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Autore: Terre_del_Nord    09/11/2008    24 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Habarcat - I.002 - Fratelli

I.002


Meissa Sherton
Herrengton Hill, Highlands - sab. 03 ottobre 1970

Quando vidi quel fagottino, roseo e paffuto, tra le mani grandi e forti di mio padre, non potevo credere che fosse un essere umano: sembrava una bambola, un po’ bruttina a dire il vero, col viso atteggiato a strane smorfiette, gli occhi chiusi e la lingua che spesso faceva bella mostra di sé. Per lo meno avevo smesso di odiarlo. Non potevo crederci, avevo desiderato per anni il suo arrivo, avevo immaginato, giocando con le bambole, come sarebbe stato avere un fratellino o una sorellina di cui occuparmi, avevo sognato di non essere più la piccola di famiglia ma, alla fine, mi ero ritrovata a pregare le divinità che conoscevo perché quell’essere ritornasse nel limbo delle anime nasciture. Mirzam sembrava non avere il coraggio di avvicinarsi, rimaneva in piedi vicino alla porta, in fondo al letto, in religioso silenzio, osservando a turno i nostri genitori, me e quella cosa che si agitava sbuffando. Quando si accorse che lo osservavo, però, mi sorrise e un guizzo della sua abituale ironia gli illuminò il viso, probabilmente evocato dal mio sguardo disorientato.

    “Quando sei nata tu, non eri molto più carina!”

Diventai porpora, mentre tutti ridevano e mio padre iniziava a raccontare dei particolari vergognosi su di me, troppo lontani nel tempo perché potessi ricordare e difendermi. Stando ai loro racconti, ero stata una tale piagnucolona, che, esasperati, avevano iniziato ad accarezzare l’idea di "smaterializzarmi" ad Amesbury tra una poppata e l’altra, mentre tutti loro tenevano al riparo le orecchie a Londra. Ero offesa dal comportamento traditore di mio padre e, in qualsiasi altra occasione, gli avrei messo su un muso altezzoso, ma sapevo perché faceva così: ridere con e dei suoi figli era un modo per stringerci a sé, esorcizzando il terrore che aveva provato. Mio padre era un uomo forte e coraggioso, che di certo non fuggiva di fronte a nulla, capace di far tremare le vene ai polsi a chiunque, solo con uno sguardo, ma quando si trattava della sua famiglia, e di sua moglie in particolare, quando c’era qualcosa che ci minacciava e che non poteva combattere o evitare, sembrava perdersi. Quel giorno, in realtà, ci eravamo persi un po’ tutti. La mamma ora sorrideva, ma era evidente quanto fosse stanca, il parto era stato lungo e travagliato: era pallida, con i lunghi capelli rossi raccolti in una treccia sfatta, le mani che le tremavano ancora un po’, gli occhi cerchiati, in cui lacrime di sofferenza e di gioia si mischiavano.

*

Da giorni c’erano state avvisaglie che annunciavano come imminente la nascita, ma il bambino fece sul serio solo la mattina del 2 ottobre. I Medimaghi furono chiamati a Herrengton a mezzogiorno: sembrava che tutto filasse liscio, che le cose si sarebbero risolte presto, poi il piccolo decise che nella mamma si stava bene e non sembrava più molto entusiasta all’idea di abbandonare quel caldo nido, sicuro e accogliente. Così si era girato in modo strano, rifiutandosi di uscire. Il travaglio si era protratto fino al giorno dopo, le grida strazianti di mia madre avevano riecheggiato nel maniero nonostante le Pozioni che dovevano placarle il dolore e facilitarle il parto; mio fratello camminava avanti e indietro per i corridoi, spiritato, poi iniziò a mandare Gufi alle zie e a nostro fratello, ad Hogwarts, per avvisarli e per avere qualcosa da fare, che non lo facesse pensare. Io ero rimasta impietrita, pressoché dimenticata nell’anticamera dei nostri genitori, assistendo al via vai dei Medimaghi e al loro parlare agitato, tipico di chi non sa cosa fare: ormai odiavo quel mostriciattolo che la torturava, tutti quanti eravamo felici del suo arrivo, tutti l’avremmo amato, e lui, ingrato, rendeva tutto difficile e terribilmente pericoloso.
Quando, all’alba, sentii il Medimago-capo dire che dovevano sbrigarsi a trovare una soluzione, perché un travaglio così lungo a trentanove anni poteva essere fatale, fui presa dal panico e crollai, iniziai a pregare Salazar che si prendesse il bambino ma mi lasciasse la mamma. Mio padre entrò in camera, preoccupato e provato, con un paio di Pozioni cui aveva lavorato per tutta la notte, nel sotterraneo, consultando i manoscritti dei nostri avi, convinto che in quella conoscenza antica ci fosse qualcosa che tutti stavano ignorando e che poteva invece essere fondamentale. Si chiusero nella stanza, le voci si fecero dei sussurri, le grida di mia madre si attenuarono appena un po’, Kreya ebbe l’ordine di portarmi al piano di sopra, lontana da tutto ed io, piangendo isterica, mi ritrovai in camera mia, disperata all’idea che non l' avrei più rivista. L’Elfa mi preparò tutto l’occorrente per un bagno rilassante, si avvicinò per aiutarmi a spogliarmi e per sciogliermi i capelli, ma io le sfuggii e, in piedi in mezzo al letto, le urlai contro, non volevo che mi toccasse, così presi una spazzola e gliela tirai addosso, trovando parziale sollievo alla mia angoscia solo quando vidi i suoi tondi occhi acquosi pieni di paura e di dolore.

    “Vattene di qui lurida Feccia! Vattene!”

Le scagliai addosso un paio di libri, un porta candele, una scatola portagioie, centrandola ripetutamente e facendola guaire di dolore, ma lei non poteva andarsene, perché era l’Elfa personale di mio padre e lui le aveva ordinato chiaramente di restare con me: si era rifugiata in un angolo, come un vecchio cencio, a subire lo sfogo della mia rabbia e del mio tormento, picchiandosi con i pugnetti ossuti perché non stava rispettando il mio ordine di togliersi dai piedi. I suoi grandi occhi erano ormai ridotti a due fessure piene di lacrime, cerchiate di nero, quando mi abbandonai sul letto, disperata, e uno strano torpore mi fece perdere coscienza: vagai tra sogni agitati, carichi d’angoscia, in cui prendevo l’antica spada dei nostri avi, che mio padre teneva in una delle sue stanze nella torre ovest di Herrengton, e con essa minacciavo il demone che faceva del male alla mamma.

    “Meissa.”

Aprii gli occhi con difficoltà, un pallido sole stava scivolando dietro gli alberi della collina di fronte, colorando di una sfumatura rosata le cime cariche della prima neve dell’anno, ancora fresca. Era pomeriggio inoltrato, Mirzam mi parlava dolcemente all’orecchio accarezzandomi la testa e spostando le ciocche corvine dalla mia faccia per darmi un bacio sulla fronte.

    “Mir…”

Non osavo aggiungere altro, avevo paura che fosse lì per portare brutte notizie: io avevo combattuto a lungo, con tutte le mie forze, con la spada di nostro padre, ma il mostro non temeva la lama.

    “Scendiamo di sotto, c’è qualcuno che vuole conoscerci.”

Sorrideva ma quasi non ci feci caso, la notizia che il bambino era nato non mi provocava gioia, ero come anestetizzata, non m'interessava più, non m'importava se era maschio o femmina, se era grande o piccolo, se stava bene, se era bello, io volevo sapere solo di nostra madre, se era andato tutto bene, ma il terrore che avevo nel cuore per la voce del Medimago che diceva “può essere fatale” faceva sì che non osassi fare domande. Mirzam aveva capito e mi sorrise di nuovo.

    “La mamma sta bene, non ti preoccupare, è stanca, starà a letto diversi giorni, certo, ma vedrai che gli "intrugli" di papà la rimetteranno in sesto e in un batter d’occhio sarà come nuova!”

Non aveva nemmeno finito di parlare, che mi ero già gettata tra le sue braccia, lasciando libero sfogo a tutta la paura che avevo provato; Mir mi accarezzava la testa, facendomi coraggio, rassicurandomi senza altre parole, ma solo col calore dei suoi gesti. Mi accorsi che tremava: anche lui era provato, aveva un amore sconfinato per nostra madre, ma si trattava di Mirzam Sherton, il primogenito di Alshain Sherton, a lui non era più permesso mostrare neppure un momento di debolezza, mai, con nessuno. Solo con me tornava ad essere semplicemente un ragazzo di vent'anni, solo con me gli era concesso preoccuparsi e spaventarsi, senza gli obblighi e le costrizioni derivanti dal nostro nome. Con me, quasi fossi un rifugio segreto, in cui era possibile custodire i propri pensieri più veri, poteva rivelare appieno la sua natura, anche quella più profonda, ricompensandomi con il suo sostegno e la sua protezione.

*

    “Ora è meglio lasciar riposare la mamma.”

La voce di mio padre mi riportò al presente, ci stava congedando: guardai il fagottino ancora una volta, guardai i miei genitori, mi alzai dalla sedia accanto al letto, e insieme a Mir ci avvicinammo alla mamma per darle un bacio sulla fronte e sulla guancia, mentre lei posava i suoi occhi stanchi e assonnati su tutti noi, accarezzandoci con il suo sguardo pieno d’amore. La tata uscì con il fagottino e mio padre incaricò mio fratello di spedire tramite Hermes, il suo Gufo Reale, una pergamena indirizzata ad Orion Black. Poi tornò a sedersi sul letto, accanto a nostra madre, prendendole una mano tra le sue e facendole poggiare il viso sul suo petto.

    “Il suo nome sarà Wezen, vorrei continuare la tradizione...”

La voce di mia madre uscì come un sussurro, mio padre annuì, la guardava rapito, a metà tra uno stupore religioso e una gioia inesprimibile, per averla accanto a sé; noi uscimmo, lasciandoli finalmente soli, a sorridersi, stanchi e radiosi. Solo in quel momento, libera finalmente dall’angoscia, mi resi conto che avevo un fratello. Di nuovo un fratello, di nuovo un maschio. Ero ancora l’unica bambina nata a casa Sherton negli ultimi duecento anni. La cosiddetta “Maledizione”, quella che per sette secoli aveva portato alla nascita di appena quattro femmine nella nostra famiglia, quella che per molti era vacillata quando ero nata io, una bambina, nel giorno di Habarcat, a quanto pareva non era sciolta come tutti quanti avevano sperato in quei dieci anni.
Tutta quella fatica e tutta quella paura non erano serviti a niente. 

***

Sirius Black
12, Grimmauld Place, Londra - sab. 03 ottobre 1970

La notizia ci arrivò il 3 ottobre, all’ora di cena: nostro padre era appena rientrato da uno dei suoi pomeriggi a Nocturn Alley e si era seduto sulla poltrona, con il "Daily Prophet" a far da paravento, così da isolarsi dalla quotidianità della sua famiglia, riunita nella stanza dell'Arazzo. Quando Kreacher gli consegnò la pergamena, la prese con sufficienza, infastidito per essere stato disturbato, l’aprì quasi schifato, come se fosse sufficiente toccarne un lembo per ammalarsi di un’infezione grave, ma appena saggiò la consistenza pregiata della carta, e posò gli occhi sul sigillo di ceralacca e sulla calligrafia nota, nobile come la mano che l’aveva tracciata, sorrise e si immerse nella lettura, al termine della quale guardò sua moglie con occhi turbati.

    “Avevamo torto, Walby, è un bambino, sano, perfetto, in salute, ma è un altro maschio!”

Mia madre, che fino ad allora non si era affatto preoccupata della lettera, si alzò dalla sua poltrona, attraversò la stanza con le sue movenze aristocratiche avvicinandosi lentamente al marito, prese il foglio, sempre con gesti curati e eleganti, si portò infine gli occhialini al viso e lesse con avidità: sul volto, di solito impassibile, c’era un misto di sentimenti contrastanti, su cui infine predominò un senso di delusione cocente. Si tolse gli occhiali e puntò i suoi cupi occhi azzurri sul viso ingrigito di nostro padre, le labbra appena increspate in un ghigno feroce, immobile sulla sua faccia dura come marmo. Si morse il labbro inferiore. Non l’avevo mai vista così partecipe per qualcosa, di solito affrontava tutto quello che ci circondava con aria annoiata, come se non esistesse nulla al mondo che meritasse la sua attenzione.

    “Alshain sembrava aver avuto occhio nello scegliere sua moglie! Una figlia femmina nel giorno di Habarcat, come diceva la Profezia, ma ora dopo dieci anni un altro maschio! Questa è una sconfitta, Orion! Ora è necessario che Mirzam si sposi il prima possibile, così da avere presto dei figli a sua volta e aumentare le probabilità, prima che nessuno creda più...”

Reg ed io, impegnati a leggere i racconti leggendari tratti dalla vita dei grandi Maghi dell’antichità, assistemmo a questa scena sdraiati a pancia sotto sul tappeto davanti al caminetto, senza capirci molto, tanto che provai a fare una domanda sul perché fosse tanto importante che nascesse proprio una bambina, ma mia madre, accusandomi di non sapere stare al mio posto e di impicciarmi sempre degli affari degli adulti, mi spedì a letto senza cena; Reg fu più furbo di me, rimase in silenzio, a fare da tappezzeria, con le orecchie ben tese per capire cosa stesse succedendo.
Un paio d'ore più tardi mi raggiunse in camera, mi passò un paio di fette di carne di tacchino, che era riuscito a nascondere per me in un tovagliolo, e si sedette sul mio letto, ad osservarmi con quegli occhi grigi che sembravano rimproverarmi sempre per qualcosa. Guardarlo era un po’ specchiarsi: mio fratello all’epoca mi assomigliava tantissimo. Era nato un anno dopo di me, era poco più basso e un po’ più magro, i nostri visi erano quasi identici, con gli occhi grigi, i tratti del viso, che tutti definivano molto belli ed eleganti, le bocche rosse e carnose, ancora bambine. Avevo dieci anni, lui ne aveva appena nove anni, eppure la vita a Grimmauld Place ci stava facendo diventare adulti molto in fretta: non volevo diventare come i miei genitori, mio fratello, i miei parenti. Ai miei occhi tutti loro sembravano morti, privi di anima e di passione, per qualsiasi cosa non fosse il nostro Sangue Puro; io, invece, mi sentivo vivo e volevo gridarla, la mia gioia di esserlo, e volevo sparire da quell’odiato arazzo, in cui non c’erano tracce di sanità mentale, a parte, forse, nei Black che avevano meritato, con la ribellione, di esserne cancellati. Mio fratello, forse, già all’epoca era attratto dal Buio, che si respirava a pieni polmoni tra le pietre e i velluti polverosi di quella vecchia casa malsana: probabilmente considerava missione della sua vita risarcire nostra madre di quello che le veniva tolto da un ingrato come me, perché più volte la mamma mi aveva accusato di essere un figlio tremendo, di farla soffrire indicibilmente con la mia indisciplina e la mia strafottenza, e Regulus sentiva, nel suo amore malato e totalizzante per quella donna orrenda e senza cuore, di doverla ripagare del dono d' averlo messo al mondo, realizzando i suoi sogni, diventando il figlio esemplare, la luce dei suoi occhi, il vero Sirius, la stella più luminosa e perfetta.

    “Non riesci proprio a tenerti fuori dai guai, Sir?"
    “E tu non riesci a farti gli affari tuoi, vero Reg?"

Mi guardò sbuffando, si sdraiò sul mio letto, le braccia incrociate dietro la nuca, a studiare le decorazioni del baldacchino; io, affamato, mi sbafavo senza indugi le due fette di tacchino.

    “A dicembre andremo a Amesbury, ci sarà una festa per il bambino degli Sherton. Nostra madre non voleva portarci, ma Alshain ci tiene e secondo papà è giusto che andiamo con loro, ci saranno davvero tutti. Solo che… Papà ha detto che se, prima e durante il ricevimento, non ti comporterai come si deve, non ti farà più uscire da qui fino alla partenza per Hogwarts.”

Lo guardai pensieroso, intenzionato a illuderlo che stessi ascoltando attentamente il messaggio che mi stava riferendo con tanto impegno, poi, quando vidi che era sollevato per aver eseguito il suo compito con dovizia e senza incidenti, attaccai, sputandogli addosso tutto il mio disprezzo, mischiato ai pezzetti di tacchino che avevo ancora in bocca. Lo lasciai basito.

    “Mi spieghi cosa ci guadagni a essere un ruffiano leccapiedi?”
    “E tu cosa ci guadagni ad essere un cretino? Ti piace star sempre chiuso in punizione o sei così stupido che non riesci nemmeno a fingere?”

Si era risollevato a sedere, guardandomi con i miei stessi occhi: lo disprezzavo, quando aveva ragione, quando mostrava di essere migliore di me. E ancora di più disprezzavo me stesso, perché, in fondo al cuore, avrei voluto una vita più semplice, chiudendo gli occhi e dicendo di sì. Come faceva mio fratello. Non potevo, però, fargliela passare liscia e non potevo farla passare liscia a me stesso. Era più forte di me.

    “Fammi capire: mi stai dicendo che dovrei essere un vigliacco come te?”

Mi alzai di scatto e lo squadrai con tutta la sufficienza e il disprezzo di cui ero capace, mai mi sarei piegato alla sua aria da bravo bambino. Regulus si sollevò in piedi a sua volta, mi fissò pieno di pietà, per qualche istante, mentre io gli rimandavo indietro un ghigno sarcastico, che voleva dirgli “Sei solo una femminuccia”. Fu allora che, all’improvviso, mi diede un pugno allo stomaco, senza battere ciglio, poi con la stesa calma irreale mi diede le spalle e se ne andò a stendersi sul suo letto.

    “Non mi trascinerai nel fango, Sirius! Non voglio essere una nullità, un pazzo, non voglio essere te! Io sono un Black, fiero d' essere un Black! Tu cosa sei? Cosa Merlino hai nella testa?”

Non lo ascoltavo e non pensai nemmeno a vendicarmi. Quel piccolo bastardo mi aveva colpito forte, rimasi piegato in due al bordo del mio letto per un tempo che mi parve infinito. Non immaginavo che, quando si arrabbiava davvero, potesse avere la forza di farmi davvero male, di solito lo battevo sempre io, lui mollava sempre per primo, perché non aveva abbastanza odio dentro di sé per andare fino in fondo. Non come me che vedevo in lui il modo migliore per sfogarmi di tutta la rabbia che provavo per quella famiglia che mi teneva prigioniero e mi rendeva infelice, e così colpivo e facevo male e facevo sanguinare e non mi importava niente, come se veder uscire quel Sangue, il mio stesso Sangue, mi servisse a dimostrare a me stesso che c’era vita, anche se non sembrava, in quella dannata prigione. Quel giorno, però, Regulus era diverso ed io non avevo idea di cosa fosse successo. In cuor mio sapevo che lui aveva ragione, la cosa migliore, anzi l’unica, che potessi fare per me stesso era cercare di imitarlo, tenermi lontano dai guai e sopravvivere in quella casa, almeno finché non fossimo riusciti a fuggire in Scozia da Sherton o fosse iniziata quella benedetta scuola, che m' avrebbe allontanato da tutti loro per anni, forse addirittura per sempre. Con difficoltà mi rialzai e mi lasciai scivolare sotto le coperte, senza più dire una parola; accanto a me, nel letto alla mia sinistra, sentii mio fratello rigirarsi per ore tra le sue lenzuola, incapace di trovare la pace tra le braccia di Morfeo, ma continuai a non dire nulla, era giusto che ciascuno di noi due affrontasse i propri demoni per proprio conto. Osservai la luna che si affacciava dietro le tende della nostra stanza, illuminando appena, in modo spettrale, quella che era la mia realtà, una gabbia ricca e sfarzosa, in cui nulla mi si attaccava addosso, nulla dava in qualche modo sollievo alla mia anima.
Perché ero così diverso dagli altri? Perché i discorsi di mio padre sull’importanza e nobiltà della nostra Famiglia mi annoiavano, invece di esaltarmi, com'era normale? Perché non riuscivo a provare il piacere che vedevo negli occhi di mia cugina Bella quando si commentavano allegramente le "Cacce al Babbano", anzi provavo un senso di rifiuto e disgusto? Perché non riuscivo a farmi amare da mia madre e non m' importava nulla che non mi amasse più? Mi chiedevo soltanto se m' avesse amato mai.
Una timida luce lunare illuminava appena, appoggiata sullo scrittoio, una foto scattata l’estate prima, nella nostra casa di campagna nel Cornwall: ero abbracciato a nostro padre insieme a Regulus, entrambi stranamente scarmigliati, radiosi e felici. Era una foto talmente strana per noi, che non avevo protestato quando mio fratello aveva insistito per metterla in un punto così visibile. Ci avevano permesso di fare quello che volevamo per un pomeriggio intero e noi, per una volta liberi e incuranti di tutto, avevamo corso a perdifiato per raggiungere la cima della collinetta, per poi gettarci ai piedi di una quercia centenaria. Per una volta nostro padre era stato un padre, aveva passato il suo tempo con noi e ci aveva raccontato di quando era ragazzo e come noi amava quella collina, ci insegnò che salendo fino al secondo ramo a destra, si poteva ammirare un panorama meraviglioso. Chiusi gli occhi e rividi nella mente la bellissima costa sinuosa, le barche sullo sfondo, la piccola cittadina babbana che placida si dispiegava sotto di noi, inconsapevole di tutti quegli assurdi discorsi sul sangue con cui mi ammorbavano la mente. E quella follia che m' aveva attraversato il cervello: mandare all’aria la mia vita, fuggire, diventare uno di loro, uno di quegli inutili, inferiori Babbani, che erano ai miei occhi il simbolo di tutta quella libertà che mi era tolta. Solo perché portavo un inutile, odioso, altisonante, ingombrante nome: BLACK.
Mi alzai e mi avvicinai alla foto, cercando di tornare a respirare, quei pensieri m stavano facendo fondere la testa, c’era qualcosa che non andava in me, io non potevo, no, non potevo dubitare di me e della mia Famiglia fino al punto di desiderare di essere…
   
    Merlino… A tutto c’è un limite, e quel desiderio è un chiaro indizio di follia. Devo smetterla, controllarmi, devo cercare di seguire quello che dicono i miei, cercare di imitare mio fratello. In fondo sembra più felice di me.

Presi la foto per ammirare meglio le nostre facce: eravamo davvero simili, a guardare bene c’era persino la stessa nota di follia e disperazione nascosta nei tratti aristocratici di Famiglia. Regulus era davvero più felice di me? O l’unica differenza tra noi era la straordinaria bravura di mio fratello nel dissimulare i propri sentimenti?



*continua*



NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).

Valeria



Scheda
Immagine: L'immagine che ho scelto per questo capitolo è elaborata da "My Little Brothers" che appartiene a Anne Flanders, la presi da DevianArt anni fa ma al momento non è più reperibile in rete.
  
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