Videogiochi > Kingdom Hearts
Ricorda la storia  |      
Autore: ChiiCat92    22/12/2014    3 recensioni
Piccola premessa: so che per "one shot" si intende qualcosa di relativamente breve che dia l'impressione di "un colpo" appunto...purtroppo non è il caso di questa storia; avrei dovuto dividerla almeno in due capitoli, ma è nata come un unico blocco, e non potevo davvero amputarla, quindi scusatemi per la sua lunghezza.
"- Sono Axel Sinclair, mi manda la facoltà di scienze naturali. Sono un laureando in astronomia, ha firmato lei per farmi venire qui a studiare per la mia tesi. -
Sorride il rosso, e sento il pavimento cedermi sotto i piedi.
Un laureando in astronomia?
[...]
Evidentemente dal cielo non piovono solo meteoriti, ma anche compagnie sgradevoli."
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

- L'Orizzonte Degli Eventi -

 

Benché non possa sembrare, esistono cose al mondo che suscitano il mio interesse.

Sì, non sono molte, però esistono.

Per lo più sono cose di discutibile valore intellettuale, come dice mia madre, e quasi sempre non riguardano le persone.

Non mi interessano le persone.

Il ciarlare continuo dei miei coetanei, i discorsi insensati degli adulti; considerare la razza umana con un disprezzabile rumore di fondo è troppo pretenzioso per un ragazzo della mia età, almeno così mi ha detto l'ultimo essere della mia stessa specie a cui ho dato ascolto.

Tutti gli esseri umani sono lentamente sprofondati nel baratro del mio disinteresse.

In molti hanno provato a raggiungermi, forse per curiosità scientifica, forse per un qualche aulico sentimento da super eroe. Nessuno ci è mai riuscito.

Adesso finalmente le cose vanno bene: io li ignoro, e loro mi ignorano.

È una sorta di tacito accordo quello che allontana le persone dalla mia traiettoria: sfuggono come corpi stellari esposti alla forza centrifuga.

Una delle poche cose che per me ha un valore è il cielo. Non “cielo” inteso nel suo piccolo come la cupola azzurra che ci ricopre, ma “cielo” inteso come spazio, come quantità indefinibile di stelle, pianeti, corpi celesti. Il cielo in cui riesco a trovare come complice la Luna, nelle lunghe notti passate con gli occhi fissi nel telescopio.

A volte mi chiedo se il mio posto non sia lassù, da qualche parte.

Però ormai mi è toccato vivere sulla Terra, ed è anche meglio che smetta di fantasticare su certe cose.

Anche se c'è un posto dove posso lasciarmi andare a pensieri del genere senza sentirmi...parte del genere umano e quindi debole nel provare interesse e persino amore verso qualcosa: l'Osservatorio.

Nei giorni in cui gli oneri scolastici e le pressioni familiari me lo concedono, i miei piedi si muovono autonomamente verso l'Osservatorio.

È un posto fuori mano, lontano dalla città. Per arrivarci devo prendere due autobus e farmi una lunga camminata su un sentiero sterrato.

L'allontanamento progressivo dalla civiltà mi fa sentire meglio, e gettare uno sguardo alle mie spalle e vedere la città svanire sull'orizzonte mi provoca un senso di sollievo che in poche altre occasioni riesco a provare.

Come una piccola cerimonia personale, ogni volta che passo di lì compro un gelato dal carretto all'angolo, per poi percorrere gli ultimi quattrocento metri a piedi lungo il sentiero che sale sulla collina. Dopo di che lo vedo: un'enorme struttura cilindrica che termina con una sfera, l'Osservatorio.

Di solito ci vado nei momenti liberi, per non togliere niente ai miei impegni quotidiani, ma da qualche tempo ho cominciato ad andarci per lavorare.

Non parliamo di un lavoro complicato, complesso o anche solo minimamente importante. È più un lavoro di supervisione, controllare l'attrezzatura, dare una mano a pulire e sistemare dopo le gite scolastiche organizzate, cose...normali, forse noiose.

Eppure mi sembra di respirare un po' l'aria dell'universo stando lì dentro. So benissimo che nell'universo non c'è aria ma...diamine, un'insensatezza posso concedermela.

Per di più, i rapporti umani sono ridotti all'osso e il silenzio regna sovrano: il posto ideale per qualcuno come me.

È proprio lì che le mie gambe mi portano adesso, senza neanche il bisogno di volgere lo sguardo alla strada.

Potrei dirmi...quasi felice, e solo vedendo in lontananza la cupola dell'Osservatorio.

Non è un posto granché grande, ed è solo l'ennesimo punto a suo favore: in un quarto d'ora si è visto tutto il visibile. Ma è proprio questo il bello: si può rivolgere tutta la propria attenzione alle stelle.

Prendo un profondo respiro, l'aria è talmente fredda che per un attimo il naso mi frizza e i polmoni si gelano.

Sfrego le mani tra loro e rifletto a dove potrei aver lasciato i miei guanti, di certo ne avrò bisogno ora che l'inverno è arrivato.

Stasera il carretto dei gelati non c'è, forse a causa del freddo. La cosa non mi tocca finché non ho superato l'angolo, dopo di che il mio umore comincia a scendere progressivamente, e spero che lo sciame meteorico previsto per questa notte abbia il potere di risollevarmelo.

Un angolo delle labbra mi si solleva in un abbozzo di sorriso: meteore che precipitano e bruciano nell'atmosfera che dovrebbero risollevarmi il morale. Questo è il genere di umorismo che mi piace.

Un soffio d'aria gelida mi obbliga ad abbottonare fino in cima la giacca e stringermi nella sciarpa.

Lo scalpiccio degli stivali sullo sterrato è l'unico vero rumore che si sente, escluso il fischio del vento nelle mie orecchie.

Pochi passi ancora e allungo una mano per abbassare il maniglione della porta d'ingresso dell'Osservatorio.

Il caldo improvviso quasi sicuramente mi arrossa le guance e mi viene da sbuffare: ora tutto quello che ho addosso mi sembra esagerato.

Il silenzio e la luce soffusa mi fanno sentire a casa.

- Isa, ben arrivato! -

La voce dell'anziano astronomo proprietario della struttura, il signor Sullivan, mi accoglie come ogni volta.

Anche se il mio viso non è abituato a esprimere emozioni come felicità o simili, deve in qualche modo trapelare dai miei occhi, perché lui mi sorride quando incrocia il mio sguardo.

- Buonasera a lei. Com'è andata oggi? -

- Giornata tranquilla. -

Un altro modo per dire che non c'erano state visite di nessun genere, né di persone paganti né di nessun altro.

Tolgo la sciarpa e la giacca perché non tollero più il caldo e le ripongo dietro al bancone dell'ingresso.

- Cosa posso fare? -

- Ti da noia aiutarmi con le pulizie? -

La smorfia del proprietario mi lascia intendere più di quanto lui voglia. Forse non ha avuto abbastanza soldi per pagare la ditta di pulizie questa settimana.

Gli rispondo solo con un cenno del capo e comincio subito a lavorare.

Passando lo straccio sui modellini del sistema solare rifletto che le mie giornate si susseguono in maniera cadenzata e lenta, che hanno pochi sbalzi, verso il basso o verso l'alto, momenti più o meno insignificanti, e tutte si concludono con il lavoro all'Osservatorio.

È un ciclo infinito che non riesce a stancarmi, la programmabile routine rende tutto più semplice, mi da l'impressione di avere tutto il tempo per mondo, mi fa perdere coscienza della vacuità e dell'inutilità della mia esistenza.

Non molto confortante, ma ho perso da un pezzo la forza di interessarmi anche di questo.

Saturno e Giove ora splendono, li rimetto al loro posto e forse un sorriso mi viene fuori.

- Isa! - mi giro verso il proprietario - Rimani per la pioggia di meteore? -

- Sì signore, sono venuto qui anche per questo. -

- Hai avvertito a casa? - annuisco con poca convinzione. Non è che a casa interessi molto quello che faccio, anche la mia famiglia come gli altri esseri senzienti ha imparato a starmi ragionevolmente a distanza di sicurezza. - Bene allora, preparo tutto il necessario. -

L'uomo si congeda con un sorriso. Mi sorride sempre. Forse non ha ancora capito che non mi vedrà mai fare altrettanto, non con così tanta spontaneità e leggerezza almeno.

 

Il tempo passa in fretta, tra i preparativi e le pulizie, prima che io possa rendermene conto sono già con il naso all'insù, un taccuino tra le mani e il telescopio puntato verso il cielo.

La pioggia di meteoriti dovrebbe cominciare tra breve.

La Luna è un piccolo spicchio in cielo, un occhio semiaperto che sbircia dal tessuto nero dell'universo.

Dopo il caldo dell'Osservatorio, stare fuori al gelo immobili non è proprio il massimo.

- Tieni. -

Forse mi ha letto nel pensiero: il signor Sullivan mi porge una tazza di caffè fumante. Dovrei guardarlo scetticamente, dirgli che ai ragazzini non si da il caffè, ma la notte incalza, la stanchezza infuria, il freddo si fa pungente, ed io non sono un ragazzino come gli altri. Per cui prendo la tazza e butto giù il contenuto: il miglior caffè di sempre.

Rimaniamo in silenzio a fissare il cielo. Non c'è bisogno di parlare quando non si ha niente da dire, io lo so, il proprietario dell'Osservatorio lo sa, perché prenderci in giro e fingere che ci piaccia fare conversazione?

Un sottile nastro dorato, che si spegne prima che possa dire niente, solca il cielo, e allora balzo in piedi: una meteora!

Non c'è neanche bisogno di chiederlo: corro al telescopio e lo punto subito verso il cielo, scrutandolo senza fine. Le stelle sembrano enormi, ingigantite dalla lente, e il cielo è ancora più scuro e misterioso. Incrocio quasi per sbaglio un'altra meteora e devo assumere un'espressione di puro stupore perché l'uomo ridacchia sommessamente. Cerco di mantenere un certo distacco scientifico ma...tutto questo è così bello!

Una meteora, più grande delle altre, brucia a lungo nel cielo prima di diventare piccola e quasi invisibile, ma con il telescopio vedo che un frammento si è staccato e che precipita verso terra, non bruciato dall'atmosfera. Sarà grande non più di qualche centimetro, una decina al massimo, anche se sembra enorme attraverso la lente. Lo vedo chiaramente schiantarsi...non molto lontano dall'Osservatorio.

Inarco le sopracciglia per la sorpresa, per la prima volta sento il cuore battermi fortissimo in petto per l'eccitazione.

Non aspetto minimamente che mi sia dato il permesso di andare che già sono schizzato via come un proiettile.

Un frammento di meteora è praticamente caduto nel mio giardino e dovrei starmene fermo a fare niente?

Meteorite, sì, un frammento di meteora che cade sulla terra si chiama meteorite. Nella foga del momento avevo quasi dimenticato il termine scientifico.

Mi faccio largo tra la boscaglia, forse mi graffio il viso, non riesco a pensare ad altro che a quel meteorite.

Viene dallo spazio, non riesco neanche ad esprimere quanto sia meraviglioso. Forse faceva parte di una meteora molto più grossa, di una cometa magari, che nell'orbitare intorno alla Terra si è sfaldata diventando sempre più piccola per colpa dell'atmosfera.

Chissà quanto tempo ha viaggiato, quante cose ha visto e...e c'è qualcuno nel bosco, una torcia tra le mani, che sta raccogliendo il mio meteorite.

- Ehi! -

Riesco solo a dire...e mi viene proprio dal cuore.

È in quel momento che il fascio di luce della torcia si abbassa e riesco a vedere la persona che la impugna.

Per un momento mi sembra che il tempo si sia fermato, bloccato in un istante infinito, se fosse scientificamente probabile una cosa del genere, ovvio.

Un nodo mi stringe la gola e qualsiasi forma di protesta, insulto o pensiero sensato si blocca prima di uscire a lasciare le mie labbra.

Il ragazzo che ho davanti è alto, dinoccolato, una zazzera di capelli rossi acconciati in maniera assurda incornicia un viso sottile; due gemme verdi brillanti come smeraldi sono i suoi occhi, che subito si puntano su di me facendomi sentire orribilmente piccolo. Quel viso sarebbe perfetto se non fosse per i segnetti scuri, come lacrime, tatuate in nero sulle sue guance. È vestito di nero come il ladro qual è, con un lungo cappotto, guanti e stivali abbinati.

Passato quel momento interminabile, la gola si sblocca, e tutto quello che dovevo dire si riversa su di lui come un fiume.

- Quel meteorite è mio, non lo toccare! -

Perché sembra un capriccio in grande stile? Perché la mia voce sembra in tutto e per tutto quella di un bambino?

- Ah, questo? - lui fa qualcosa che me lo fa odiare enormemente: si abbassa con grazia e raccoglie con la mano guantata il sasso ancora fumante da terra. Non più di dieci centimetri, come avevo previsto. Ma non è quello il punto. - Stavo guardando la pioggia di meteore e l'ho visto cadere quindi... -

- L'ho visto prima io! -

Pesto un piede a terra, e me ne pento subito dopo perché il ragazzo...comincia a ridere. Ride di me, ride dei miei capricci!

- Scusa, non lo sapevo. - mi lancia al volo il meteorite ed io riesco ad acchiapparlo per pura fortuna - Ecco a te. Siamo apposto adesso? - lo fulmino con lo sguardo, e spero che per lui questo sia sufficiente. Ancora ride, e lo odio, lo odio da morire! - Io sono Axel, A-x-e-l, got it memorized? E tu sei? -

Qualcuno che non darà mai il suo nome ad uno che dice “got it memorized” picchiettandosi un indice sulla fronte come se stesse interloquendo con un completo idiota.

- Non sono affari tuoi. -

Rispondo, acidamente.

Non ho bisogno di congedarmi né di ringraziarlo, quindi semplicemente giro i tacchi e faccio per andarmene. Ma come se lui non mi fosse già abbastanza odioso e fastidioso, il ragazzo mi afferra per un braccio allo scopo di fermarmi, invece quello che riesce a fare è solo farmi arrabbiare di più.

- Dove vai? È buio pesto! Lascia che ti riaccompagni. -

- No. -

Un altro capriccio, un'altra infantilità.

- Eri all'Osservatorio, vero? Ti ci riaccompagno. -

- No. -

Quale parte di “no” non ha capito? Deve essere più tonto di quanto sembra.

- Vieni, sali in macchina. -

- No! -

A quel punto provo anche a divincolarmi. Come se io salissi sulle macchine degli sconosciuti!

- Avanti, fa anche freddo. -

- No!!! -

Ma A-x-e-l Got it memorized è un ben più forte di me, e prima che possa rendermene conto mi ha chiuso la portiera della macchina praticamente sul naso.

Può trattarsi di rapimento? Non dirò mai che il caldo dell'abitacolo fa tornare a fluire il sangue sul mio viso e mi fa muovere nuovamente le dita delle mani che ora si stringono contro il meteorite vagamente tiepido.

- Ecco qui, era così difficile? - incalza lui, mettendosi al posto del guidatore. I sedili dietro sono ingombri di mappe stellare, pezzi di telescopi, astrolabi: sembra il laboratorio di uno studioso. Ma, no, non mi renderà questo psicopatico rapitore più simpatico di così. - Ah, scusa per la confusione. Te l'ho detto che stavo guardando la pioggia di meteoriti, no? -

Mi sorride, e il cuore, per qualche inspiegabile motivo, fa un tuffo in petto.

Se possibile, ora lo odio anche di più.

 

Ci vogliono dieci minuti buoni perché arriviamo all'Osservatorio. Certo, con la macchina lui è stato costretto a prendere la strada principale, mentre a piedi avrei potuto tagliare per il bosco e arrivare in meno della metà del tempo, ma questo tipo mi ha rapito, quindi.

Mi tengo ben stretto in grembo il frammento di meteora pensando alle implicazioni biologiche della cosa: sto contraendo qualche strane morbo interstellare? Potrei passarlo allo psicopatico? Ci sono tracce di vita aliena batterica nel cuore di quel sasso spaziale che sta lentamente morendo a causa della nostra atmosfera?

Tutti interrogativi che mi porterebbero ad allontanare via da me la roccia...ma invece causano l'effetto contrario.

Arriviamo davanti all'Osservatorio e appena la macchina è ferma praticamente schizzo via come se questo potesse salvarmi la vita.

Dietro di me sento solo la voce del mio rapitore che urla un “hey!”. Ma ormai sono troppo distante perché me ne interessi qualcosa.

Mi fiondo alla ricerca del signor Sullivan, con un misto di paura ed eccitazione a farmi battere forte il cuore.

Quando lo trovo ha un'espressione preoccupata che si rilassa subito.

- Sei qui! Stavo per chiedermi se non ti fossi perso... -

Commenta. Zero contatto fisico, lui lo sa, infatti ritira subito la mano con cui avrebbe voluto darmi una pacca sulla spalla.

- Il ragazzino è suo signor Sullivan? -

Oh no, eccolo. Faccio finta che la sua voce non mi causi una smorfia di disgusto.

Dentro di me qualcosa desidera lanciargli in testa il meteorite, ma dato che è troppo prezioso per sprecarlo addosso ad un idiota dai capelli rossi, tanto vale che me lo tenga stretto al petto.

- È il mio aiutante. E tu sei? -

Risponde il vecchio, con un tono autoritario e freddo che non gli ho mai sentito usare prima. Forza, gliene dica quattro a questo ladro di meteoriti!

- Sono Axel Sinclair, mi manda la facoltà di scienze naturali. Sono un laureando in astronomia, ha firmato lei per farmi venire qui a studiare per la mia tesi. -

Sorride il rosso, e sento il pavimento cedermi sotto i piedi.

Un laureando in astronomia?

Vuol dire che c'è qualcosa in quella zucca rossa?

Ma soprattutto, vuol dire che me lo troverò tra i piedi tutti i giorni?

Lancio uno sguardo accorato al vecchio proprietario, in attesa che smentisca la cosa e cacci via quest'individuo. Ma con mia sommo stupore lui invece sorride e annuisce.

- Ti aspettavo per domani, ragazzo! -

- Ho pensato che la pioggia di meteore sarebbe stato un interessante punto di inizio per la mia permanenza qui. -

Evidentemente dal cielo non piovono solo meteoriti, ma anche compagnie sgradevoli.

 

*

 

Questa mattina la mia voglia di alzarmi è pari a zero, anzi, più che altro ad un numero infinito sotto lo zero.

La scuola rimarrà chiusa per disinfestazione e normalmente sarei stato felice di uscire di casa per andare all'Osservatorio e rimanerci tutto il giorno.

Oggi no, però. No.

La sola idea di rivedere quell'idiota mi fa salire il magone e volentieri mi tirerei la coperta fin sopra la testa e rimarrei così per tutto il resto della mia vita, non solo per oggi.

La cosa peggiore di tutto questo è che è bastato solo il pensiero di lui per farmi fare dei capricci infantili che decisamente non sono da me.

- Forza Isa, tu non sei così. -

Mi dico sottovoce mentre tiro via le coperte e mi alzo.

Il sasso spaziale di ieri notte è sulla mia scrivania. Avrei dovuto analizzarlo al microscopio e poi metterlo sotto una teca ma...mi è del tutto passata la voglia di farlo.

Mi lavo e mi vesto con calma, come se questo potesse migliorarmi l'umore. È ancora abbastanza presto, per cui la casa è silenziosa, ma soprattutto vuota grazie al cielo: l'ultima cosa che avrei potuto sopportare sarebbe stata la presenza asfissiante di mia madre.

Infilo tutto quello di cui ho bisogno in una borsa e sarei anche pronto per uscire. Perdo un altro po' di tempo per fare colazione, d'altronde è il pasto più importante della giornata, no?

Anche se so che è una scusa per ritardare l'uscita da casa non mi permetto di rimproverarmi: va bene così.

Otto e mezza, non ho potuto fare di meglio. Soffro di puntualità cronica.

Mi avvio lungo la strada con le mani infilate nelle tasche del giubbotto e probabilmente un'espressione truce.

Inutile che io mi dica che sto andando a fare qualcosa che mi piace in un posto che mi piace, non funziona stamattina.

Il tragitto sembra anche più corto ora che non vorrei che finisse, e non so per quale motivo ma comincio ad odiare Einstein. Al diavolo il tempo relativo.

Quando arrivo davanti alla porta la osservo come se la maniglia fosse la linguetta di una granata.

Spingo la porta ed entro.

Silenzio.

Penombra.

Danze di pulviscoli nei fasci di luce.

Odore di universo.

Non c'è ancora nessuno, anzi, non c'è ancora lui.

Sospiro sollevato e quasi quasi mi viene da sorridere.

Però quel sollievo dura il tempo di un'illusione.

- Buongiorno piccoletto. -

È una mano quella che si infila tra i miei capelli minuziosamente pettinati e li scompiglia. Una mano che se fossi:

  1. Munito di un'arma

  2. Munito di denti affilati

  3. Munito di scarso autocontrollo

Adesso non sarebbe più attaccata alla fine del suo braccio.

Se potessi incenerirlo con lo sguardo lo farei, ma limitarsi a guardarlo come se ne fossi in grado mi aiuta comunque.

- Sei di malumore? Deve essere colpa della Luna! Si avvicina il plenilunio. -

- Lo so benissimo. -

Riesco a ringhiare, prima di rendermi conto che non so a cosa sto rispondendo o se gli sto dando in qualche modo ragione.

Lui si esprime con un sorriso ebete che mi causa una potente reazione allergica all'organo del quieto vivere.

Lo scosto malamente e mi dirigo a passo marziale al bancone per togliermi la giacca e la borsa.

Ho deciso che fingerò che non esiste.

Mi sento i suoi occhi addosso per tutto il tempo e mi dico che non è il caso di perdere la pazienza per mandarlo a quel paese. Dobbiamo convivere tutto il giorno e non ho intenzione di farmi venire un'ulcera.

- Ieri sera non mi hai detto come ti chiami. -

E cosa ti fa pensare che te lo dico oggi?

Mi esprimo solo inarcando un sopracciglio: uno spasmo involontario dei muscoli facciali.

- Dai su, per un po' devo rimanere qui, come dovrei rivolgermi a te? -

Infatti non ti devi rivolgere a me in alcun modo per nessuna ragione.

Di nuovo, un altro spasmo involontario.

- Guarda che ho capito che non ti sto simpatico, ma almeno fingiamo di andare d'accordo? -

Non è mio interesse impegnarmi in un caso perso.

Stavolta arriccio il naso in una smorfia.

Temo che tutte queste reazioni non controllate siano per lui come una risposta da parte mia alle sue domande.

Non mi riesce proprio di ignorarlo, forse perché ho capito che è così insistente che si arrenderà solo quando avrà avuto quello che vuole.

- Isa. -

Rispondo, e per come l'ho detto sembra grondare veleno da ogni lettera. Fortuna per lui che sono solo tre, altrimenti ci sarebbe potuto rimanere secco.

- Okay, Isa, l'ho memorizzato. -

Buon per te, perché non te l'avrei detto una seconda volta.

La cosa peggiore è che mi sorride, mi sorride mentre mi volta le spalle e torna a quello che stava facendo, e quel sorriso mi piace.

 

Per tutto il giorno resisto alla tentazione di fare una scenata infantile di frustrazione solo perché non è decisamente nel mio carattere, ma qualcosa in Axel (e solo pensare al suo nome, a lui, qualsiasi cosa lo riguardi mi fa venire l'orticaria) mi costringe ad essere...diverso dal solito.

Io non l'ammetterei mai, no, neanche morto, ma è stato il signor Sullivan a farmelo notare.

È successo più o meno verso l'ora di pranzo.

Come sempre ho ignorato i gorgoglii del mio stomaco e ho continuato a lavorare, conscio del fatto che il signor Sullivan mi avrebbe portato qualcosa e avremmo mangiato insieme come succede ogni volta che rimango qui per pranzo. Ma questa volta non è stato lui a pensarci, è stato Axel, forse mandato in missione spaziale al Mc Donald's o chissà che. In ogni caso, è tornato con una serie di pacchi e un'espressione soddisfatta da donnina di casa che mi ha tolto ogni desiderio di mangiare. Forse è vero, sono una persona abitudinaria, ma quando ho visto quel rosso impormi il pranzo deve essermi partito un tic nervoso all'occhio, accentuato dal fatto che lui mi ha riso in faccia. Avrei dovuto dire la mia, insultarlo, farmi valere, e invece ho chiuso la bocca e per stizza ho svuotato il piatto.

È stato questo a far dire al signor Sullivan che gli sembravo diverso, che il mio comportamento non era il solito.

È stato questo a farmi pensare: che sta succedendo?

Forse me ne sarei dovuto accorgere.

 

Proprio quando scende la sera e le stelle cominciano ad essere visibili ad occhio nudo, so che il tempo a mia disposizione da passare all'Osservatorio è finito.

È sempre una fitta al cuore andarmene, proprio nel momento in cui potrei osservare l'universo.

Non che conti, ma mia madre sa che tornerò per cena, e non per essere pignoli ma io rispetto la parola data.

Per cui, anche se con il morale sotto i piedi e la testa dolorante (mi sono trattenuto troppo dall'urlare in faccia ad Axel) comincio a preparare le mie cose. Non c'è molto da fare, giusto infilare il taccuino nello zaino e recuperare la giacca, ma cerco di far durare quel processo il più a lungo possibile.

- Non hai voglia di tornare a casa? -

Da quando in qua sono diventato un libro aperto e, soprattutto, chi gli ha dato il permesso di leggermi?

Mi volto solo per lanciare un'occhiataccia al rosso che, sì, mi sta guardando, e chissà da quanto.

Perché non me ne sono accorto prima?

- Non sono affari tuoi. -

Rispondo, con il tono di chi potrebbe cominciare ad urlare istericamente da un momento all'altro.

- Neanche a me va molto di andarmene. - continua lui, come se non avessi detto niente, cosa che mi fa ripartire il tic all'occhio - Ehi, che ne dici se andiamo a mangiare qualcosa insieme? -

All'improvviso sembra illuminarsi come un bambino davanti ad un regalo di compleanno.

Lo guardo malissimo, con le sopracciglia aggrottate tra loro. Chiunque al suo posto sarebbe già fuggito lontano dall'esplosione nucleare che sto per scatenare.

- Non penso proprio. -

Riesco a dire tra i denti.

- Sarà divertente, non ho ancora visto la città! Potresti farmi fare un giro. -

- Quale parte di “non penso proprio” non hai capito? -

Cerco di parlare lentamente. È evidente che questo tipo deve essere cerebroleso, altrimenti non riesco a spiegarmi il suo comportamento.

A riprova di questo, lui scoppia a ridere scuotendo la testa.

- Sei una sagoma ragazzino. Allora, andiamo? -

Si sta infilando la giacca.

Si. Sta. Infilando. La. Giacca.

 

Non so com'è successo.

Non me lo ricordo.

Voglio fare finta di niente.

Axel è riuscito a trascinarmi in macchina, e poi in città, e poi in un baretto davanti al quale sono sempre e solo passato senza mai fermarmi, e poi mi ha fatto sedere, e poi mi ha fatto portare una coca cola.

E poi...

Sta per venirmi un esaurimento nervoso.

Lui sorseggia tranquillamente il suo cocktail alcolico, e per una volta sono invidioso di non avere ancora l'età per bere. Né tanto meno l'apparenza fisica per poter fingere di averla.

- Allora, vai a scuola? -

Mi chiede all'improvviso.

Voglio staccargli qualcosa a morsi. Un dito magari, o l'intera mano. O il braccio.

Ecco che riparte il tic all'occhio.

- Possiamo saltare i convenevoli? -

Rispondo, appena più acido del solito. Ma lui se ne rende conto? Assolutamente no.

- Quindi non ti piace andarci. -

Mi massaggio con lentezza gli occhi con indice e pollice, contando fino a dieci per evitare di insultarlo.

- Senti. - con calma Isa, non farti tremare la voce - Tu non mi piaci, e mi hai praticamente rapito. Per la seconda volta. Bevi quello stupido cocktail e accompagnami a casa, okay? -

Axel sospira e mette il broncio.

- Cercavo solo di essere gentile. -

- Hai scelto il modo sbagliato. -

Lui rigira la cannuccia dentro il bicchiere, il ghiaccio tintinna, mezzo sciolto.

- A me tu piaci. -

Lo dice a testa alta, senza che gli occhi di smeraldo che ha siano persi chissà dove. No, per dire quell'unica frase li ha fissi su di me.

Mi sento andare a fuoco e per istinto di sopravvivenza abbasso la testa sul bicchiere di coca.

Perché adesso il cuore mi batte tanto forte?

- È un problema tuo. - non risponde, allora mi arrischio ad alzare lo sguardo. Mi sta ancora fissando. - Smettila di guardarmi così. -

- Scusa. -

Da in una risatina fastidiosa e continua a bere.

Quando finalmente non c'è più niente nel suo bicchiere, si alza e va a pagare, costringendomi ad essere in debito con lui perché mi ha offerto la coca.

Non parla neanche per tutto il tragitto dal bar alla macchina.

Forse l'ho offeso.

Forse mi sento in colpa.

Forse dovrei odiarlo ancora di più per questo.

Mi mordicchio nervosamente le labbra. Quel silenzio mi infastidisce più della sua noiosa parlantina.

Ma non sarò certo io a romperlo.

 

- Grazie. -

Una parola che raramente lascia le mie labbra.

Ma alla fin fine mi ha riaccompagnato a casa, non posso non ringraziarlo, sono una persona educata, io.

- Posso chiederti un favore? -

Ecco, vuole giù che ricambi per la coca che mi ha offerto. Dio come odio essere in debito.

Però tornare a sentire la sua voce mi fa stranamente sentire meglio.

- Dimmi. -

- Posso usare il tuo bagno? -

Una scusa come un'altra per infilarsi in casa mia.

- Sì, certo. -

Commento, atono.

Stacca le chiavi dal quadro e scende.

È mia impressione o è un po' pallido?

Ma perché lo sto guardando!

Distolgo lo sguardo e apro la porta di casa.

- Mamma? Sono qui. -

Ma lei non c'è: la casa è buia. Accendo la luce dell'ingresso e accanto al telefono vedo subito il suo bigliettino.

Scusa per la cena, ti ho lasciato qualcosa nel frigo. Torno tardi, non aspettarmi alzato.”

Lo appallottolo solo perché il rosso non deve sapere che il suo rapimento non avrà conseguenze.

- Il bagno? -

Ammetto di aver quasi dimenticato che Axel era alle mie spalle.

- Seconda porta in fondo a destra. -

- Grazie. -

Mentre lui è di là, io tolgo la giacca e sistemo in giro. Che disgraziata mia madre, ha lasciato tutto in disordine.

 

Dieci minuti dopo, Axel non è ancora uscito dal bagno.

Ma che diamine sta facendo?

Sbuffo, dando un'occhiata all'orologio, un'occhiata fulminante che avrebbe potuto incenerirlo. Ma d'altronde non è colpa sua, me la risparmio per Axel.

Vado a bussare alla porta.

- Sei caduto nel gabinetto o cosa? - nessuna risposta - Axel? - ancora niente.

Un gelida sensazione mi attanaglia lo stomaco.

Spero che non abbia chiuso la porta a chiave.

Quando la spalanco e lo trovo steso a terra privo di sensi, il mio cuore si ferma.

Per un istante non riesco a capire nulla, poi torno lucido e corro a sollevarlo.

Dio se è pesante.

- Axel? Axel! -

Provo a scuoterlo ma niente. Gli poggio una mano sulla fronte. Scotta! È pallido come un fantasma.

Comincio ad avere seriamente paura. Un nodo alla gola non mi permette di respirare e il cuore mi batte talmente forte nelle tempie che non riesco a pensare.

Probabilmente agisco d'istinto e mosso dall'adrenalina: sollevo il corpo esanime di Axel più che posso e trascino entrambi nella mia stanza. Lo butto malamente sul letto e corro a prendere dell'acqua fresca e un panno.

Vedo tutto come se qualcun altro lo stesse facendo al mio posto, perché io non sarei in grado di farlo. Il ragazzo che riempie la bacinella, bagna il panno e lo passa sul volto bianco di Axel, sono indubbiamente io ma...non mi riconosco.

- Axel, giuro su Dio che se mi stai prendendo in giro ti ammazzo con le mie stesse mani. - riesco a mormorare mentre appoggio il panno freddo sulla sua fronte - Ti prego...svegliati. -

Provo a dargli qualche colpetto sulle guance, lo scuoto ancora.

Sembra morto.

Dio.

Non voglio che sia morto.

 

Venti interminabili minuti dopo, lui riapre gli occhi, ed io sento le gambe molli non reggere più il mio peso.

Scivolo in ginocchio per terra, prendendo grandi boccate d'aria.

- Che è successo? -

Biascica lui, gli occhi smeraldini ancora confusi.

- Dovresti dirmelo tu, idiota! -

Ma neanche la mia voce riesce ad essere aggressiva come vorrei.

Lui si tocca la fronte e lentamente sembra tornare consapevole di quello che gli è capitato, tanto che fa una smorfia infelice e si tira su a sedere.

- Devo andare. -

Cerca di alzarsi e allora sgrano gli occhi.

Riesco a scattare in piedi e impedirgli di muoversi, spingendolo nuovamente giù.

È davvero così debole da farsi fermare da un ragazzino tutto pelle e ossa come sono io?

- No, tu non vai da nessuna parte. Ti ho appena trovato svenuto sul pavimento del mio bagno, non ho intenzione di lasciarti andare. -

Axel abbozza un sorriso e chiude gli occhi.

- Non avrei mai voluto che assistessi... -

Non mi da modo di chiedergli spiegazioni, perché scivola nel sonno.

 

Quando arriva il giorno e mi rendo conto di essermi addormentato al capezzale di Axel, mi sento così stupido che vorrei urlare.

Però poi il buon senso mi obbliga a controllare le sue condizioni. Fortuna che sta ancora dormendo.

È ancora molto pallido e la fronte scotta ancora, ma sembra più sereno e il respiro è regolare.

Mi piace pensare di aver scongiurato la sua morte.

Tiro un sospiro di sollievo.

Ancora una volta bagno la pezza che ha sulla fronte e dopo averla strizzata la poggio sulla sua pelle accaldata.

Intanto penso a quale scusa elargire a mia madre per la presenza di quell'ospite indesiderato.

Eppure, tendendo l'orecchio, non riesco a cogliere nessun rumore. Che sia andata a lavoro?

Lo desidero così tanto che non mi accorgo che Axel ha aperto gli occhi e mi fissa.

Improvvisamente mi sento avvampare e abbasso lo sguardo.

- È già mattina? -

Chiede, la voce appena appena arrochita.

- A quanto pare. -

- Sei rimasto a vegliarmi tutta la notte? -

No. Sì. Forse. Qualsiasi risposta sembra possa ritorcersi contro di me.

Se rispondo “no”, come d'altronde è vero, dato che ad un certo punto mi sono addormentato, lui crederà che sto facendo l'orgoglioso e che la risposta è “sì”; se rispondo “sì”, avrò di che vergognarmi; “forse” è praticamente un “no” che è praticamente un “sì”.

Black out.

Perché non riesco più a pensare in maniera logica?

- Grazie. - dice lui, senza che io abbia risposto alla sua domanda. Farfuglio qualcosa, qualcosa che non so neanch'io cosa sia, mentre lui si alza, lentamente. - Me ne vado subito, ti ho dato già troppi grattacapi. -

- No, non se ne parla. - Isa, svegliati, lo stai invitando a restare? Ma che ti è presto! - Hai la febbre alta. -

- Lo so, non è un problema. -

- Sei svenuto! -

- Neanche quello è un problema. -

- Devi mangiare qualcosa prima di andare. -

Axel riflette per un attimo, gli occhi bassi e un'espressione seria sul volto. Quando alza la testa, però, ha un gran sorriso sulle labbra. Un sorriso vittorioso.

- Che gran cambiamento, prima non ti piacevo, ora ti prendi cura di me. -

- Continui a non piacermi. - rispondo di slancio e, Dio, spero che il mio viso tutto rosso sia comunque abbastanza credibile - Vorrei solo evitare di essere accusato di omissione di soccorso e omicidio. -

- Se è possibile vorrei un caffè. -

Odio il suo sorriso. E il modo in cui sorrido io dopo aver girato le spalle.

 

*

 

Anche se Axel è andato via, per tutta la mattinata non riesco a non pensare al suo malessere, al fatto che è uscito con la febbre, e alla sua camminata barcollante mentre mi diceva “Sto bene, ci vediamo stasera all'Osservatorio, got it memorized?” e imboccava la porta di casa.

Perché non riesco a togliermelo dalla testa?

Sono ancora preoccupato.

Sì.

La cosa mi preoccupa più della mia preoccupazione per lui.

Sì.

Mi sento impazzire.

Sì.

Sono contento che mia madre sia già andata al lavoro e che non abbia dovuto dare spiegazioni per la presenza di Axel, ma continuo ad essere preoccupato per lui.

Magari è solo un'influenza, gli basterebbe stare a casa qualche giorno per riprendersi. E allora perché non lo fa?!

Deve essere stupido, non c'è altro.

Passo il resto della giornata costringendomi a pensare ad altro, tanto che mia madre si stupisce quando gli chiedo come è andata al lavoro.

Più si avvicina l'ora di andare all'Osservatorio, più mi sento in ansia.

Provo a leggere qualcosa, studiare magari, ma...niente.

Non ho neanche il dannato numero di quel dannato Axel per poterlo chiamare e accertarmi che stia bene.

Lo odio.

 

Senza accorgermene, o forse me ne accorgo eccome e non voglio arrendermi a questa consapevolezza, percorro gli ultimi cinquanta metri correndo.

Spalanco la porta dell'Osservatorio con entrambe le mani e urlo un “Buona sera!” che non è proprio nelle mie corde.

Il signor Sullivan si affaccia da una saletta adiacente e mi sorride.

- Buona sera a te Isa, sei un po' in anticipo. - oh, accidenti, dovevo aspettare e non correre quei cinquanta metri - Stasera verrà una scolaresca, te la senti di fare da guida? -

- Certo, non c'è problema. -

Ma non è quello che volevo sapere. I miei occhi saettano qua e là alla ricerca di un ciuffo di capelli rosso fuoco.

- Se te lo stai chiedendo, Axel non verrà stasera. - ahi. Un colpo al cuore. Mi massaggio il petto involontariamente. - Allora, ci mettiamo a lavoro? -

Riesco solo ad annuire.

 

Perché mi ha detto che ci saremmo visti stasare e poi ha chiamato Sullivan per dire che non sarebbe venuto?

Perché mi ha mentito così spudoratamente?

Non voleva farmi preoccupare?

Però così è anche peggio: l'ansia mi attanaglia lo stomaco e lo stritola con forza.

Sono abbastanza padrone di me stesso da riuscire a controllare le mie espressioni e il tono della mia voce, così che i ragazzini delle medie che mi stanno davanti non si rendano conto di quanto sia in realtà turbato.

- E qui si conclude il nostro giro. -

Un lunghissimo, lunghissimo giro durato mezz'ora.

I ragazzini cominciano a parlottare tra di loro mentre l'insegnante mi ringrazia.

Sfibrato, stanco, con i nervi a pezzi, rivolgo un cenno all'insegnante e cerco il signor Sullivan.

Lo trovo mentre ricalibra il telescopio nell'ala principale dell'Osservatorio.

- Uh...per caso...Axel ha detto perché non sarebbe venuto? -

Non penso neanche a quello che ho appena chiesto, lascio stare l'orgoglio: il dolore allo stomaco è troppo forte, ho bisogno che lui mi dia una buona notizia con cui curarlo.

- Sì, non si sentiva molto bene, ha detto di avere la febbre, qualcosa del genere. -

Certo, per il signor Sullivan non è così grave.

Un'influenza, niente di che, qualcosa che passa dopo una notte di sonno.

Lui non l'ha visto sdraiato sul pavimento del bagno privo di sensi.

Mi mordo nervosamente il labbro inferiore e guardo altrove mentre lui mi dice quasi sottovoce:

- Vuoi che ti dia il suo indirizzo? -

Il mio capo si muove appena in un cenno affermativo, e prima che possa pentirmene mi viene infilato tra le mani un bigliettino di carta.

 

Fermo davanti a quella che presumibilmente è la porta di casa di Axel, rimango un attimo titubante.

Dovrei suonare il campanello, ma non riesco a tirar fuori le mani dalle tasche della giacca.

Respiro piano, cercando di calmarmi, anche se il cuore batte comunque furioso dentro il petto.

Dlin dlon.

Il suono si espande per tutto l'appartamento del secondo piano e, a quanto sembra, per tutto il pianerottolo: c'è l'eco o è solo mia impressione?

Non sento alcun movimento all'interno, né qualcuno che urla “arrivo!” come fanno certe persone.

Niente, niente di niente.

Il pensiero che lui possa non essere in casa non mi sfiora neanche per un attimo, penso solo che mi sta ignorando, e la cosa mi fa del tutto passare quello spirito da buon samaritano che mi ha spinto fino a casa sua.

Suono ancora, e ancora una volta non ricevo risposta.

Comincio a sentirmi stupido. Forse davvero non è in casa.

È un fruscio quello che mi fa cambiare idea, un fruscio leggero di qualcuno che si avvina alla porta lentamente e sbircia dallo spioncino.

Sento la rabbia inondarmi le vene.

- Axel, lo so che sei lì. - e che mi stai spiando - Aprimi! -

Come vorrei sfondare la porta a calci e pugni e poi saltare al collo di quell'idiota e farlo a pezzi a mani nude.

Passano minuti interminabili, in cui ammazzo Axel nei modi più fantasiosi nella mia mente, poi si sente un clack e la porta finalmente si apre.

Non perdo tempo e prima che lui possa cambiare idea mi infilo dentro, spingendolo da un lato.

- Sei così stupido da pensare che non sarei venuto a cercarti? -

- Pensavo di non piacerti. -

- Non mi piaci ma non ti voglio morto! -

Sì, lo ammetto, poco fa l'ho ucciso mille volte nelle me fantasie ma un conto è pensarlo...un conto metterlo in atto.

Sto per sbraitargli qualcos'altro contro quando mi rendo conto che...io non sono avvezzo a scenate di rabbia come quella e che davvero sembro cambiato.

Perché lui mi spinge a tirare fuori i miei sentimenti in quel modo?

Apro la bocca per dirgli qualcosa ma poi vedo le lacrime che bagnano i suoi occhi, la pelle d'ora, i capelli scarmigliati.

- Axel? Che cosa... -

Non riesco a dire altro: lui mi ha già abbracciato forte.

 

Vedo una persona del tutto diversa, adesso, e non posso che rimanere sul chi vive.

Axel non è quello che pensavo.

Abita da solo in quell'appartamento, che è tutto imbottito di lui: c'è lui nel colore rosso acceso delle tende e dei divani, c'è lui nei libri di astronomia che riempiono fino allo stremo due librerie nel salotto, c'è lui nel disordine ordinato delle carte sullo scrittoio.

Ma non lo riconosco nella fragilità e la riservatezza che sta mostrando adesso.

D'altronde non posso neanche dire di conoscerlo. Le uniche occasioni che ho avuto per creare qualcosa che fosse simile anche ad un rapporto tra noi le ho sprecate odiandolo e rispondendogli male.

Questo non fa che farmi sentire in colpa, tanto che mi mordo a sangue le labbra per l'ennesima volta.

- Scusa, sono un pessimo ospite. - commenta lui, con la voce bassa - Posso...offrirti qualcosa? -

Perché mi tratta tanto bene quando sa che non riceverà lo stesso trattamento da me?

- No. Niente. -

Il tono della mia voce è appena più duro di quello che vorrei, e il suo modo di incassare il colpo è da vero guerriero.

Mi si stringe il cuore.

Sento ancora addosso il contatto con il suo corpo, troppo caldo per poter essere normale, e mi sembra che ci sia più freddo adesso, più di quanto una persona possa sopportare.

Rimango seduto su una sponda del divano cercando di non avvicinarmi troppo. Non voglio diventare dipendente dal suo calore.

- Mi spieghi che cosa ti è successo veramente? -

Lui fissa un punto indefinito di fronte a sé per un attimo, poi sospira.

- Non è niente. -

Axel, per cortesia.

Non lo dico, ma il mio sguardo parla chiaro.

Lui strofina gli occhi stanchi con il dorso della mano.

- È solo un'influenza. -

Me lo sto ripetendo da ieri sera, anche per il signor Sullivan è così.

Però sappiamo tutti e due che è una bugia.

- Per un'influenza piangi come una femminuccia? -

Questo, è un altro aspetto di Axel che non conoscevo.

Mi guarda così duramente che mi sento irrigidire.

Ogni scintilla di cordialità si è spenta nei suoi occhi. Se prima avevo pensato di avere freddo, ora so cos'è il vero freddo.

- Non sono affari che ti riguardano ragazzino. -

- Io non... -

Io non...cosa?

Non riesco a trovare niente di meglio da dire con il cuore congelato.

- Grazie per essere passato. Adesso puoi andare. -

Ho superato il limite.

Me lo ripeto mentre mi alzo, bruscamente, come se qualcosa di velenoso mi avesse morso, mentre mi avvio alla porta, mentre guardo ancora il suo sguardo di ghiaccio che mi fissa con astio.

Ho superato il limite invalicabile e invisibile che lui si è dato.

E neanche riesco a chiedergli scusa.

*

 

Talvolta crediamo che il vuoto dentro di noi sia così grande da poterci inghiottire.

Basterebbe alzare lo sguardo al cielo per capire che il vuoto, il vero vuoto, si trova nell'universo ed è grande 250 milioni di anni luce.

Vi si trova una quantità di galassie che si conta sulla punta delle dita.

Nel Grande Vuoto non brillano neanche le stelle.

Eppure, non riesco a considerarlo.

Il vuoto è quello che sento nel petto non quello che si trova lassù, nascosto nel manto scuro del cielo.

Non faccio che pensare e ripensare ad Axel, al suo sguardo ferito e freddo.

E penso anche a quell'abbraccio che mi ha rubato, e al calore troppo elevato del suo corpo.

Sorge in me spontaneo il desiderio di tornare da lui, di chiedere scusa, di...di essere stretto ancora a lui.

Sono il mio orgoglio e il mio finto menefreghismo che mi impediscono di farlo.

Per questo passo i tre giorni successivi senza andare all'Osservatorio, rimanendo in casa ad oziare nel mio piccolo grande vuoto.

La scuola è ancora chiusa, non ho neanche quello per distrarmi.

È come se l'Universo volesse che rimanessi in un limbo senza scampo.

Perché affrontare me stesso non è neanche lontanamente un'opzione da prendere in considerazione.

- Non vai neanche oggi? -

Quasi salto in aria.

Non l'ho neanche sentita entrare!

Mia madre. Mia madre che supera il “do not enter” impresso a fuoco sulla porta della mia stanza.

Ed io. Io che non l'ho neanche fermata.

Sono cambiato a tal punto?

Lei si siede sulla sponda del letto più lontana da me.

- No. -

Rispondo, stringendomi le gambe al petto come a voler mettere ancora più distanza tra me e lei.

Purtroppo per me, so dove deve andare a parare.

- Perché no? -

- Mamma. -

È il primo avvertimento, come un colpo che si spara da una nave.

- Tu ami l'Osservatorio, perché hai smesso di andarci? -

- Non ho niente da fare lì, il signor Sullivan se la cava benissimo anche senza di me. -

Lei sospira, il sospiro di chi non capisce.

- Vabbè. Fa' come preferisci. Comunque di là c'è qualcuno per te. Dice che viene da parte proprio di quel signor Sullivan che se la cava benissimo senza di te. -

È un attimo, così veloce che non riesco neanche ad accorgermene.

Vorrei urlare qualcosa come “perché non me l'hai detto prima!” ma l'unica cosa che faccio è scattare come una molla e correre in salone.

Quando è arrivato?

Non ho sentito suonare il campanello.

Perché è qui?

Ah, mi manca l'aria.

- Ciao Isa. -

Il suo sorriso, il sorriso di Axel, mi fa venire i brividi su tutto il corpo. Il ricordo del suo calore però li contrasta, e in un secondo sento un caldo terribile.

Sono arrossito?

- Axel. -

- Sì, è il mio nome, non sciuparlo. -

Mi mordo le labbra e abbasso gli occhi. Mi sento così stupido e così a disagio che non so dove mettere le mani.

Mi sento ingombrante, goffo, e tutto il calore del suo sorriso sta lentamente riempiendo il vuoto dentro di me.

- Scusa. -

Dopo “grazie”, “scusa” è di certo la seconda parola che meno uso.

Strano pensare che le ho rivolte entrambe a lui.

Scuote la testa e i capelli rossi seguono il movimento.

Vuole tacitamente farmi intendere che mi perdona?

E perché questo spasmodico bisogno di saperlo mi corrode dentro?

- Non ti piaccio a tal punto da costringerti a non venire all'Osservatorio? -

Commenta, e tutto quello che avevo pensato di desiderare da lui (un abbraccio, il perdono, il suo calore) svanisce in un istante.

Metto su un'espressione truce e sento chiaramente la mascella contrarsi.

- Non è mica per te che non sono venuto. -

Ah no?

Isa, hai la faccia di uno che mente!

Lo sai da solo senza bisogno che te lo dica la sua di faccia, ora contratta nel tentativo di trattenere una risata.

- Bhe, allora non avrai problemi a venire con me adesso, vero? -

- Ovviamente. -

Con passo marziale torno nella mia stanza, sotto lo sguardo divertito di mia madre (con lei me la vedrò dopo). Infilo tutto quello che posso nello zaino, ignoro la mia immagine riflessa nello specchio (l'orribile immagine di un ragazzino rosso in volto fino all'attaccatura dei capelli) e indosso la giacca, pronto per uscire.

- Pronto? -

- Non si vede? -

Se lui ha impiegato tre giorni per ricostruire il muro che lo circonda, a me sono bastati due minuti per scordarmi com'è davvero sotto la maschera perennemente allegra che indossa.

 

Sto lucidando un mappamondo quando vedo Axel ronzarmi intorno.

Lo inquadro solo con la coda dell'occhio, rimane ai margini del mio campo visivo...ma lo vedo.

Finge di scrivere qualcosa su un quadernino rosso, ma si avvicina sempre di più.

Mi viene da fare una smorfia e cerco di rendere il continente europeo più lucido e splendente che posso.

Appena alzo lo sguardo cercando di vedere se il rosso ha davvero intenzione di giocare ad “un, due, tre, stella”, mi rendo che non c'è più.

Aggrotto le sopracciglia e alzo la testa, è in quel momento che lui mi salta davanti urlando “bhu!”.

Mi è sgattaiolato alle spalle senza che lo vedessi, talmente tanto mi ero concentrato sul mappamondo.

La mia inevitabile reazione è quella di lanciare un urlo spaventato e farmi cadere di mano il panno umido con cui stavo pulendo; la sua, è quella di scoppiare a ridere come un deficiente.

- Ma sei stupido o cosa! -

- La tua faccia, avresti dovuto vedere...la tua faccia! -

E continua a ridere. Stringo così forte il panno che sento l'acqua gocciolarmi sulla mano.

- Stupido. -

Biascico tra i denti, arrabbiato come non mai.

- Oh, dai! - si asciuga una lacrimuccia con il dorso della mano - Hai fatto di tutto per ignorarmi, eh? Mi avevi visto! Così mi sono vendicato. Ora siamo pari. -

Sto per ribattere, ma capisco cosa intende, per cui ingoio il rospo, per l'ennesima volta.

- Cosa vuoi? -

- Mi chiedevo se ti andava di fare il bis stasera. -

- Intendi andare fuori a bere e poi vederti svenire e stare male a casa mia? -

Per un attimo sembra che incassi il colpo come un vero lottatore e mi sento una tale brutta persona che qualcuno dovrebbe punirmi subito, però poi sorride e scuote la testa.

- Solo la prima parte. -

- Io non bevo. -

- Quanti anni hai? -

- Diciassette. -

- Moccioso. -

- Molestatore. -

Il serrato scambio d frecciatine termina quando i suoi occhi verdi brillano e mi si mozza il fiato in gola.

Perché quell'espressione?

E perché mi fa tanto effetto?

- Okay niente alcool. Andiamo a mangiare giapponese, che ne pensi? -

- Offri tu? -

Alza gli occhi al cielo.

- Sì, offro io. -

- Allora va bene. -

Perché è una questione di soldi, no?

Dovrei cenare comunque in qualche modo, da qualche parte, ed è tanto tempo che non mangio al giapponese.

Sembrano delle giustificazioni talmente valide che alla fine ci credo anch'io.

 

- Itadakimasu! -

Guardo Axel come se fosse un idiota mentre congiunge le mani tra loro e prende le bacchette, cominciando a mangiare.

Io non ne sono in grado, per cui opto per la forchetta, decisamente più collaborativa.

- Sei giapponese o cosa? -

- Solo un amante della cultura nipponica. -

- Per non dire un nerd... -

- La parola sarebbe “otaku”. -

Sollevo un sopracciglio e lo guardo. Lui arrossisce e abbassa gli occhi sulla sua ciotola.

Mi sfugge un sorrisetto. Mi piace l'idea di aver trovato un suo punto debole.

- Otaku, va bene. -

Ma chiaramente il mio tono di voce è sarcastico.

Lui brontola qualcosa, dopo di che affonda il viso nel suo piatto nel tentativo di nascondere l'imbarazzo, ma così facendo si sporca le guance e il naso di curry; l'unica cosa che mi riesce a fare è...ridere.

Non avevo mai riso in presenza di qualcuno, soprattutto qualcuno che mi è così...difficile da sopportare.

Per questo mi porto subito una mano alla bocca, terrorizzato.

Cos'è, ho la febbre?

Ho contratto qualche strano morbo spaziale dal meteorite?

Lo sapevo, dovevo analizzarlo prima di portarlo in camera!

Axel sorride, con quella faccia tutta imbrattata di cibo che mi verrebbe solo da prendere a schiaffi.

- Allora ce l'hai un cuore, credevo che fossi fatto di pietra! -

Adesso tocca a me sentirmi in imbarazzo, ma stavolta non abbasso lo sguardo, anzi, gli rivolgo una delle mie terribili occhiate...motivo per cui non riesco a capire perché sia ancora vivo e con il sorriso stampato sulle labbra e non agonizzante per il dolore: doveva essere un'occhiata terribile.

Decido di ignorarlo mentre finisco il mio riso al curry sentendo sapore di cartone in bocca per la stizza.

- Vuoi? -

Guardo solo per un secondo la bottiglia scura che tiene tra le mani.

- Che è? -

Come se non mi fidassi di prendere qualcosa da lui.

- Sake. -

Rifletto solo per un attimo. Non ho idea di cosa sia, ma non voglio dargli la soddisfazione di farglielo capire, quindi allungo il bicchiere per farmelo riempire.

Immediatamente colgo il forte e scoraggiante odore che viene dalla bevanda e mi chiedo se per caso Axel non voglia uccidermi.

- Non sarà mica alcolico. -

- Abbiamo detto niente alcool, no? -

Non fidarti Isa, non fidarti.

Mando giù il contenuto del bicchiere in un sorso solo.

 

Ci sono due modi di guardare la Terra: con i piedi ben saldi sulla sua superficie, credendo per tutta la vita che si tratti di un mondo piatto, oppure dallo spazio, osservandola nella sua reale rotondità.

Essere ubriachi funziona più o meno alla stessa maniera. Ci sono due modi di vederla, uno è quello di chi lo vive in prima persona e si convince che va tutto bene, l'altro è quello di chi lo vede da fuori e capisce come stanno realmente le cose.

Dovrebbe essere questa la situazione mentre Axel mi regge, aiutandomi a camminare, ed io mi convinco che la nausea, i giramenti di testa, e il mio continuo ciarlare non siano colpa dell'alcool.

Non so neanche cosa di preciso gli sto raccontando e cosa gli ho già raccontato, so solo che sento la lingua sciolta e il corpo leggero.

Eppure non mi riesce di camminare...è una cosa comica.

Lui, al contrario, sembra perfettamente a suo agio. Lo vedo muovere le labbra, ma non mi arriva alcun suono: ho le orecchie piene del battere furioso del mio cuore.

Quando sento che la prospettiva del mio mondo cambia da verticale a orizzontale capisco che Axel deve avermi fatto stendere da qualche parte.

Con le mani tasto la consistenza di lenzuola fresche: un letto.

Meravigliosa invenzione.

Lui si stende accanto a me. Ha il viso un po' rosso, ma ora come ora per me tutto quanto è rosso: i suoi capelli, il suo volto, la sua stanza, le lenzuola, tutto! Tutto tranne i suoi occhi, che sono più verdi che mai, troppo verdi, un verde da nausea.

Ah, sento salire un conato di vomito.

Stupido Axel, è colpa sua se sono ridotto così. Dovrei vomitargli addosso.

Purtroppo per me e per fortuna per lui la nausea si ritira.

La stanza gira, mi sembra di sentire all'improvviso la rotazione della Terra.

Gira, gira, gira, gira.

- Scusa, non avrei dovuto farti bere quella roba. Non pensavo che ti avrebbe fatto quest'effetto. -

- Sei un idiota, non avevo mai bevuto prima. -

Mugugno io, per fortuna mi mantengo abbastanza lucido per non aver perso il dono della parola.

Lui si esibisce in un sorrisino.

Ecco che mi torna la nausea.

Socchiudo gli occhi e cerco di non pensare a niente che possa aumentarla.

Non voglio bere mai più.

- Sì uhm...però la stai prendendo abbastanza bene. -

- Abbastanza bene. -

Cerco di mettermi seduto con l'intento di piazzargli un dito nel petto e accusarlo di aver fatto bere un minorenne...ma quello che mi riesce è solo un abbozzo delle mie intenzioni reali, e finisco con l'accasciarmi su di lui malamente.

Il suo cuore contro il mio petto batte anche troppo forte, e il suo calore è inebriante, tanto quello che mi da l'alcool e che mi fa formicolare tutto il corpo.

I suoi occhi verdi si fissano nei miei. Non li avevo mai visti così da vicino.

Come sono belli.

Non so come sia possibile che la distanza tra noi si sia accorciata così all'improvviso, ma riesco a sentire il profumo che ha addosso, misto a quello forte del sake.

È così buono.

Appoggio la fronte al suo petto e mi sembra quasi che la stanza smetta di girare. È un lungo momento di stabilità che dura all'infinito.

Poi le sue mani calde, caldissime, si poggiano sul mio viso e lo tirano su.

Non riesco a capire quali siano le sue intenzioni neanche dopo che le sue labbra si sono poggiate sulle mie.

Lì per lì, penso solo marginalmente che si tratta del mio primo bacio e che lo sto dando ad un ragazzo, un ragazzo che odio, tra le altre cose.

Non so se si tratta del calore che emana, dell'alcool che ho in corpo, della mia totale incapacità di intendere e di volere in quel momento, ma ricambio il bacio cercando il contatto come se fossi affamato.

Quando la sua mano si infila sotto la mia maglietta e sento la pelle quasi bruciare, è lì che tutto si fa buio e perdo i sensi.

 

Svegliarsi con una sbornia è un piacere che non mi sarei aspettato di provare fino ai miei venti, ventun anni. Mi sono sempre immaginato incorruttibile dall'alcool e dai vizi, però prima o poi quel momento arriva per tutti.

Avevo progetti un po' per tutto, anche per come sarebbe dovuta essere la mia prima bevuta.

Sarà per questo che appena apro gli occhi un senso di amarezza sconsolata mi riempie il petto, sì, solo per questo.

Il martello pneumatico che ho nel cervello non ne vuole sapere di lasciarmi in pace.

Mi sembra di impazzire.

Porto una mano sulla fronte e cerco di mettere a fuoco le ultime ore della mia esistenza.

Non mi stupisco di trovare solo buio dal primo bicchiere di sake in poi.

Ciò che mi stupisce è trovarmi sdraiato accanto ad Axel, la sua testa appoggiata sul mio petto, le sue braccia strette intorno al mio busto.

I ricordi tornano tutti in una volta, mentre sfioro con lo sguardo il viso di lui, così sereno e placido nel sonno.

Le sue labbra sono rosse, non tanto quanto i capelli scarmigliati, ma nascondono il peccato di un bacio rubato, proprio lì nell'angolo arricciato all'insù in un sorriso trasognante. Un bacio a me rubato.

Mi sento intontito e mi gira la testa, e non è colpa della sbornia.

È colpa sua, sua e di quel bacio che è riuscito a prendersi con la forza, nel momento in cui ero più debole e indifeso.

Ma, contro ogni logico buon senso, non riesco ad esserne arrabbiato, anzi, vorrei che fosse sveglio, vorrei guardarlo negli occhi, vorrei fargli prendere da sobrio quello che ha preso quando era ubriaco.

Lo farebbe di nuovo?

Io lo farei di nuovo?

Sono troppo codardo per rispondermi.

Cerco di scivolare fuori dal suo abbraccio ardente mentre la nausea trova la strada per il mio stomaco e lo stringe in una morsa peggiore di quella di ieri sera.

Riesco a liberarmi solo dopo un paio di tentativi, e corro in bagno, non senza aprire due porte a vuoto.

Non so se sia per l'alcool che vomito anche l'anima, o se per la lucidità sconvolgente con la quale riesco a ricordare quello che è successo.

Senza forze, rimango accasciato sul pavimento freddo per quella che mi sembra un'eternità, finché qualcuno dalle mani calde non mi solleva e mi riporta a letto.

Sento vagamente che mi poggia una pezza fresca sulla fronte, ma non riesco a metterlo a fuoco, non subito almeno.

Poi vedo il suo volto, la sua espressione preoccupata, e riesco a pensare che quella sia la giusta vendetta per quando sono stato io a trovare lui svenuto in bagno.

- Stai bene? -

Sento la sua voce leggermente in ritardo rispetto al movimento delle labbra, questo perché mi sono soffermato anche troppo ad osservare come scandivano quelle due uniche parole.

- Mi hai baciato. -

Mormoro io per tutta risposta. La voce è roca e sento l'alito puzzarmi atrocemente di alcool. Dovrebbe fargli capire che no, non sto bene, non sto bene, non sto bene!

Lui sorride appena, un'espressione afflitta sul viso. Non sa se essere felice che io ricordi tutto o cosa?

- Ti è dispiaciuto? -

Rimango solo qualche istante in silenzio prima di realizzare, innanzitutto con me stesso, la risposta a quella domanda.

Mi sento stupido e vulnerabile quando rispondo:

- No. Per niente. -

Si mordicchia le labbra, visibilmente indeciso sul da farsi.

Baciami ancora stupido. Fallo.

Ma non ho voce per dirlo, né tanto meno il coraggio per farlo da me.

Non riesco a finire neanche di pensare che lui si è deciso e ha colmato la distanza tra le nostre labbra.

Mi sento andare a fuoco, il corpo formicola dappertutto, tremo tanto che devo reggermi a lui, aggrappandomi con forza al suo petto.

È come se fossi ancora ubriaco, eppure mi sento così lucido che mi fa quasi male.

La nausea sparisce con quel bacio, è una medicina inaspettata.

È così semplice sciogliersi contro di lui, perdere la ragione, perdere la cognizione di giusto e sbagliato che neanche mi rendo conto che lentamente il Grande Vuoto dentro di me si riempie.

Si riempe tutto di Axel.

 

*

 

La relatività generale definisce buco nero “Una regione dello spaziotempo con un campo gravitazionale così forte e intenso che nulla al suo interno può sfuggire all'esterno”.

È così che per me è Axel: un buco nero di irresistibile forza attrattiva, tanto da farmi mancare il fiato.

Una parte di me ancora combatte, ancora si nasconde dietro una maschera di freddezza e distacco...ma ho quasi paura di scoprire quanto ancora può resistere, perché sono convinto che sia molto poco il tempo rimastole.

Sono passati due giorni da quella sera a casa di Axel e le cose si sono ribaltate, almeno per il mio cuore freddo e chiuso.

Non dovrei farmi prendere tanto dall'entusiasmo, essere così infantile e perdere di vista il senso logico di ogni cosa. Ma non ci riesco.

Quando sento suonare il campanello...il mio cervello e il buon senso staccano la spina, torna il piacevole black out della sbornia e io mi trasformo in una specie di cagnolino festante che corre alla porta.

Esattamente come adesso che urlo “Vado io, vado io!” in modo da impedire a mia madre di andare ad accogliere il rosso prima di me.

Mi appendo alla maniglia per spalancare la porta e devo avere un sorrisone ebete in faccia perché sento gli zigomi dolere.

- Buongiorno Isa. - anche il sorriso che ha lui è enorme - Ho portato caffè e ciambelle, colazione fuori? -

- Prendo la giacca. -

Riesco neanche a fare finta che la persona che ha detto quelle tre parole con il sorriso non mi disgusti enormemente. O almeno, che non disgusti quella parte ancora intima di me.

- Mamma, ci vediamo più tardi. -

Non aspetto neanche che mi risponda, dopo aver preso lo zaino e la giacca mi fiondo fuori, cercando con lo sguardo la macchina di Axel.

Adesso non ho più paura di essere rapito da lui...anzi.

Mi accomodo sul sedile del passeggero come se fosse la mia macchina, in attesa di lui che impiega giusto qualche istante di più.

- Allora... -

Prova a cominciare lui, ma io non resisto: lo afferro per il colletto della giacca e lo tiro a me per baciarlo.

La sensazione calda delle sue labbra sulle mie mi inonda all'istante di adrenalina, un piacere liquido di cui non riesco a fare a meno.

Mi sento stupido, stupido ed effimero a ricercare quel contatto con tutto ciò che ne consegue.

Axel non mi spinge via, lascia che la mia fame di lui sia saziata prima di allontanarsi, ridacchiando appena.

Mi ritraggo non appena sento quella risatina.

Diamine, in cosa mi sono trasformato?

Anzi, in cosa mi ha trasformato lui?

Incrocio le braccia al petto e fisso un punto indistinto davanti a me mentre sento le orecchie andarmi a fuoco. Devo essere più rosso di un pomodoro maturo. Che vergogna.

- È stato più facile del previsto scioglierti. -

Commenta lui, divertito.

Però è vero. Il fuoco di cui è composto Axel, come il nucleo caldo di un piccolo sole, è stato in grado di sciogliere la calotta polare che mi avvolgeva in così poco tempo che sembra assurdo solo a pensarci.

Il surriscaldamento globale non è una menzogna!

- Idiota. - ma ormai sembra una parola vuota, o meglio, ha perso il suo reale significato e si è rivestita di qualcosa di più, qualcosa di cui ho paura - Parti e basta. -

- Agli ordini. -

 

È una bella giornata, fredda, ma bella. Forse non adatta ad un picnic in campagna, ma seduti sul cofano ancora tiepido della macchina non si sta poi così male.

Sorseggio distrattamente il mio caffè. Distrattamente, perché Axel mi distrae, in tutti i modi in cui possa essere inteso.

Non ci penso neanche ad accorciare la distanza tra me e lui e tuffarmi tra le sue braccia, benché il freddo che supera la protezione della giacca mi porterebbe a stringermi a lui, così caldo che mi chiedo perché il mondo abbia bisogno di stufe e termosifoni quando in giro c'è Axel.

- Hai freddo? -

Quasi mi strozzo con il caffè. Tossisco e sputacchio un “no!” che da solo risponde alla domanda.

Axel si sfila la giacca e me la mette sulle spalle, nonostante le mie rimostranze. Ma quando sento il calore residuo nei tessuti della giacca, non posso che sospirare, rincuorato dalla sensazione.

Lui, ovviamente, non può che ridere.

- E tu non senti freddo? -

Lo squadro criticamente, dalla testa ai piedi. Come può non tremare con quel maglioncino leggero che indossa?

Scrolla le spalle in risposta.

- Non ho mai freddo. -

- Ma hai avuto da poco la febbre. -

E non è detto che non ce l'abbia ancora, visto quanto è caldo. Troppo caldo.

Di nuovo, scrolla le spalle.

- Sto bene così. -

Mi trattengo dal dirgli che può fare il prezioso quanto vuole, e che la sua giacca ora è mia. Ma non perché è impregnata del suo profumo e del suo calore. Solo per plausibilissime ragioni tecniche.

Continuo a sorseggiare il caffè finché lui non mi passa una ciambella, allora passo dal liquido al solido come se niente fosse: centellinavo l'uno, mangiucchio l'altro.

- Qualche problema? -

Alzo gli occhi su di lui e all'improvviso trovo mille cose da dirgli, mille cose sputare fuori. Davvero ne avevo così bisogno?

- Qualche problema? Certo che c'è qualche problema. Mi spieghi che cosa siamo adesso? Perché mi hai baciato? Perché io ti ho baciato? E perché siamo qui da soli in mezzo al nulla? - mi rendo conto che la sua espressione è rimasta pressoché uguale per tutto il tempo - Axel, che cosa vuoi da me? -

Il suo silenzio mi mette in agitazione, e sto quasi per chiedergli perché diamine ha smesso di parlare proprio adesso, ma poi lui sospira e abbassa la testa.

- Tu mi piaci, Isa. Non so se hai cambiato idea su di me, anzi, probabilmente ti ho solo confuso di più ma...mi piaci, ecco... -

Deglutisco a vuoto, la gola riarsa. Forse mi tremano un po' le mani, e non è colpa né del caffè né tanto meno del freddo.

- Va bene. - commento, più secco e duro di quanto vorrei, ma è colpa della gola che mi brucia - Ma non ho ancora capito cosa vuoi da me. -

Lui si passa una mano dietro la nuca, si mordicchia le labbra, assume quelle espressioni che assumerebbe una persona confusa, indecisa, forse spaventata.

Mi piacciono tutte.

Alza lo sguardo su di me e quasi mi sento andare a fuoco. È questo l'effetto che mi fa.

- Magari...possiamo provare a stare insieme, che ne pensi? - ti sei già preso il mio primo bacio, ora ti vuoi prendere la mia dignità lasciando a me l'onere di decidere una cosa del genere? Se prima avevo la gola secca, ora assomiglia più ad un deserto, e a stento riesco a respirare. - Non... - inizia lui, che visibilmente suda freddo per l'agitazione. Ben gli sta. - ...non devi decidere subito. -

- Riportami a casa. -

Non è questo che dovrei dire, dovrei dire qualcosa come “ci penserò” o “non ho bisogno di pensarci”. E invece no, quello che mi esce dalle labbra è forse la frase che più potrebbe fargli male.

Lui non batte ciglio, ma sono certo di averlo ferito.

- Va bene. -

Gli restituisco la giacca e la magia del suo calore sparisce.

Torniamo in macchina, a farci compagnia solo un silenzio straziante ed espressioni serie, quando all'andata c'erano musica e sorrisi.

Mi lascia davanti casa e mi rivolge un tiepido “ciao” che sembra più un addio.

Il cuore mi fa male.

Lo saluto più freddamente del dovuto. La testa mi scoppia. Non riesco a rivedere altro che l'immagine di quel momento e mi sento un mostro.

Mia madre sta preparando il pranzo, mi avverte che tra un'oretta si mangia. Penso di voler ingerire niente altro dopo la ciambella e il caffè di Axel.

Mi chiudo nella mia stanza e mi butto a letto vestito, senza neanche togliermi le scarpe.

Il ticchettare dell'orologio mi riempie le orecchie, annullando per qualche istante il tumulto dei miei pensieri.

Rimango così, abbracciato al cuscino, finché le mie mani non trovano la strada per la tasca del pantalone e ne tirano fuori il cellulare.

Adesso ce l'ho il numero di quel maledetto.

Digito “Axel” dalla rubrica e comincio a scrivere l'sms.

“Ho deciso. Voglio stare con te.”

 

*

 

“Lo sapevo.” ha detto “Me lo aspettavo.”

Le sue prime parole prima di abbracciarmi e baciarmi, lì, sulla porta d'ingresso, neanche un quarto d'ora dopo avergli mandato il messaggio.

Così, seminascosti dallo stipite, con mia madre che cucinava a dieci metri da noi.

È stato tutto così caldo, soffuso, appannato, le terminazioni del mio cervello non connettevano più.

Lui sorrideva in modo così sornione, così soddisfatto, così vittorioso.

Riesco a stento a rendermi conto in cosa mi sono appena buttato. La sensazione è quella di una caduta libera, poco importa se non ho il paracadute.

La testa è così leggera che mi sembra un palloncino pieno d'elio.

Anche se sono dovuto tornare a scuola e i miei e i suoi impegni hanno reso difficile il vederci, ci rimane l'Osservatorio.

È un nascondiglio perfetto, e sfruttiamo bene gli angoli bui tra i modellini di stelle e pianeti.

Sono passate circa due settimane, le più lunghe e intense della mia vita.

Il signor Sullivan dice ancora che sono cambiato, ma non ha davvero idea di quanto lo sia.

È divertente giocare agli amanti, soprattutto quando nessuno sa che succede.

Axel continua a non piacermi, o almeno è quello che gli lascio credere, perché vedere come si suda le mie attenzioni mi fa sentire il centro dell'Universo.

È bello avere il proprio sole personale.

Le labbra mi scottano ancora quando tira via le sue dalle mie e mi sorride.

- La tua espressione...sembri su un altro pianeta. -

Commenta sottovoce. Parla sempre così quando siamo soli, sottovoce, come se stessimo facendo una cosa sbagliata.

Mi piace.

- Sei stupido? Guarda dove siamo. -

E in effetti siamo su un altro pianeta, dato che siamo nascosti nella stanza dedicata alla simulazione della superficie di Marte.

Lui ride di gusto, come se mi stesse dando ragione.

Mi solleva tra le braccia all'improvviso, quando sento il terreno mancarmi da sotto i piedi mi aggrappo alle sue spalle con tutte le mie forze.

- Su Marte, peseresti solo diciotto chili, sai? -

- Stai dicendo che sono grasso? -

Scoppia a ridere all'improvviso e mi mette giù. Mai stato più felice di avere i piedi per terra, ed essere così basso da arrivargli appena al petto.

- Non pensavo che ti facessi certi problemi. -

- Non me ne faccio, infatti. -

Lo spingo via, lo faccio più spesso di quanto vorrei.

Il desiderio di averlo stretto a me è direttamente proporzionale a quello di spingerlo giù per un dirupo.

- Dai, scherzo. -

Mi tira a lui, e chi sono io per impedirglielo?

Mi ritrovo incollato alle sue labbra in meno di una frazione di secondo.

Cerco di divincolarmi dalla sua stretta e mugugno qualcosa di non ben identificato, tanto che lui ride ancora.

Per quello, non è cambiato affatto.

- Non hai una tesi da scrivere? -

Riesco a dirgli quando ho le labbra abbastanza libere dalle sue attenzioni.

- Algido. -

Borbotta lui, anche se con il sorriso sulle labbra.

Come sempre, quando si allontana da me, mi ritrovo zuppo di sudore e tremante di freddo.

 

Sembra andare tutto bene, o almeno me ne convinco, mentre ripulisco il pavimento dalle cartacce lasciate dai ragazzini venuti qui in gita.

Va tutto talmente bene che per una volta, tra me e me, dopo aver dato un'occhiata in giro per assicurarmi che non ci sia nessuno, sorrido.

È strano, e forse sembra una smorfia.

Axel mi sta insegnando a farlo.

Poi uno spiffero freddo proveniente dalla finestra mi fa rabbrividire e corro a chiuderla.

Il tempo è peggiorato e da qualche giorno l'inverno ha portato la neve.

Quasi quasi vado a prendere una dose di calore dal mio calorifero umano.

Sto giusto per andare a cercarlo quando sento il signor Sullivan urlare.

Accetto il colpo che mi prende il cuore con una tale tranquillità che neanche mi rendo conto di essere terrorizzato.

Sento e vedo me stesso muovermi.

- Signor Sullivan? Che succede? -

Non mi trema neanche la voce. Sono fin troppo caldo.

- Corri Isa! Axel si è sentito male! -

È da quando mi ha cacciato con rabbia da casa sua che temo questo momento.

E quindi corro. Isa corre. Devo correre.

Trovo il signor Sullivan in ginocchio su Axel esanime e il colpo al cuore si ripete ancora e ancora e ancora.

- Chiama un'ambulanza! -

Mi strilla l'uomo.

Ambulanza. È così grave? Avrei dovuto portarlo in ospedale anche quella sera a casa mia?

La mia mente è ancora fissa su quella scena, mentre il mio corpo mi porta al bancone e prende il telefono per comporre il numero di emergenza.

Non so quanto tempo passa, forse un paio di secondi, forse un secolo, so solo che all'improvviso l'Osservatorio si riempie di paramedici che urlano, corrono, sbraitano.

C'è una barella, una flebo, un defibrillatore.

Che cosa sta succedendo?

- Presto, presto! -

Vedo inerme i medici che portano via Axel e lo caricano sull'ambulanza, e poi vedo me stesso chiedere se posso andare con loro, con una voce atona e sottile.

- Sei un parente? -

Mi viene chiesto, non so da chi.

- Sono... - il suo ragazzo. Non riesco a dirlo - ...un amico. -

- Mi dispiace, non possiamo farti salire. -

Le porte dell'ambulanza mi si chiudono sul naso, la sirena strilla che è un'emergenza.

Perché? Che cos'ha?

Era solo una banale influenza.

 

- Axel. Axel Sinclair. -

Ripete il signor Sullivan all'infermiera della reception.

- Mi dispiace, non posso dare informazioni. -

Lui picchia un pugno sul bancone.

- Il ragazzo non ha nessuno della famiglia in città! Sia coerente, ci faccia entrare! -

- Non posso. -

Ma io sì. Io posso.

Mentre lui prende a litigare con l'infermiera, io scivolo sotto il bancone.

Per una volta sono contento di avere questo corpicino.

Riesco a superare la porta che separa i reparti dall'ingresso e mi trovo a scorrere con gli occhi tutte le camere del corridoio.

Axel.

È l'unica cosa che riesco a pensare. Mi manca il fiato e le gambe mi tremano, ma non mi fermo e cerco di nascondermi dietro una colonna quando vedo un medico uscire da una stanza.

- Pare che sia genetico. - parla con un'infermiera che esce dopo di lui - Possiamo fare molto poco. -

- Povero ragazzo. -

Fa' che non sia lui, Dio, ti prego, fa' che non sia lui.

Non appena i due si sono allontanati abbastanza, guadagno la porta ed entro.

Giusto qualche secondo per riprendere fiato e per convincere me stesso che sarà solo un buco nell'acqua.

È la stanza sbagliata. Deve esserlo.

L' orizzonte degli eventi è, nell'accezione più diffusa, un concetto collegato ai buchi neri, una previsione della relatività generale. È definita come la superficie limite oltre la quale nessun evento può influenzare un osservatore esterno.

È, cioè, una porzione di spazio in cui gli sconvolgimenti spazio-temporali causati dall'enorme forza di gravità del buco nero non influenzano in alcun modo chi lo sta guardando. Sarebbe quindi possibile, rimanendovi, poter guardare al suo interno e scoprire cosa cela nel suo cuore nero e denso.

Così, finché non muovo il passo decisivo verso il letto su cui Axel è steso, uscendo dal mio personale orizzonte degli eventi, niente di lui potrà influenzarmi.

Niente.

Non le flebo collegate con aghi nelle sue bracca, non il monitor che rimanda un debole e flebile bip che altro non è che il suo battito cardiaco, non il suo viso pallido.

Un passo.

Tanto piccolo è il mio orizzonte degli eventi.

Non appena mi muovo in avanti sento il peso dell'Universo schiacciarmi.

- Axel. -

Mormoro, avvicinandomi al letto.

Lui gira la testa.

Perché ormai è chiaro che si tratta di lui.

Chiaro come gli occhi che mi fissano e si riempiono di lacrime di terrore.

- Isa. -

La mascherina di ossigeno che ha sul volto sembra così sbagliata. Neanche un'ora fa lo stavo baciando e non aveva bisogno di una macchina per respirare.

- Mi avevi detto che avevi l'influenza. -

C'è più rancore di quanto posso provarne in quell'unica frase, e sento che mi si riempiono gli occhi di lacrime che non voglio versare.

- Forse...è più di un'influenza. -

- È per questo che piangevi, quella sera. -

Sento come se tutti i tasselli del puzzle comincino ad incastrarsi alla perfezione quando lui annuisce.

- Il mio cuore non funziona più. -

Sussurra.

Cerco di trattenermi dall'urlare, mi limito solo a sdraiarmi sul letto, tra le sue braccia.

Ora il calore troppo elevato del suo corpo mi sembra una maledizione.

- Da quanto tempo lo sai? -

Gli chiedo, solo dopo aver poggiato la testa sul suo petto e aver sentito il debolissimo battito del suo cuore.

- Poco. -

- Da prima di conoscermi? -

- L'ho scoperto la sera che sei venuto da me. Non sono venuto all'Osservatorio...perché dopo essere svenuto sono andato dal medico... -

Scuoto la testa, non voglio sapere, non voglio sapere.

Mi stringo a lui e mi sento tremare. Non riesco a smettere.

- Perché non me l'hai detto? -

- Non sapevo come fare...non ti sarebbe piaciuto. -

- Non volevo che soffrissi da solo! - forse urlo mentre mi rimetto seduto per guardarlo in volto...ma lui sembra così spaventato e indifeso che la mia rabbia si sgonfia come un palloncino. Mi accascio su me stesso, come se mi avessero risucchiato tutte le energie. - È una cosa grave...? Cioè...non...non si può fare niente? -

- No. -

Chiudo gli occhi e due lacrime superano la protezione delle ciglia e mi bagnano le guance.

- Quanto tempo abbiamo? -

- Un anno su Marte. -

 

*

 

Cos'è il tempo?

Il tempo, è facile da misurare ma veramente difficile da spiegare.

Ci sono due modi molto diversi per interpretare il tempo:

Il primo si può riassumere con l'esposizione fatta dal grande filosofo Bergson nel 1927: il Tempo reale è solo il presente, non esiste il passato come non esiste il futuro, il tempo non è una linea piena di punti che si può modificare, noi possiamo solo vedere e misurare il sommarsi dei punti del tempo che è scandito da un orologio, ma non abbiamo nessuna facoltà di modificare il tempo.

Il secondo fu proposto nei primi anni del 1900 da Einstein.

Lui il tempo l'ha collegato con lo spazio, creando un nuovo concetto “spazio-tempo”: la quarta dimensione da misurare e studiare.

A detta di tutti la relatività è stata una delle grandi rivoluzioni della fisica moderna, questa teoria è totalmente imperniata sul “Tempo relativo” cioè il tempo è relativo all'evento e viene condizionato dalla velocità e dalla forza di gravità, da questo, Einstein ipotizza che il tempo può rallentare.

Questa è la visone che abbiamo del tempo.

Per cui, un anno su Marte potrebbe essere tutta la vita.




The Corner

Dunque, innanzitutto se siete arrivati alla fine della storia senza morire per la sua lunghezza esasperante, vi ringrazio moltissimo.
Questa storia è dedicata prima di tutto a Saïx Mōonrise, grazie per essere venuta dietro nei miei sproloqui, e a Axel Sinclair a cui avevo promesso che non avrei smesso di scrivere. Grazie ad entrambe, e dopo esservi sciolte con la mia storia...su, fate far pace a Saix e Axel C:
Grazie anche a Ventus Pulcino ShadowHeart che è la mia lettrice e fan numero uno, non che correttrice di bozze/personal trainer(?)
Infine, grazie a 
Roxas A. Destiny che anche se odia questa coppia (che sia Axel e Saix, Isa e Lea o derivati vari), ha comunque sopportato tutto questo solo per me.
 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Kingdom Hearts / Vai alla pagina dell'autore: ChiiCat92