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Autore: Kary91    14/12/2014    14 recensioni
[Pre-Hunger Games: (child)Gale, Hazelle, Mr. Hawthorne & Mr. Everdeen| Catching Fire: Gale, Hazelle, Posy]
Qualche minuto più tardi il signor Hawthorne sentì il dito esile di Gale percorrergli la cicatrice sul palmo della mano.
“Ti ha fatto male?” gli chiese il bambino.
“Nah” lo rassicurò il padre, continuando a tenere gli occhi chiusi.
Gale esaminò con attenzione la cicatrice: aveva l’aria di essere stata parecchio dolorosa.
“Però non hai pianto” obiettò a quel punto, lasciandogli andare la mano.
Joel aprì gli occhi per guardarlo.
“Non si piange” mormorò, facendo scorrere una mano sui capelli del bambino. “Mai; è la regola, lo sai bene.”
[...]Nel cuore della notte, Gale prese la mano del padre e la attirò a sé. Sfiorò la cicatrice in rilievo sul palmo e ricordò le cose che l’uomo gli aveva spiegato quella sera. Ripensò ai ribelli e immaginò che ognuno di loro dovesse avere sul corpo diverse cicatrici come quella di Joel. Si chiese se un giorno ne avrebbe avuto la pelle cosparsa anche lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Hazelle Hawthorne, Mr. Everdeen, Mr. Hawthorne, Posy Hawthorne
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Figli del Giacimento - The Hawthorne Family.'
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Questa storia è stata scritta per l’iniziativa “Caro Babbo Sirenetto” indetta dal gruppo facebook “The Capitol”.

Il prompt è: Gale/FamigliaHawthorne (va bene sia un membro qualsiasi che tutti) con prompt “Cicatrici” [con avvertimento: pre!Mockingjay]

Le prime due scene del racconto sono ambientate durante l’infanzia di Gale. Le ultime due, invece, durante “Catching Fire”.

 

 

 

Wink: “Non si piange.”

Hushpuppy :“Non si piange.”

Re della Terra Selvaggia. 2013

 

Il Ribelle

Il Ribelle Cover2

   

 

La prima volta che Gale Hawthorne venne a contatto con il concetto di ribellione aveva cinque anni. La sua testa era appoggiata al petto del padre e sua madre gli stava accarezzando con tenerezza i capelli.

Giocando con le mani callose del signor Hawthorne, il bambino aveva riconosciuto una linea bianca in rilievo disegnata sulla pelle inspessita del suo palmo.

“Che cos’è?” chiese, percorrendola più volte con il polpastrello.

Joel guardò la moglie, che scosse la testa, prima di rivolgersi al bambino.

“Una cicatrice” spiegò Hazelle, continuando a sistemare le ciocche sulla fronte di Gale.

“Un ricordino di un Pacificatore” specificò il marito, guardandosi la mano. “Quel farabutto voleva dimezzarci lo stipendio.”

“Ti ha picchiato?” domandò confuso Gale. Il padre gli strizzò l’occhio.

“Sono io che ho picchiato lui, ragazzo” lo corresse.

Il bambino gli sorrise, prima di tornare ad appoggiare il capo al suo petto.

“Non è andata esattamente così” precisò Hazelle, rivolgendo al marito un’occhiata apprensiva.

“E come è andata, allora?”

I due coniugi tacquero per un istante.

“Ti basti sapere che tuo papà, quella volta, ha rischiato davvero grosso” rispose infine la donna, riprendendo ad accarezzare i capelli del figlio. “Avrebbe potuto perdere il lavoro. Quindi mi raccomando, non diventare mai un ribelle come lui.”

“Che cos’è un ribelle?” chiese il ragazzino, incuriosito. Incrociò lo sguardo del padre che lo fissò per un po’ con quel suo sorrisetto storto, prima di rispondergli.

“È una persona che non ha paura di spaccarsi qualche osso pur di far star bene se stesso e la sua famiglia. È uno che vuole liberare la sua gente.”

“In che senso liberare?” domandò ancora Gale. Non era mai stato di molte parole, ma quella faccenda della cicatrice l’aveva colpito e voleva saperne di più.

Suo padre continuò a sorridergli fiero, prima di voltarsi verso la moglie. Hazelle lo stava ancora squadrando con apprensione, come a volergli suggerire di lasciar perdere. Joel tornò comunque a rivolgere la propria attenzione al figlioletto, per rispondere alla sua domanda.

“Essere liberi significa non avere nessuno che decide al posto tuo chi dovresti essere e cosa dovresti fare. Significa niente più miniere, Gale. Significa poter andare nei boschi quando si vuole. Scegliere il lavoro che si preferisce. Poter dare mangiare alla propria famiglia senza doversi spaccare la schiena come dei muli da soma e rischiare di rimanerci secchi ogni giorno. Significa un po’ tutto, perché se non sei libero difficilmente potrai essere davvero se stesso” concluse, giocherellando con una ciocca di capelli della moglie.

Hazelle lo lasciò fare, pur continuando ad apparire preoccupata. La disapprovazione nei suoi occhi, tuttavia, era mitigata da una punta di tenerezza. Gale se ne accorse, perché era abituato a quello scambio di sguardi tra i due genitori. Anche quando litigavano, c’era sempre quella piccola sfumatura contraddittoria a velare i loro occhi arrabbiati. Il bambino credeva che fosse proprio quella lucetta a caratterizzare le persone innamorate. Chi non si amava per davvero, probabilmente, aveva lo sguardo arrabbiato e basta.

Rimuginò per un po’ sulle parole del padre, ma si accorse di non averle capite bene. L’unica cosa che gli era rimasta impressa del suo discorso era la parte sui boschi.

“Tu non vorresti essere libero, ragazzo?” lo interrogò a quel punto l’uomo.

Gale rifletté per qualche istante, ricambiando lo sguardo di Joel. Aveva appena compiuto cinque anni e il concetto di libertà – così astratto e sfaccettato – non era ancora alla sua portata. Eppure sapeva che suo padre si aspettava una risposta e l’uomo sembrava piuttosto compiaciuto da tutta quella storia del ribelle. Sua madre un po’ meno, notò, guardando anche lei. Decise comunque di annuire, cercando di mostrarsi il più determinato possibile.

Joel ridacchiò.

“Sei proprio figlio di tuo padre” commentò, prendendo in braccio il bambino per posarselo sul petto. Intercettò lo sguardo della moglie, che stava scuotendo la testa con fare rassegnato. Un lieve sorriso piegò comunque le labbra di Hazelle, mentre lo sguardo della donna si soffermava sul volto del figlioletto. “Ma sei bello come tua madre” proseguì Joel, sorridendo sghembo in direzione della moglie. Hazelle gli diede un colpetto sulla spalla.

“E tu sei proprio un ruffiano” ribatté, prima di appoggiare la testa al petto del marito. Joel si chinò per baciarla e tornò a rivolgere le sue attenzione a Gale, che li stava osservando incuriosito.

“E tu che hai da guardare, briccone?” chiese, facendogli il solletico. Il bambino rise, cercando di liberarsi dalla sua presa.

Giocarono a fare la lotta fino a quando non furono talmente esausti da non riuscire nemmeno più a parlare. A quel punto si abbandonarono stravolti sul letto e Joel chiuse gli occhi, passandosi una mano fra i capelli arruffati. Qualche minuto più tardi sentì il dito esile di suo figlio percorrergli la cicatrice sul palmo della mano.

“Ti ha fatto male?” chiese il bambino.

“Nah” lo rassicurò il padre, continuando a tenere gli occhi chiusi.

Gale esaminò con attenzione la cicatrice: aveva l’aria di essere stata parecchio dolorosa.

“Però non hai pianto” obiettò a quel punto, lasciandogli andare la mano.

Joel aprì gli occhi per guardarlo.

“Non si piange” mormorò, facendo scorrere le dita fra i capelli del bambino. “Mai; è la regola, lo sai bene.”

Gale annuì, prima di tornare a rannicchiarsi al suo fianco. Suo padre non aveva paura di nulla a eccezione di un’unica cosa: le sue lacrime e quelle della sua mamma. L’aveva capito un anno prima quando, giocando vicino al camino, si era provocato una brutta ustione al braccio. Hazelle non aveva nulla per alleviare il dolore ed era corsa a cercare aiuto dalla signora Everdeen. Nel frattempo, il bambino era rimasto con il padre.

Gale a quel punto aveva incominciato a piangere, specchiando lo sguardo sgomento in quello altrettanto sofferente di Joel.

“Non si piange” aveva asserito a quel punto l’uomo. Non l'aveva detto con voce arrabbiata: sembrava più che altro spaventato. Era perfino pallido, come se fosse stato lui a essersi ustionato. Come se vedere il figlio piangere e sapere che non potesse fare nulla per arginare quelle lacrime lo facesse stare male a sua volta.

“Non si piange” aveva ripetuto ancora, guardando il bambino negli occhi. Gale a quel punto aveva annuito, tirando su col naso un’ultima volta; da allora non aveva quasi più pianto. D’altronde, le mogli dei minatori lo dicevano sempre ai figli che i bambini del Giacimento non facevano mai i capricci[1].

“Non si piange” ripeté il bambino anche quella sera, socchiudendo gli occhi e abbandonando il capo contro il petto del padre.

“Ben detto, ragazzo” rispose Joel, accarezzandogli i capelli.

Si addormentarono in fretta entrambi, presto accompagnati da Hazelle che, dopo aver terminato il bucato, era tornata a sdraiarsi di fianco a loro.

Nel cuore della notte, Gale prese la mano del padre e la attirò a sé. Sfiorò la cicatrice in rilievo sul palmo e ricordò le cose che l’uomo gli aveva spiegato quella sera.

Ripensò ai ribelli e immaginò che ognuno di loro dovesse avere sul corpo diverse cicatrici come quella di Joel. Si chiese se un giorno ne avrebbe avuto la pelle cosparsa anche lui.

Si riaddormentò poco dopo, prima di riuscire a darsi una risposta.

 

***

La seconda volta che Gale si trovò a riflettere su cosa significasse essere un ribelle fece molto più male.

Aveva  sei anni e mezzo e stava tornando a casa da scuola. Prima di attraversare la strada per raggiungere la sua abitazione si irrigidì di scatto, messo all’erta dal piccolo gruppo di persone che si stava avvicinando.

Riconobbe subito le divise bianche dei due Pacificatori che stavano trascinando un terzo uomo per le braccia. La persona fra di loro indossava la tuta da minatore e continuava a lottare con furia per liberarsi, nonostante avesse già il volto incrostato di sangue. A far sussultare il bambino per l’orrore non fu quell'immagine, ma il rumore secco del manganello del Pacificatore di sinistra che colpì tutto a un tratto il fianco del minatore ribelle; l’uomo barcollò in avanti e cadde faccia a terra. Molti presenti arretrarono, impauriti da quella scena. Qualcuno cercò di portare via Gale, tirandolo per un braccio, ma lui si divincolò per sfuggirgli. Il bambino raggiunse poi sua madre; Hazelle era corsa fuori con occhi carichi di paura, come se avesse intuito che qualsiasi orrore stesse avendo luogo fuori dalla sua abitazione stesse aspettando lei. I due soldati gettarono l’uomo a terra, ai piedi della donna. Ai piedi di suo figlio, che aveva gli occhi sbarrati rivolti verso la maschera di rabbia e sangue che contraeva i lineamenti del minatore inginocchiato a terra: suo padre.

“Questo è quello che succede a chi fa il galletto con chi comanda, invece che lavorare” sbraitò uno dei due Pacificatori, indirizzando un’occhiata astiosa a Joel. Per un attimo sembrò sul punto di colpirlo di nuovo, ma all’ultimo cambiò idea. Scrutò Gale con attenzione, prima di intercettare lo sguardo atterrito di Hazelle. “La prossima volta te lo riportiamo a casa morto” disse alla donna, scavalcando l’uomo e facendo cenno al collega di tornare indietro.

Hazelle si affrettò a inginocchiarsi a terra e sfiorò il volto del marito con mani tremanti. Sembrava paralizzata dallo sgomento, incapace di reagire con la ferma determinazione che la caratterizzava di solito. Joel rizzò la schiena per mettersi a sedere, ma i suoi lineamenti si contrassero in una smorfia di dolore. Qualcuno dei presenti si avvicinò per cercare di dare una mano, ma il minatore non li degnò di uno sguardo. Aveva occhi solo per suo figlio, quel bambino con gli occhi sbarrati che stringeva convulsamente il laccio della sua tracolla.

“Non è niente, ragazzo” cercò di tranquillizzarlo, passandosi il dorso della mano sullo zigomo sanguinante. Provò ad alzarsi in piedi; delle mani robuste lo trattennero a terra con gentilezza, ma lui cercò di divincolarsi per raggiungere il figlio. “Solo qualche graffio. Perché non vai dentro a controllare come sta tuo fratello?”

Gale non lo fece. Lasciò cadere la tracolla a terra, continuando a fissare il padre. L’orrore nel suo sguardo si tramutò lentamente in qualcos’altro, modellando i suoi lineamenti infantili. Una sensazione forte, incontrollabile, incominciò a premere contro il suo corpo dall’interno, lottando per fuoriuscire.

In quel momento un altro minatore raggiunse di corsa il gruppetto di persone. Si inginocchiò di fianco a Joel, prima di stringere una spalla di Hazelle.

“Mia moglie sta arrivando” la rassicurò, indirizzando poi al collega un’occhiata preoccupata. “Questa volta ha fatto proprio il diavolo a quattro. Sei completamente ammattito” aggiunse, rivolgendosi all’uomo.

Joel cercò di ridere, ma il dolore al volto lo costrinse a desistere.

“Non posso farci niente, il quattro è il mio numero[2]” mormorò, sollevando il braccio a sfiorare la guancia della donna. “Vero, Haze?”

La moglie non rispose. Si limitò a raccogliergli la mano fra le sue per portarsela alle labbra.

“Che cosa è successo?” chiese poi, rivolgendosi al collega del marito.

L’uomo non fece in tempo a rispondere; Gale scattò in direzione della recinzione, attirando l’attenzione dei presenti. Corse più in fretta che poteva, cercando di zittire quel qualcosa che gli ribolliva in corpo. Si sentiva arrabbiato in una maniera che mai aveva provato fino a quel momento. La collera schiacciava ogni suo muscolo e cercare di contenerla faceva quasi male. Era sicuro che se fosse rimasto lì tutta quell’ira sarebbe esplosa, perciò scappò. Continuò a correre, ignorando i richiami insistenti di sua madre.

“Il bambino, Caleb! Prendi il bambino!”

Non aveva nemmeno percorso tutto il vicolo che già aveva qualcuno alle calcagna. Il suo inseguitore guadagnò in fretta velocità e lo tallonò fino al Prato, senza mai cedere.

Gale sfrecciò fino alla recinzione di filo spinato e per un istante esitò, scrutando impensierito il cielo che stava incominciando a scurirsi. A quel punto il collega di suo padre era quasi riuscito a raggiungerlo. Gale si buttò a terra e strisciò sotto la recinzione, convinto che lì non sarebbe stato seguito: nessuno, a parte suo padre, avrebbe avuto il coraggio di rincorrerlo nei boschi. Si sbagliava; l’uomo superò la recinzione senza esitare.

 

Caleb si guardò attorno con attenzione, per capire dove potesse essersi rifugiato il ragazzino. Quando raggiunse la prima radura avvertì uno scricchiolio dietro un gruppo di cespugli piuttosto alti. Riconobbe facilmente il respiro del bambino, reso irregolare dalla corsa. Sorrise, prima di sedersi contro un albero per riprendere fiato. Se avesse cercato di acciuffarlo subito Gale avrebbe di nuovo tentato di scappare e con quel cielo sempre più scuro non sarebbe stato l’ideale: avrebbe potuto inciampare e farsi male. Perciò si limitò ad aspettare, sicuro che, quando si sarebbe sentito pronto, il ragazzino sarebbe sbucato fuori. Dopo il primo minuto, Caleb incominciò a cantare. Intonò il motivetto che gli aveva ronzato in testa per tutto il pomeriggio, sin da quando era uscito di corsa dalle miniere per andare a chiamare sua moglie.

Are you, are you

Coming to the tree?

Where they strung up a man

They say who murdered three.

 

Strange things did happen here

No stranger would it be

If we met at midnight

In the hanging tree.

 

Gale ascoltò il canto con attenzione, rannicchiato dietro alla schiera di cespugli. Il significato di quei versi gli risultò tuttalpiù incomprensibile, ma c’era qualcosa in quella melodia malinconica e incalzante che lo catturò. Si accorse, con sorpresa, che il bosco aveva ridotto i suoi rumori al minimo, come se ogni uccello presente fra gli alberi si fosse zittito per ascoltare la voce di Caleb.

Are you, are you

Coming to the tree?

Where I told you to run,

So we'd both be free.

 

Strange things did happen here

No stranger would it be

If we met at midnight

In the hanging tree.

 

Quando il minatore arrivò a intonare la terza strofa, l’interesse di Gale aumentò. La sua mente aveva selezionato alcuni passaggi che lo fecero pensare istintivamente al padre. C’era una parte della canzone in cui si parlava di correre, e una frase che faceva riferimento alla libertà. L’uomo della ballata voleva essere libero, proprio come suo padre. Proprio come un ribelle.

Quella melodia malinconica riuscì pian piano a sopire l’irrequietezza del bambino. Calmò la sua rabbia e aiutò il suo respiro a regolarizzarsi, fino a quando Gale non decise di uscire dal suo nascondiglio.

Caleb sorrise e continuò a cantare, ricambiando lo sguardo composto e determinato del bambino. Quando terminò l’ultima strofa il silenzio tornò a plasmarsi attorno alla radura. Le poche ghiandaie rimaste ripeterono il canto un paio di volte, prima di ritirarsi per via del buio.

“Ti piace questa canzone, vero?” mormorò a quel punto l’uomo, facendo cenno al ragazzino di avvicinarsi. “Sei proprio il figlio di tuo padre.”

Gale annuì: quella era una frase che gli ripetevano spesso.

“Non hai paura a girare tutto solo per il bosco?”.

Il bambino, questa volta, scosse la testa.

“Sei un tipetto silenzioso” osservò Caleb, abbozzando un sorriso divertito. “Anche mia figlia.”

“Perché non hai aiutato mio papà?” domandò improvvisamente il ragazzino.

Il minatore gli rivolse un’occhiata colpevole, prima di passarsi una mano fra i capelli.

“Ci ho provato” ammise, mentre il bambino si sedeva di fronte a lui. “Non ci sono riuscito.”

Gale rimase in silenzio per un po’, rimuginando sulle sue parole.

“Come mai l’hanno picchiato?” chiese infine.

Caleb sospirò.

“Vedi, Gale, al tuo papà piace molto aiutare le persone” tentò di spiegare, scegliendo accuratamente cosa dire. “Il problema è che certe volte non si accorge che, così facendo, è lui stesso a farsi male. E a volte, come oggi, ne fa anche alla sua famiglia” aggiunse, pentendosene non appena notò il cambio di espressione del ragazzino.

“Papà non ci fa mai del male” ribatté Gale, scrutandolo sfrontato. “Lui ci protegge.”

Caleb sorrise appena.

“Lo so. Ed è proprio per proteggervi che fa quello che fa. Si arrabbia e fa il diavolo a quattro perché gli piace sperare che, un giorno, si arrabbieranno tutti e le cose cambieranno in meglio. Per te, per il tuo fratellino e anche per le altre persone del Giacimento.”

Gale tornò a tacere per un po’, decidendosi finalmente a distogliere lo sguardo dall’uomo.

“Dimmi un po’, silenzioso ragazzino dei boschi” esordì a un certo punto Caleb, indirizzandogli un’occhiata incuriosita. “Che cosa ti piacerebbe fare da grande?”

Il bambino si strinse nelle spalle.

“Il minatore. Tutti fanno i minatori” replicò, esaminando vigile un cespuglio dietro il quale si era sollevato uno scricchiolio.

Caleb sorrise della sua reazione; doveva avere sì e no un paio d’anni in più di sua figlia, eppure, per certi versi, aveva già degli atteggiamenti da cacciatore. Joel l'aveva allenato bene.

“Ma se potessi scegliere?” insistette. “Che ti piacerebbe fare?”

Gale rifletté per qualche istante.

“Il ribelle” rispose infine, in tono di voce fermo.

Caleb specchiò il suo sguardo in quello fiero e composto del bambino e non poté trattenersi dallo scoppiare a ridere.

“Tuo papà te l’ha spiegato bene cosa significhi essere un ribelle?”

“Liberare gli altri” spiegò il ragazzino in maniera meccanica. Non comprendeva ancora il significato di quelle parole, eppure era convinto che il concetto di libertà dovesse essere qualcosa di particolarmente importante. Suo padre ne parlava spesso, specialmente le volte in cui tornava a casa arrabbiato.

“Ma sentilo” esordì incredulo Caleb, sorridendogli. “Sei anni e fai già affermazioni pericolose. Un giorno con questi discorsi farai morire di preoccupazione una bella signorina, così come fa il tuo papà con Hazelle.”

Il bambino scosse la testa.

“No, io la proteggerò.”

Il minatore tornò a rivolgergli un’occhiata divertita. Il ragazzino con cui stava parlando non aveva nulla dei bambini piccoli che di solito bighellonavano affamati per le strade del Giacimento. Ogni tanto l’aveva visto giocare e fare lo scavezzacollo assieme agli altri ragazzini della sua età, ma in quel frangente gli sembrò fin troppo maturo e determinato per avere solo sei anni o poco più.

“Allora sarà una signorina fortunata” concluse, arruffandogli i capelli. “Dai, torniamo a casa. Tua madre sarà preoccupatissima.”

Gale acconsentì. Mentre s’incamminavano in direzione della recinzione, il bambino afferrò le dita di Caleb. L’uomo se ne stupì: non sembrava il genere di ragazzino che voleva essere preso per mano. Tuttavia, quando cercò di stringere la sua, il piccolo si scostò.

“Hai una cicatrice, qui” spiegò a quel punto il bimbo, indicandosi la parte superiore del polso. Il minatore si analizzò incuriosito la mano.

“Già” confermò, infilandosela in tasca. “Un piccolo incidente mentre preparavo una trappola.”

Quando pronunciò la parola ‘trappola’ lo sguardò del bambino sembrò farsi più vispo. Caleb ipotizzò che fosse sul punto di fargli qualche domanda sulla caccia ma, quando parlò, Gale lo fece per chiedergli tutt’altro.

“Sei un ribelle anche tu?”

Il minatore si fermò, sorpreso dalle sue parole.

“I ribelli hanno tante cicatrici” spiegò il ragazzino.

“Non tutti i ribelli usano la forza, Gale” rispose l’uomo, posandogli una mano sulla spalla. “Ci sono altri modi per ribattere alle ingiustizie.”

Il piccolo aggrottò le sopracciglia.

“Tipo come?”

Il minatore gli rivolse un sorrisetto complice; incominciò poi a fischiettare il motivetto dell’Albero degli Impiccati.

Gale lo ascoltò con attenzione, prima di sorridergli. In quel frangente a Caleb risultò evidente quanto fosse piccolo, nonostante certi suoi atteggiamenti ricordassero quelli di un ragazzo più grande. Cercava in tutti i modi di emulare il padre, ma in fin dei conti era solo un bambino; un ragazzino disilluso, che sapeva fin troppo bene come sarebbero andate le cose una volta cresciuto, ma pur sempre un bambino.

Non appena Gale e Caleb arrivarono all’abitazione degli Hawthorne, il piccolo venne accolto dall’abbraccio sollevato di sua madre.

“Perché dovete sempre farmi impazzire di paura, voi due?” mormorò Hazelle, prima di lasciarlo andare per ringraziare l'uomo.

Gale raggiunse la camera da letto, dove uno stravolto Joel si stava lasciando medicare dalla signora Everdeen. Quando il minatore individuò il ragazzino sulla soglia le sue labbra si incresparono a formare un sorrisetto.

“Ehi, delinquente” mormorò, mentre il bambino si appoggiava al suo letto con il fianco. “Ma dov’eri finito?”

“Come stai?” chiese Gale, analizzando con apprensione le ferite che gli rigavano la parte sinistra del volto.

 “Sta bene” lo rassicurò la signora Everdeen, chiudendo l’unguento alle erbe che aveva utilizzato per medicarlo. “Per questa volta se la caverà con qualche cicatrice.”

“Come sempre” replicò a quel punto Joel, stringendo la mano che il bambino aveva appoggiato sulla sua; non aveva parlato con il tono di voce allegro e un po’ canzonatorio che usava spesso. Sembrava veramente abbacchiato e non solo per le ferite e i dolori alla schiena.

L’impressione di Gale venne confermata quando Hazelle li raggiunse nella stanza. La donna avvicinò a sé il figlio e gli accarezzò i capelli, ma il suo sguardo era rivolto al marito.

Il bambino la vide scuotere la testa, mentre le lacrime incominciavano a rigare il suo volto. Il pianto della donna mise a disagio il ragazzino: non c’era niente che potesse fare per la sua mamma, in quel momento, e quella sensazione d’impotenza lo fece sentire nuovamente arrabbiato; arrabbiato e triste. Ciò che più lo turbò, tuttavia, non fu il pianto di Hazelle, ma quello che vide quando tornò a rivolgere la sua attenzione a Joel. Suo padre, che non aveva mai visto piangere, aveva gli occhi lucidi. Fu quello a disorientarlo, a fargli provare un po’ di spavento, perfino. Suo papà gli aveva insegnato che i ribelli non piangevano mai. Lottavano con furia, si prendevano i calci, i pugni, gli sputi e gli insulti degli altri e, nonostante tutto questo, non versavano una lacrima. Perché il loro pianto avrebbe fatto soffrire anche le persone a cui volevano bene.

“Non si piange” sussurrò al padre, cercando la cicatrice sul palmo della sua mano.

Joel gli rivolse un sorriso amaro e gli strinse più forte le dita.

“Ascoltami bene, Gale” mormorò infine, quando la signora Everdeen uscì dalla stanza per raggiungere il marito. “Non diventare come me. Io non ho scelta, capisci? Sono fatto così” aggiunse, indicandosi il volto ferito. “Non ci riesco a starmene zitto e al mio posto. Ci ho provato, ma non ce la faccio. Invece tu…” esitò per un istante, osservando la mano del bambino ancora saldamente stretta alla sua. “…Tu sì che ce la puoi fare. C’è tanto della tua mamma in quella bella testolina che ti ritrovi. E soprattutto qui…” mormorò ancora, picchiettandogli due dita sul petto, all’altezza del cuore.

Guardò nuovamente in direzione della moglie; Hazelle continuava a tenere il figlio vicino a sé, come se avesse paura che il bambino potesse scappare di nuovo. Piangeva ancora – in silenzio, senza farsi sentire – ma Gale riuscì di nuovo a scorgere nel suo sguardo quella punta di tenerezza che serbava sempre per suo padre: la pagliuzza di affetto presente anche quando la rabbia prendeva il sopravvento su di lei, spingendola ad accantonare per un istante i suoi modi generalmente pacati. Hazelle accarezzò il volto del marito e poi i capelli, lasciandosi andare a un sospiro di rassegnazione.

Tutto a un tratto il pianto di Rory li raggiunse dalla cucina. La donna lasciò andare il figlio e rivolse a Joel un' ultima occhiata, prima di andare ad accudire il suo secondogenito.

Gale si arrampicò sul letto e si sedette di fianco al padre.

“Non lasciare mai che la tua rabbia ti bruci, Gale” lo avvertì a quel punto Joel, ricambiando serio lo sguardo del bambino. “Finiresti per mandare in fiamme anche quelli che ti stanno attorno.”

Il piccolo annuì, pur non riuscendo a comprendere l’improvviso cambiamento nei discorsi del padre. Forse le lacrime della mamma l’avevano spaventato. Forse stava cercando di fare la pace con lei, perché a Hazelle i suoi discorsi sulla libertà avevano sempre messo un po’ di paura.

“Me lo prometti, ragazzo?” insistette Joel, sollevando la schiena per avere il volto all’altezza di quello del figlio. “Mi prometti che non diventerai un ribelle?”

Gale non rispose subito: era confuso e non sapeva bene come replicare. Aveva solo sei anni, eppure sentiva già che quella sarebbe stata una promessa difficile da mantenere.

“Promesso” decise comunque di mormorare, annuendo con decisione.

E, nonostante il padre gli stesse sorridendo, qualcosa nel suo sguardo lo fece sentire tutto a un tratto in colpa.

Erano le lacrime: Joel aveva di nuovo gli occhi lucidi.

Perché non gli credeva. Non gli credeva nemmeno un po’.

***

Il primo colpo giunse all’improvviso, cogliendolo di sorpresa. Il ragazzo cercò di restare immobile, soffocando un gemito di dolore.

Immagini confuse e stralci di dialoghi appartenenti al passato gli attraversarono la testa, flebili e incomprensibili. Troppo veloci perché riuscisse ad afferrarne almeno uno.

Fece del suo meglio per rimanere in silenzio, per non mostrare alcun segno di cedimento. Al sesto colpo di frusta le sue ginocchia lo tradirono, facendolo scivolare in avanti. Le catene lo strattonarono per i polsi e il ragazzo si costrinse a rimettersi in piedi. Il dolore crebbe, ma i suoi occhi rimasero asciutti.

Non si piange.

 

La rabbia crebbe, alimentando il bruciore sulla schiena già dilaniata dalle frustate. Ad ogni colpo inflitto, Gale riascoltò in sordina il rumore secco del manganello sul fianco di suo padre. Per ogni ferita che si apriva sulla sua pelle ricordò la linea bianca in rilievo sul palmo della mano dell’uomo.

Che cosa vorresti fare da grande?

Il ribelle.

 

L’ira s’inspessì ancora, fomentata dal senso d’impotenza. Da quelle catene che lo obbligavano a soccombere senza ribellarsi e dagli sguardi sottomessi delle persone che lo fissavano in silenzio, immobili come statue. Persone che non reagivano, anche se i loro padri, i loro figli o loro stessi avrebbero potuto essere i prossimi. Persone spaventate, incapaci di trovare il coraggio d’intervenire, ma con il fegato di restare a guardare senza muovere un dito. Persone in prigione, con i polsi incatenati, proprio come lui. Persone che avrebbero potuto dare molto, ma che avevano bisogno di qualcuno che desse loro una spinta.

 

Tuo papà te l’ha spiegato bene cosa significhi essere un ribelle?

Liberare gli altri.

 

I suoi occhi incominciarono a chiudersi, lottando contro il suo orgoglio, per fargli perdere i sensi e strapparlo al dolore. Non aveva fiato, né le forze per parlare, ma se ne avesse avuti gli sarebbe piaciuto urlare che non si pentiva proprio di niente. Che già da bambino aveva imparato quanto il suo bisogno di liberarsi gli sarebbe costato caro, eppure l’aveva accettato. Avrebbe detto che i ribelli non potevano esimersi dal rivoltarsi nemmeno volendo. Anche se il peso delle loro azioni avrebbe sfregiato per sempre la loro pelle, incidendoci sopra delle cicatrici.

I ribelli hanno tante cicatrici.

Ci sono altri modi per ribattere alle ingiustizie.

 

Ma le sue mani e la sua rabbia di altri modi non ne conoscevano e lui voleva parlare nella stessa lingua utilizzata da chi l’aveva legato a quel palo di legno.

Cercò di restare lucido, aggrappandosi al pensiero che non potesse farci niente, proprio come suo padre. Che non poteva, né voleva starsene zitto e soccombere, nemmeno dopo quella situazione. La pelle martoriata della sua schiena non sarebbe mai stata un monito, ma solo uno stimolo in più a farsi ancora avanti.

 

Me lo prometti, ragazzo? Mi prometti che non diventerai un ribelle?

 

Perse coscienza, abbandonandosi al rumore sordo della frusta contro la sua pelle. Quando rinvenne, i suoi sensi registrarono solo due cose: il dolore dilaniante e le urla di Katniss. Cercò di muoversi verso di lei, lasciando sgorgare altro sangue dalle ferite.

Un giorno farai morire di preoccupazione una bella signorina.

No, io la proteggerò.

 

Capì di avere infranto due promesse, quel giorno. Lo capì quando una vecchia melodia che aveva ascoltato una volta incominciò a ronzargli nella testa, parlandogli di morte e libertà.

Tutto a un tratto avvertì il tocco delicato di sua madre fra i capelli e le labbra della donna a sfiorargli le dita. Le parole della signora Everdeen, attutite dal torpore improvviso, furono l’ultima cosa che sentì prima di perdere coscienza ancora una volta.

“Starà bene, Hazelle. Ma gli rimarranno parecchie cicatrici.”

Sei proprio il figlio di tuo padre.

 

***

Prima di tutto sentì il rumore.

Un fragore che spezzò il cielo già percosso dal rombare degli hovercraft. Fu un rumore cinque volte più intenso di quello prodotto dalle bombe che avevano fatto saltare in aria le baracche ai margini del Giacimento. Fu un boato che ghermì la terra e la riscosse, che s’insinuò vibrante dentro la sua cassa toracica e la sbatacchiò con violenza.

Dopodiché vide il fuoco; il polverone di fumo che soffocò all’istante il brulicare di persone che correvano disordinate per la strada: uomini mezzi svestiti, donne con bambini in braccio, anziani che arrancavano rantolando.

A quel punto giunse la rabbia. Sfrontata, violenta, prepotente. Più insostenibile del dolore provocato dalle ustioni che gli avevano aggredito la pelle.

Sua madre la notò prima di lui; sgranò gli occhi, messa all’erta dall’irrigidimento del figlio, e lasciò andare Posy per raggiungere il primogenito.

Ma a quel punto anche Gale l’aveva sentita. La collera diede un calcio alla sua schiena, nel punto esatto in cui le ferite avevano incominciato a cicatrizzarsi.

Il ragazzo scattò in avanti prima che la madre potesse fare in tempo a trattenerlo. Superò il gruppo di persone che correvano disordinate verso il bosco e si gettò nelle grinfie di quel Distretto di fuoco e fumo che un tempo era stato casa sua. Cercò di muoversi verso la strada, con l’intento di aiutare qualche persona rimasta intrappolata sotto le macerie. Avrebbe potuto sorreggere un uomo ferito, prendere in braccio qualche bambino.[3]

Un boato lo sorprese alla sua sinistra e si sentì scaraventare a terra. L’urto gli mozzò il fiato, procurandogli un dolore lancinante. Cercò di alzarsi, ma anche quando ci riuscì non ebbe modo di avanzare; il fumo e le continue esplosioni non gli avrebbero consentito di fare più di qualche metro.

Così guardò bruciare ciò che ancora rimaneva della sua casa, della sua gente, del suo passato e di suo padre.

Guardò bruciare ciò che, per chi li stava annientando, non era altro che fango da calpestare, pezzi di carbone da strappare alla roccia, polvere nera da spazzolare via dai vestiti.

A fatica diede le spalle a quell’inferno e corse verso il gruppo di persone dirette al lago. Venne raggiunto a metà strada da Hazelle, che lo abbracciò con lo stesso disperato sollievo con cui l’aveva stretto da piccolo, il giorno in cui suo padre era stato portato a casa dai Pacificatori.

“Non è questo il momento per metterti a fare il ribelle” lo ammonì, fissando atterrita le bruciature che gli coprivano parte del volto.

Madre e figlio si avviarono fino al lago dove si era radunato il gruppo di superstiti. Gale lasciò scorrere lo sguardo sui loro visi, soffermandosi su quelli dei feriti. Dovevano essere meno di mille in tutto, pensò, mentre Posy scivolava via dall’abbraccio di Vick per correre da lui.

Meno di mille su diecimila persone.

Volse lo sguardo in direzione della strada, verso il punto contro cui le bombe continuavano ad accanirsi. Prese in braccio sua sorella per nasconderle quella vista e intercettò la sua espressione inorridita, nel momento in cui la bambina si accorse dell’ustione che lambiva il volto del fratello. Fu a quel punto che Posy si arrese alla paura e incominciò a piangere, aggrappandosi al collo del ragazzo.

Gale appoggiò il mento sui suoi capelli, incapace di distogliere lo sguardo dalle esplosioni.

“Non si piange” mormorò con dolcezza, riparandola dal freddo con le braccia.

Sentì la collera montare, alimentata dalle urla di disperazione delle persone dietro di lui; quelle di chi gridava il nome di un parente per cercarlo, e quelle di chi era rimasto ferito.

Sentì la collera montare per le urla di chi, invece, non poteva più disperarsi. Per chi era rimasto soffocato dalla morte ancor prima di riuscire a gridare fuori il suo terrore.

Provò una rabbia nuova, irruente, implacabile. Un’ira che, lo sapeva, non avrebbe mai avuto modo di zittire.

 

Non lasciare mai che la tua rabbia ti bruci, Gale.

 

Le mani di Posy si aggrapparono con più forza alla sua schiena, facendo pressione sulle ferite ancora in fase di cicatrizzazione.

Cicatrici che sarebbero per sempre rimaste lì, a ricordargli che non poteva e non voleva subire e tacere. Che avrebbe lottato fino a consumarsi, a costo di ferire e perdere se stesso.

Che era un ribelle e non poteva farci nulla.

Proprio come suo padre.

Me lo prometti, ragazzo?

“Non posso”.

 

Note Finali.
[Questa storia partecipa anche alla Challenge "Sulle ali della fantasia" indetto da Dark_Wolf con il prompt "Ribellione".]

Avevo incominciato a plottare questa storia dopo aver scoperto, attraverso questo meraviglioso post di tumblr, questo altrettanto meraviglioso video. Se già il post di tumblr mi aveva fatto associare quel bimbetto a Gale, il video mi ha irrimediabilmente fatto pensare al Giacimento e al modo in cui immagino i coniugi Hawthorne e l’infanzia di Gale. Inoltre, guardando “Re della terra selvaggia” mi sono innamorata di quel “non si piange” che intercorre per tutto il film e ci tenevo troppo a utilizzarlo in qualche modo per Gale e Joel sr, così l’ho inserito.  Infine, dopo aver visto Mockingjay (parte 1) al cinema ho infilato nel plottaggio anche la scena sui bombardamenti, perché diciamocelo, la parte in cui Gale racconta cosa sia successo ci ha uccisi tutti ç-ç E grazie a qualcuno che ha di nuovo promptato qualcosa a cui non potevo resistere (*coff coff* Talking Cricket *coff coff*) e che mi odierà visto che continuo a scrivere papiri, mi sono decisa a mettere il tutto per iscritto.

Passando alla storia, spero che l’interpretazione delle varie vicende e dei personaggi possa risultare credibile. Joel è un personaggio di cui non sappiamo nulla, quindi ormai, a forza di scrivere su di lui, mi sono affezionata davvero tanto al modo in cui ho scelto di caratterizzarlo. In questa storia emerge forse ancora di più che in Wayward One la sua indole ribelle che erediterà anche il figlio. Qui c’è anche la sua parte più vulnerabile che fino ad ora non era emersa; quel senso di colpa che ogni tanto si fa sentire, quando si rende conto che le sue azioni hanno comunque delle conseguenze sulla sua famiglia. Anche Hazelle qui è un po’ più vulnerabile rispetto alle altre storie in cui era presente, ma mi sembrava importante mostrare anche questo suo momento di fragilità per caratterizzare al meglio il rapporto che intercorre tra i due coniugi Hawthorne (si vede che sono una delle mie tre OTP supreme, vero? *\* Li amo troppo <3).

Mi sono fatta tantissime paturnie per quanto riguarda la parte dei Pacificatori. Dai libri sappiamo che ai tempi in cui Katniss è adolescente i pacificatori non erano particolarmente rigidi, mentre viene detto che quando Mrs. Everdeen era ragazzina lo erano parecchio e le fustigazioni erano all’ordine del giorno. La scena con Joel e i due Pacificatori sta a metà fra questi “due periodi” e quindi non sapevo bene come inquadrare il loro comportamento. Probabilmente, un tempo, Joel sarebbe sicuramente stato punito in maniera ben peggiore, mentre ai tempi di Katniss una comportamento simile sarebbe stato probabilmente eccessivo. Quindi non lo so, mi sono tenuta nel mezzo, spero che la scena non risulti forzata o troppo inverosimile.

Per quanto riguarda mr. Everdeen, che ho scelto di chiamare Caleb, per ora era comparso solo in “The Miner Saw a Comet” e ho cercato di mantenere la caratterizzazione che gli avevo dato lì. So che nei libri si accenna al fatto che Peeta da piccolo l’avesse sentito cantare la canzone degli impiccati, ma ci tenevo comunque a inserire quella piccola scena con Caleb e Gale. Ah, e c’è qualche piccolo accenno Everthorne, sì --

Passando proprio al piccolo/grande protagonista di questa storia… Ecco, di Gale bambino avevo già scritto in diverse storie, tra cui le due citate sopra, ma mai in maniera così approfondita. Ho fatto del mio meglio per renderlo coerente sia alla sua età che in merito al carattere del Gale che conosciamo. So di averlo reso fin troppo maturo per l’età che ha, ma proprio non riesco ad associare un ragazzino vissuto in un contesto simile, così duro e grigio, all’ingenuità e all’allegria tipica di molti bimbi di cinque, sei anni. I bambini del giacimento li ho sempre immaginati un po’ come dei ragazzini molto indipendenti e piuttosto consapevoli della realtà in cui vivono. Soprattutto i primogeniti, quando si parla di famiglie numerose. Ad ogni modo, molte delle cose che baby Gale dice o fa sono un po’ dei tentativi di emulare il padre. Molti dei concetti su cui rimugina non li ha afferrati del tutto, ma ne comprende l’importanza perché ha capito che il suo papà li reputa tali.  E niente, sono veramente tanto affezionata a questa storia e spero possa piacervi nonostante l’estrema (solita) lunghezza.

Grazie mille a chiunque l’abbia letta!

Un abbraccio e a presto!

Laura


[1] Riferimento alla flash fiction “Posy aveva una bambola”.

[2] Il quattro è il numero portafortuna di Joel. Ho inserito questo dettaglio nel mio headcanon nel momento in cui mi sono resa conto che il signor Hawthorne aveva avuto quattro figli tutti con nomi da quattro lettere.

[3] Piccolo riferimento alla scena del film MJ (parte 1) in cui Gale ricostruisce a voce la notte dei bombardamenti.

   
 
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