimasto nella sua testa. Quello era ciò che sperava, quanto meno. Non gli piaceva parlare del suo passato.

 

Ricambiò lo sguardo di Quinn, che durante il suo racconto si era mostrato insolitamente silenzioso. L’amico continuò a essere di poche parole anche durante il resto della serata, come se avesse capito di aver stuzzicato un nervo scoperto. Aveva intuito al volo che frecciatine e battutacce non sarebbero state bene accette quella sera e si guardò bene dal punzecchiare il compagno di accademia come era solito fare in altre occasioni. Quando Quinn sparì nel retro del locale, per assistere a qualche match di pugilato clandestino, Gale si trascinò di malavoglia fuori dal pub per andare a prendere una boccata d’aria. Si sentiva insonnolito, come se rivivere quei tre momenti del suo passato avesse prosciugato gran parte delle sue energie. Appoggiò una spalla alla porta d’ingresso e rivolse un’occhiata distratta alla cabina telefonica di fronte al Pub. Ricordò tutto a un tratto che aveva promesso a Rory di chiamarlo, ma non si sentiva nelle condizioni migliori per farsi una chiacchierata con suo fratello. Raggiunse comunque la cabina, facendo scorrere fra l’indice e il medio il gettone che aveva in tasca. Di fianco alla moneta riconobbe al tatto una strisciolina di carta che Hazelle gli aveva inviato assieme all’ultima lettera, scarabocchiandoci dietro un nome. Il ragazzo esitò, appallottolando il foglietto dentro il pugno chiuso, assieme al gettone. Ripensò a sua madre, a ciò che gli aveva detto l’ultima volta che si erano sentiti per telefono. A come gli avesse consigliato di chiamare quel numero, perché risentirla avrebbe aiutato entrambi. A come avesse cercato di convincerlo che non fosse troppo tardi per recuperare almeno parte del legame che li univa un tempo. E a quando le aveva raccontato che Rory la sorprendeva ancora spesso nei boschi, appoggiata con la schiena alla roccia che per anni era stata il loro punto di ritrovo. Quando Hazelle gliene aveva parlato una prima volta Gale l’aveva ignorata, ma il bigliettino con il numero era comunque rimasto nella sua tasca. E in quel momento, mentre la stanchezza e l’alcool collaboravano per far inceppare la sua mente su due parole ripetute allo strenuo, “tre” e “addii”, un altro pensiero si formulò nella sua testa.

 

Agli Hawthorne, il numero tre aveva sempre calzato stretto. Per loro, l’unico numero degno di attenzione era il quattro[5].

Così raggiunse la cabina, infilò il gettone e sollevò la cornetta. Pigiò i numeri sul tastierino con gesti quasi meccanici, senza concedersi il tempo di rimuginarci su troppo a lungo. Non sapeva che ora fosse, né aveva idea di chi avrebbe trovato all’altro capo del telefono – forse lei, forse Peeta - ma in quel momento non gli importava poi più di tanto. Non stava chiamando per parlare con qualcuno. Lo stava facendo, semplicemente perché sentiva di doverlo fare.

Il telefono suonò a vuoto tre o quattro volte, ma Gale non mise giù. Attese fino a quando il segnale acustico non cominciò a farsi fastidioso, prima di venire interrotto bruscamente da una voce.

“Pronto?”

C’era una punta di esitazione, in quell’unica parola. Forse non le piaceva rispondere al telefono ed era per quello che aveva aspettato così tanto, prima di accettare la chiamata. Forse continuava a preferire i silenzi, proprio come un tempo. Gale non disse nulla; si limitò ad ascoltare la sua voce ripetersi un paio di volte. Non era il coraggio a mancargli; se l’avesse voluto, avrebbe trovato il modo di parlarle, di chiederle come stesse. Di dirle che gli mancava, anche se con il tempo aveva imparato ad anestetizzare la sensazione di vuoto provocata da quell’assenza. Non era riuscito a fare lo stesso con il senso di colpa, che continuava a tormentarlo ogni notte.

Avrebbe potuto dirle tutto questo, sapeva che ci sarebbe riuscito, eppure non lo fece. Non voleva farlo, perché sentiva che per lei sarebbe stato meglio così. Come le altre volte, finì per arrendersi a ciò che pensava le avrebbe fatto meglio. In passato non era stato in grado proteggerla e alla fine era stato Peeta a sanare le sue ferite. Ma tutto questo non lo infastidiva, non più. L’aveva accettato, perché con il tempo si era reso conto di aver preso la decisone giusta.

Perché, scegliendo di non salvarla, era lui che la salvava sempre.

Spinse la cornetta contro l’orecchio, attendendo l’interruzione della linea. Katniss non demorse; smise di parlare, ma rimase in attesa e il silenzio appeso fra di loro incominciò a farsi pesante. Gale l’ascoltò respirare e immaginò che anche lei stesse facendo lo stesso con lui.  Per un attimo ripensò ai due ragazzi che erano stati in passato; a quando nel silenzio dei boschi riuscivano a riconoscere l’uno il respiro dell’altro, così come riuscivano a distinguere il battito dei rispettivi cuori[6].

E in quel momento, proprio mentre i suoi tentativi di immagazzinare aria avevano incominciato a farsi più irregolari, la voce di Katniss cancellò l’assenza di parole intrappolata fra i due capi del telefono.

"Gale?”

Il giovane esitò, stringendo con più forza la cornetta. Riconobbe la fatica con cui il suo nome era riuscito a farsi strada attraverso le labbra della ragazza. Percepì una punta di paura, ancorata a quelle quattro lettere. La paura di rimanere delusa, di essersi sbagliata. L’imbarazzo per essersi aggrappata ai respiri di una persona qualunque, pensando a qualcuno che non l’aveva più cercata da mesi.

Gale scosse la testa più volte, arrendendosi al dolore che gli parve di avvertire ancorato ai sospiri spazientiti della donna. Interruppe la linea e mise giù la cornetta, pur continuando a stringerla con forza. Faticò a lasciarla andare, come se quel gesto significasse abbandonare ancora una volta la persona all’altro capo del telefono. Quando riuscì a separarsene, la sua mano corse a rifugiarsi nella tasca dei jeans, dove il bigliettino spiegazzato cercò di donarle un po’ di conforto. A quel punto uscì dalla cabina, lasciandosi stordire dal freddo pungente di dicembre.

Il quarto addio a Katniss lo pronunciò più tardi, nel dormiveglia, prima che gli incubi tornassero a ghermirlo come ogni notte.

E quello fu l’ultimo.

 

 Note finali.

Per questa storia partecipa all’iniziativa del gruppo “Fan Fiction challengers II” con il prompt “Gale/Katniss - Abbandono”.

Anzitutto ringrazio infinitamente Macy McLaughlin per il betaggio della storia, visto che si è sorbita questo polpettone di introspezione!

Buongiorno! Non so bene come cominciare con le note, visto che sono un po’ in imbarazzo. L’Everthorne è la coppia che porto nel cuore più in assoluto da un anno a questa parte, ormai, eppure ho scritto veramente poco, su di loro. Probabilmente l’ultima mia Everthorne è stata Incancellabile, che ho pubblicato in Febbraio, quindi è passato un po’ di tempo ** Ho colto l’occasione per cercare di scrivere qualcos’altro su di loro due dopo essermi iscritta al contest “My Fictional Crush” di Chara. Purtroppo, come sempre, ho superato di tanto i limiti di lunghezza imposti dal contest, così mi sono dovuta ritirare xD Ma ho deciso di pubblicare comunque la storia, perché ci tenevo. Perché sono veramente tanto, tanto affezionata al personaggio di Gale e perché ho amato molto scrivere questo piccolo viaggio all’interno della sua testolina soldatesca <3  I momenti che ho scelto per approfondire i vari “addii” che Gale dà a Katniss non sono particolarmente originali di per sé, ma ammetto che mi sono divertita molto a introdurci dentro qualche personaggio secondario. Vick è il fratellino Hawthorne meno calcolato, probabilmente, ma ho scelto di inserirlo perché di norma, nei miei racconti, viene descritto come quello più sensibile dei quattro ed era decisamente il più adatto a stare accanto a Gale in un momento simile. Haymitch era presente quando Katniss si è svegliata dopo essere stata sedata, quindi ho deciso di  inserirlo nella scena del secondo addio, così ho avuto modo di inserire quel piccolo confronto con Gale. Infine, Annie.  Lei è un personaggio molto particolare, e ho sempre immaginato che, al di là dei suoi momenti di instabilità, riuscisse a cogliere nelle persone cose che magari altre persone più “lucide” non sarebbero state in grado di notare. E poi ci tenevo a inserire una conversazione fra lei e Gale visto il ruolo significativo che avrà lui nella vita di suo figlio Sebastian, come si accenna in Footprints in the Sand.

La cornice ambientata nel Distretto Due, l’ho inserita principalmente perché… Beh, per introdurre il mio adorato Gancio, lo ammetto ** Lui è un mio OC che ho delineato per scrivere una long sul periodo che Gale trascorre nel Distretto Due e spero tanto di riuscire a trascrivere qualcosa di quel periodo, prima o poi, perché ormai sono affezionatissima a tutti i personaggi che fanno da sfondo alla vicenda. E poi, vista l’importanza che ha il numero 4 nella famiglia Hawthorne, ci tenevo ad inserire nell’ultima parte un quarto addio un po’ simbolico, quello definitivo (Joel sr. e Rory sarebbero molto fieri di me u.u). I riferimenti all’accademia li ho inseriti perché nel mio head-canon, durante il periodo nel Distretto Due, Gale frequenta un’accademia di aeronautica militare per diventare pilota. Quinn è un suo “collega”.

E basta, ho scritto troppo. Grazie infinite a chiunque abbia avuto il coraggio di leggere questa storia da cima a fondo senza annoiarsi, vorrei tanto avere il dono della sintesi :/ Gale vi ringrazia e io vi chiedo di dargli un forte abbraccio, perché ne ha bisogno <3


Un abbraccio  e a presto!

Laura

 

 

 



[1] “Gancio” e il soprannome di Quinn, per via della sua bravura nel pugilato.

[2] Caleb Everdeen è il papà di Katniss

[3] Riferimento a “Footprints in the Sand”, dove Finnick continua a chiamare Gale “Capitano”, facendolo irritare non poco.  Capitano è anche il soprannome di Finnick, ma ho pensato che, prima di partire per Capitol City avesse potuto accennare alla neo-moglie il fatto che Gale gli ricordasse un capitano, per quello la menzione.

[4] Questo è un altro riferimento a “Footprints in The Sand”, dove Gale e Finnick hanno una conversazione legata alle impronte e a delle leggende popolari dei loro due Distretti.

[5] Nelle mie storie il numero portafortuna degli Hawthorne è il quattro. Questa era in principio una tradizione del capofamiglia, Mr. Hawthorne (Joel) il quale ha infatti avuto quattro figli, tutti con nomi da quattro lettere.

[6] L’accenno al battito dei cuori riprende un passaggio di Hunger Games: Il suo corpo mi è familiare - il modo in cui si muove, il profumo di fumo di legna che emana, nei momenti di quiete dalla caccia ho imparato a conoscere persino il battito del suo cuore”.

   
 
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