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Autore: Brooke Davis24    29/11/2014    6 recensioni
"Non è mai facile come chiudere una porta,
Quando viene giù dal cielo e trabocca dal pavimento
Quindi, ho guidato tutto questo per allontanarmi da te
Ma piove anche qui"
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: colin o'donoghue, Jennifer Morrison
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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https://www.youtube.com/watch?v=pa4Sp_35a9g

Non è mai facile come chiudere una porta,
Quando viene giù dal cielo e trabocca dal pavimento
Quindi, ho guidato tutto questo tempo per allontanarmi da te
Ma piove anche qui

 
Pioveva. Pioveva piano e fitto a un tempo, quasi a creare una sottile tenda invisibile eppure pienamente percettibile, e c’era qualcosa di poetico nel fatto che, nonostante gli affanni dell’uomo per affermare la propria supremazia, due gocce d’acqua bastassero a ristabilire l’ordine che vedeva la natura sovrana indiscussa su qualunque altro contendente. Jennifer sorrise stancamente, le ore di riprese che pesavano tanto sulle spalle quanto sulle palpebre, eppure lontane dall’aggravare la sua bocca fino impedirle di sorridere com’era nella sua natura. Se c’era qualcosa che nessuno avrebbe potuto negare dopo averla conosciuta, era che fosse una persona solare e che qualunque tentativo di attaccare il suo buonumore fosse a dir poco inconcludente. Jennifer credeva nel buono delle persone, nella possibilità che ciascuno possedesse una parte di cui non era completamente consapevole e della quale dovere andare fiero, che perfino nelle persone più reiette potesse brillare la luce di un sorriso in grado di abbagliare. E come poteva, credendo in ciò, non mettere in atto gli ideali su cui si fondava il suo modo di approcciarsi agli altri?
 
E, tuttavia, questa sua vena di innato ed intoccabile positivismo aveva una pecca, una piccola falla che faceva sbriciolare le pareti del suo personale castello di sabbia: la pioggia la rendeva malinconica. Non avrebbe saputo dare nessuna spiegazione plausibile allo stato d’animo che la coglieva impreparata al ticchettio delle gocce su qualsiasi superficie disponibile. Che si trattasse di un retaggio dell’infanzia, quando giocare con le bambole dinanzi ad una finestra perdeva improvvisamente la sua attrattiva alla vista del grigiore esterno; che si trattasse di un’esperienza traumatica di cui non aveva alcuna memoria o, più semplicemente, di un sentimento sul quale non aveva nessun controllo poco importava. Sapeva soltanto che, in quelle circostanze, il flusso dei pensieri diveniva travolgente e le emozioni scorrevano in lei in maniera sì implacabile che sarebbe stato impossibile cercare un appiglio alla realtà, perché avrebbe finito per perdere.
 
Ebbene, quell’improvvisa scarica d’acqua era la ragione dello stato di quiete nel quale si trovava. Benché il caos imperasse a poca distanza da lei – tra macchinisti, cameramen e addetti alla sicurezza che correvano a destra e a manca per salvaguardare la strumentazione esposta – e la pausa che il direttore aveva chiamato fosse soltanto temporanea, Jennifer non poté impedirsi di provare la sensazione di malinconico benessere ove si era rifugiata. Avvolta in uno degli enormi giubbotti di cui li avevano forniti per far fronte alle rigide temperature invernali delle quali Vancouver faceva sfoggio, si era messa al riparo di un cornicione lontano, nascosta dietro lo stesso angolo presso il quale aveva girato la scena in cui Uncino chiedeva ad Emma, con una nota di esasperazione, perché lo stesse evitando.
 
Chinando il capo verso il basso, osservò il proprio corpo bendato nel blu di quel pesante tessuto e pensò all’immagine che le era stata inviata su twitter, “Return of the burrito”. Rise di cuore a quel ricordo e i suoi occhi cercarono il gruppo di fan che, non importava quanto intensamente potesse piovere, rimaneva fermo in postazione nell’attesa che tornassero a filmare. Notando che la stavano osservando, Jennifer alzò il braccio e lo mosse in segno di saluto e un coro di voci che chiamavano il suo nome e le esprimevano quanto l’amassero si levò subito dopo dallo sparuto gruppetto che accompagnava spesso le loro giornate sul set. Trovando il coraggio di far uscire le mani dal loro confortevole giaciglio, Jennifer puntò se stessa con l’indice, con ambedue le mani formò un cuore e, infine, indicò il punto in cui i suoi fan erano radunati. Le sue labbra riprodussero un “I love you” che, se possibile, fece crescere di qualche decibel il volume delle loro voci e, ancora una volta, finì per sorridere.
 
«Seduttrice!» fece una voce alle sue spalle e, colta di sorpresa, Jennifer sobbalzò, voltandosi in direzione del suo interlocutore. Ora capiva più chiaramente il perché di quelle urla!
 
«Si fa quel che si può,» rispose, ancora sorridente, e allungò il braccio per prendere il caffè che Colin le stava porgendo, ma lui ritrasse la mano prima che fosse in grado di afferrare il bicchiere. «Colin!» lo rimproverò lei e l’altro ridacchiò, sporgendosi di nuovo per avvicinarle ciò che le spettava. «Niente scherzi!»
 
In tutta risposta, Colin fece spallucce con espressione innocente, ma chiunque avrebbe potuto notare lo scintillio nei suoi occhi, lo stesso che dominava i suoi modi di fare quando era particolarmente divertito o elettrizzato. Ed era evidente che, in quel momento, lo fosse! Strano, pensò Jen, come qualcosa che potesse rendere lei tanto meditabonda fosse in grado di accendere l’entusiasmo di un’altra persona con la medesima intensità. Ma, del resto, era irlandese: voleva, forse, che non fosse abituato alla pioggia e ai mutevoli umori del tempo? Fu con uno scatto che le sue dita si strinsero sul polso di lui, bloccandolo quel tanto che bastava perché non potesse giocarle lo stesso tiro mancino di poco prima, mentre con l’altra agguantava il bicchiere.
 
Le sopracciglia di Colin si inarcarono in quel modo tanto drammatico che gli apparteneva e che aveva dato una certa identità al suo personaggio. «Questo non vale!» Jennifer rise, uno di quei sorrisi a trentadue denti che avrebbero spinto a fare altrettanto chiunque fosse stato nei paraggi, perché quando lei rideva il mondo si fermava per un istante e, infine, tutto tornava come prima. Ma la verità era che nulla finiva per rimanere completamente indenne! «Quando una persona ti porta un caffè, si aspetta almeno che tu sia tanto gentile da lasciarlo giocare un po’.»
 
«Qualunque persona o Colin O’Donoghue?» chiese lei e Colin si lasciò andare ad un sorriso, le dita fredde di lei ancora rispettivamente avviluppate attorno al suo polso e posizionate sulle dita della mano che stringeva la bevanda. «E, comunque, se mi avessi lasciato prendere il mio caffè, ti avrei ringraziato. Infatti,» fece e gli strappò il bicchiere di mano con una velocità che l’altro non aveva saputo calcolare, «ti ringrazio.»
 
Entrambe le mani avvolte attorno al calore del bicchiere, Jennifer lo avvicinò alle labbra, l’espressione intenta mentre tentava di scorgere attraverso il foro del coperchio cosa ci fosse esattamente dentro, i lunghi capelli biondi che seguivano i movimenti del capo. Le labbra di Colin s’inclinarono verso l’alto nell’osservarla soffiare appena, in un gesto assolutamente inconcludente, prima di accostarsi al bicchiere e bere da esso una lunga sorsata di caffè, le palpebre calate sui grandi, espressivi occhi verdi. A volte, in quei momenti, aveva l’impressione di conoscerla meglio di quanto non pensasse e, nonostante non dovesse esserci nulla di sorprendente considerato il tempo che trascorrevano insieme, c’era qualcosa nel modo in cui la conosceva e nel modo in cui si sentiva di essere conosciuto da lei che non aveva nulla di semplice.
 
«Beh, forse è giunto il momento di dimostrare un po’ di gratitudine,» le disse e lo fece con un tono ed un’espressione talmente familiari per lei che finì quasi per strozzarsi, mentre mandava giù l’ennesima sorsata di caffè.
 
«Già. Il grazie serviva a quello scopo,» rispose e gli resse il gioco, rivolgendogli un sorriso tanto brillante quanto quello che Emma aveva regalato a Uncino per la prima volta da che si erano conosciuti.
 
Avanzando con quel passo spavaldo e provocatore che Jennifer gli aveva visto assumere in più di un’occasione, le si fece più vicino, prima di pronunciare: «Un caffè vale così poco per te?»
 
Jennifer sospirò e forse fu colpa  della pioggia, più probabilmente della stanchezza, ma il suo volto parve d’un tratto meno giocoso e spensierato di quanto non fosse stato fino a quel momento. Non avrebbe potuto reggere le battute che venivano dopo, non quando sapeva a cosa avessero portato nella finzione! Scuotendo appena il capo come per cacciare un brutto pensiero dalla mente, distolse lo sguardo e gli voltò le spalle, la mano che si muoveva a mo’ di saluto all’indirizzo dei fan come se lui non fosse mai sopraggiunto. Colin fece altrettanto: sospirò e, chiusi gli occhi, alzò il capo verso il cielo, chiedendosi cosa ci fosse di sbagliato in lui e in tutto il suo mondo, quale crimine avesse commesso per trovarsi nel limbo ove sapeva di essere ma del quale s’incaponiva ad ignorare l’esistenza. Era quello il limbo che, perfino con maggiore caparbietà di quanta non ne adoperasse lui, Jennifer respingeva senza possibilità di soluzione contraria, come se tutto ciò che rappresentava fosse impossibile, sbagliato, perfino ridicolo ai suoi occhi. Ed era un male ammettere che quel pensiero gli provocasse uno spasimo all’altezza dello stomaco?
 
«Va tutto bene?» le chiese e lo fece con un tono così dolce e malinconico che, nascosta dai margini del cappuccio, Jennifer si concesse il lusso di sorridere di una mestizia che di solito non rivelava neppure a se stessa.
 
«Sì, scusami.» Non c’era motivo per scusarsi, lo sapeva. Aveva fatto ciò che sentiva giusto, troncare qualunque conversazione sconveniente potesse instaurarsi tra loro, evitare che si ripresentassero le stesse scene di un Comic Con come mai ne aveva vissuti e mai avrebbe più voluto viverne. «E’ che la pioggia mi rende malinconica.»
 
Lo sentì avanzare verso di lei con una cautela che non avrebbe saputo dire se appartenesse più a Colin o ad Uncino, con una genuina curiosità verso di lei che rendeva ancora più labile il confine tra realtà e finzione, tra persona e personaggio. Doveva aver pestato i piedi a qualcuno di grosso in un’altra vita, forse una strega o forse un dio, per meritarsi un tempismo tanto sbagliato. A volte, le risuonarono in mente le parole di Josh, non c’è tempismo più giusto di quello sbagliato.
 
«Ti stai preparando per la scena che dovremo girare? Non si può dire che tu non sia professionale.» A quelle parole, lei rise e si voltò per guardarlo in viso e l’espressione che vi trovò non avrebbe potuto ferirla più di quanto non avrebbe fatto un tir con rimorchio. C’erano sollievo e dispiacere e, ancora, la stessa confusione che, a tratti, le capitava di non riuscire a controllare a sua volta, quella confusione che non avrebbe mai dovuto trovare modo di esistere. «Ti rende nervosa?» le chiese e lo fece senza alcuna insinuazione.
 
«Certo che no.» Bevve un altro sorso di caffè, poi tornò a guardarlo. «Perché dovrebbe?!» disse e gli sorrise di una di quelle smorfie che riuscivano a farlo sentire un pazzo, un visionario, a volte anche un traditore. «Tienimi questo, va!» Porgendogli il caffè, si fece più vicina, le nubi dell’inquietudine completamente spazzate via dai suoi occhi, e Colin accondiscese nel prendere il bicchiere tra le mani. «Uncino non sarebbe per niente fiero di te. Hai il colletto della camicia tutto in disordine.»
 
I loro sguardi non s’incontrarono mai per tutto il tempo in cui Jennifer eseguì il suo compito e non avrebbe potuto essere diversamente. Come i loro mondi non erano destinati a trovare una conciliazione, non in quella vita almeno, così mischiare blu e verde non avrebbe creato che un ibrido, un colore reietto per il quale non c’era spazio tra i primari.  E che senso aveva far nascere qualcosa che non avrebbe mai potuto aprire gli occhi e assaporare il primo respiro di vita? La pioggia lo avrebbe scolorito, il tempo rovinato, l’aria eroso fino a consumare anche chi di quel colore avrebbe provato a vivere. Era meglio così, in fondo, e lo sapevano entrambi.
 
«Così va meglio,» fece lei, ma, a quel punto, Colin non poté assecondare più l’assurdità dei propri pensieri e finì per tornare a guardarla, le mani di lei che indugiavano ancora sul bavero in pelle del cappotto.
 
Per un lungo, lunghissimo istante, si disse che scappare sarebbe stata la soluzione più semplice, che trovare rifugio da tutto ciò che gli stava capitando avrebbe salvato la sua anima dalla dannazione eterna e il suo animo dal senso di colpa, che avrebbe dovuto mettere tutta la confusione sul primo autobus e mandarla lontana da Vancouver e da quel set. Ma sarebbe servito davvero? Era un po’ come cercare rifugio da un temporale in una casupola malridotta o sotto un cornicione, come stavano facendo loro in quel momento: non importava che la pioggia stentasse a colpirli, perché era sempre lì, tuonante e bagnata come annacquati erano i suoi sentimenti e le sue emozioni.
 
«Jen,» sussurrarono le sue labbra in una preghiera e, benché sapesse che nessuno avrebbe potuto mai trovarli sconvenienti dall’esterno, comprese di esserlo come mai era stato in altre occasioni. L’aveva guardata spesso e intensamente in passato, nella convinzione di prestare semplicemente attenzione a quello che aveva da dire, lei che parlava con passione dello show e del suo personaggio come se li considerasse pienamente parte della sua vita, come se la parola finzione non si addicesse loro; e l’aveva ascoltata con pazienza e piacere, le braccia incrociate sul petto o gli occhi semplicemente fissi su di lei, come qualunque collega educato avrebbe fatto col proprio partner di lavoro, come ci si aspettava che Uncino guardasse Emma. Ma la verità era che lui non era un pirata e lei non era la sua Salvatrice. La verità era che, lungi dal salvarlo, stesse mandando in malora tutto ciò in cui aveva fermamente creduto fino a due anni prima. «Io-» cominciò e, d’istinto, il suo braccio si alzò, cosicché la sua mano finì per trovare il piccolo spazio dietro l’orecchio che non poteva fare a meno di grattare quando era in imbarazzo. «Forse dovremmo…» tentò e l’espressione confusa sul viso di lei riflesse presto lo stesso impaccio, lo stesso disagio di Colin perché le sue mani si staccarono subitaneamente dal bavero del cappotto e cercarono rifugio le une nelle altre.
 
«Certo, certo,» ribatté lei, liberandolo dall’impaccio del bicchiere di caffè e  incamminandosi in direzione opposta a quella ove si trovavano per voltare l’angolo e sparire alla sua vista.
 
Sospirando, Colin attese qualche istante, salutò a sua volta i fan e promise loro di fare un salto non appena le riprese fossero terminate. Umettandosi le labbra, fu con rassegnazione che si concesse una piccola ammissione e, cioè, che non importava quanto arduamente si potesse fingere l’inesistenza di qualcosa; prima o poi, la realtà dei fatti sarebbe caduta in picchiata a macchiare il suo mondo di bianco vestito per schizzarlo dei colori che aveva voluto ignorare. E realizzò che i suoi sentimenti per Jennifer fossero esattamente come un temporale: una breve parentesi, costretta a mostrarsi quando la luce veniva prepotentemente meno, una parentesi che, in quanto tale, era destinata a trovare una fine ma altrettanto tenace nel suo ripresentarsi. E, allora si chiese, aveva senso fuggire la pioggia alla ricerca del sole, se la pioggia l’aveva dentro?

Quella sera, quando il direttore chiamò finalmente l'ultimo "Stop" e le loro labbra si scostarono per l'ennesima volta, Colin le impedì di fuggire come aveva fatto a sua volta per l'intera serata. Le sue dita rimasero ferme sui fianchi di lei, tenendola sul posto, e Jennifer lo guardò con espressione titubante, confusa: «Quindi, ho guidato tutto questo tempo per allontanarmi da te, ma piove anche qui,» intonò e un lampo di realizzazione illuminò quel verde che sapeva tanto di Jennifer quanto di Emma, delle paure che l'una e l'altra tentavano di trasmettersi a vicenda per alleggerire il rispettivo carico con affanni che, in fondo, finivano per sentire propri.

«Non oggi,» sospirò lei, un sorriso timido sulle labbra come quello che Uncino aveva spazzato via con i suoi baci, la pioggia che batteva piano su di loro e tutto attorno a loro,«non qui.»




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Spazio dell'autrice:


E' una cosa che non ha senso, che non ha né capo né cosa, che non so perché stia postando e che non sono sicura di non cancellare subito dopo averla pubblicata. E' frutto di una promessa [Lilith, figlia mia, non lamentarti del fatto che non mantenga la mia parola! <3] di una possessione da #disagio dovuta a Mary, Fari e Martina su cui non voglio aggiungere niente. Dico solo che le gif hanno fatto tutto quello che c'era da fare e mi sono messa a scrivere una cosa senza senso, di cui mi pento e vergogno. 
E niente. Se l'avete letta e non ci avete capito niente, lo capisco. L'unica cosa riuscita è la canzone, che io adoro e spero sia piaciuta anche a voi.
Buon processo di rimozione!
  
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