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Autore: Michan_Valentine    09/01/2015    3 recensioni
Hojo risveglia Vincent Valentine dal coma ben prima degli avvenimenti di Final Fantasy VII, ansioso di dedicarsi al Progetto Omega. Un anno dopo, Sephiroth ha sei anni e non vuole mangiare.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Sephiroth, Vincent Valentine
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun gioco
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Progetto Jenova: 23 anni dopo.

Degli uomini in camice bianco gli sfrecciarono accanto, lungo il corridoio, così impegnati a discutere fra loro di teorie e riscontri da non notarlo neppure. Li seguì con la coda dell’occhio. Ognuno di essi teneva fra le mani una cartella. Assottigliò le labbra. Poteva solo immaginare i dati ivi contenuti e si chiese se, da qualche parte in quella struttura, ci fosse un altro bambino speciale. Così come lo era stato lui tanti anni addietro. Quella considerazione gli strinse il cuore; ma i lineamenti del suo viso non palesarono turbamento, immoti.

La sua guida, qualche passo avanti a lui, voltò appena il capo e gli lanciò un’altra occhiata da sopra la spalla, quasi temesse di smarrirlo per strada. Come se avesse tempo da perdere o voglia di rivisitare i luoghi della sua infanzia: un intricato labirinto di corridoi e luci al neon che sapeva unicamente di disinfettate e di reclusione. E di tradimento. Quell’assistente doveva solo accompagnarlo da Hojo. Lo scienziato gli avrebbe fornito i file necessari e lui sarebbe ripartito immediatamente; per mai più ritornare. Meta: Ninbelheim. La sua ultima missione…

Con la diserzione di Angeal e Genesis un’altra parte di sé era svanita. E nuovi dubbi l’avevano assalito. Non gli aveva fatto male come in passato, ma il pensiero di allontanarsi da SOLDIER riusciva inevitabilmente a confortarlo. Quantomeno non avrebbe dovuto combatterli. Tanto più che trovava decisamente ironico che fra i tre fosse proprio lui ad essere rimasto indietro, ancorato a ideali di lealtà che non gli appartenevano. E di cui era sempre stato Angeal il fervente sostenitore.
L’idea che quest’ultimo avesse sbirciato oltre la patina dorata del loro piccolo mondo tornò a solleticarlo. A instillargli il tarlo che, di qualsiasi cosa si trattasse, fosse una consapevolezza talmente oscura e spaventosa da aver strappato all’amico ogni cosa: perfino l’onore di uomo e di SOLDIER cui tanto teneva.

Un motivo in più per andarsene. Senza contare che non doveva più niente alla Shinra. Aveva preso Forte Tamblin e portato a termine la sanguinosa guerra contro Wutai, aveva combattuto contro AVALANCHE e incontrato Elfè; e in quell’occasione la mancanza di veri obbiettivi aveva messo in evidenza tutta la sua inadeguatezza. Condizione più che normale per qualcuno impegnato da sempre a portare a termine i propositi degli altri; e a rifletterne le aspettative senza possedere una reale immagine di sé. Ma era stanco di fungere da arma o da modello promozionale per la compagnia elettrica. Costantemente situato sotto una virtuale lente d’ingrandimento che l’avrebbe vivisezionato senza pietà al minimo passo falso. Voleva, doveva cercare se stesso, la sua motivazione, in qualcosa che esulasse dal ruolo imposto e da quanto aveva conosciuto fino a quel momento. Essere diverso.

Serrò la mascella e deglutì alla semplice realizzazione; mentre il ricordo della persona che aveva pronunciato quel suggerimento tornava a fargli male. A farlo languire; a dispetto degli anni passati. L’assistente che l’accompagnava gli lanciò un’altra occhiata e si morse il labbro inferiore, richiamandolo dai pensieri. Inarcò appena il sopracciglio e si domandò cosa volesse, perché era chiaro come il sole che qualcosa gli frullava in testa.

“C’è qualche problema?” interloquì, senza rallentare il passo.

L’altro corrucciò le sopracciglia, sfoderò un sorrisetto e si portò la mano fra i capelli.

“Mi scusi, Generale.” rispose “Va tutto benissimo. È che… ecco, è la prima volta che l’incontro di persona e mi stavo chiedendo se… sì, insomma, se non è di troppo disturbo chiederle un autografo.”

Ma certo. Come aveva fatto a non pensarci? A volte la paranoia prendeva il sopravvento e gli faceva vedere ombre anche dove non ce n’erano. Valutò la situazione: non voleva perdere altro tempo per assecondare le fantasie di un ammiratore, ma firmare un autografo in più o in meno non gli avrebbe fatto differenza; e le orecchie di quel ragazzo erano diventate tutte rosse, vuoi per l’emozione, vuoi per l’imbarazzo. Per un attimo si chiese se sarebbe stato altrettanto ansioso di ricevere siffatto riconoscimento; anche avendo idea tangibile dei campi di battaglia, del sangue, della polvere. Della morte. Scacciò quel pensiero con la velocità con cui l’aveva formulato e piegò invece la bocca verso l’alto: un sorriso che si estendeva alle sole labbra.

“Non ho la penna, con me.” replicò.

In compenso la Masamune pendeva algida dal suo fianco e tintinnava ad ogni passo compiuto, in qualità di unica, fidata e inseparabile compagna.

L’assistente s’illuminò alla sola possibilità. Poi si frugò rapidamente nelle tasche del camice, del pantalone e soggiunse: “Accidenti! Ma se aspetta solo un secondo, vado a prenderne una nel mio ufficio! Farò in un lampo! E grazie. Grazie infinite!”

L’altro non gli diede il tempo di convenire. Né di ritrattare. Sorrise, e si allontanò in tutta fretta, scomparendo in breve oltre l’ingresso che conduceva al settore D. La zona riservata all’archivio, considerò. Scosse la testa e sbuffò, incrociando le braccia al petto. Avrebbe dovuto dirgli di no fin dal principio, pensò, mentre si guardava attorno e sulle facce del personale leggeva sorpresa e ammirazione. Scosse leggermente la testa e rise internamente di sé. Molti di loro erano stati assunti di recente e nemmeno potevano immaginare che tempo addietro era stato solo un ragazzino solo e spaventato, chiuso fra quelle mura e desideroso unicamente di scappare. Di essere libero.

Quel pensiero lo turbò, senza che sapesse dirsi perché. Batté le palpebre, ignorò il via vai di assistenti e si guardò meglio attorno, indugiando sui corridoi e sugli uffici. Infine capì; e per un attimo si riscoprì bambino. Non c’erano macerie, operai o solchi sulle pareti e il pavimento era tirato perfettamente a lucido. Ciononostante ravvisò quel luogo senza indugi. Schiuse le labbra, improvvisamente senza fiato, e diresse istintivamente le iridi al varco che ricordava ampio e spaventoso, alla stregua di una bocca spalancata sull’inferno. Ancora una volta incappò in uno scenario diverso e in un muro liscio e regolare che escludeva l’esistenza stessa di un passaggio. Deglutì. Il cuore gli batteva a mille nel petto, proprio come il giorno in cui aveva disubbidito a Hojo e si era infilato nel sotterraneo per incontrare… il mostro. E quasi gli sembrò di risentire l’inconsolabile cordoglio di quel verso inumano. Possibile che avesse proiettato quell’immagine di fantasia per lenire la propria solitudine di bambino?

Sciolse la morsa delle braccia e si avvicinò alla parete in questione: apparentemente un muro come gli altri, soltato più spesso. Allungò il braccio e pose la mano sulla superficie verticale. I guanti gli impedirono di saggiarne la consistenza, di avvertire le piccole imperfezioni dell’intonaco o la polvere depositata su di esso; ma non vi badò, di già concentrato su altri, più rivelatori dettagli. Chiuse gli occhi e per minuti che parvero infiniti trattenne perfino il respiro. Niente. Eccetto il trambusto e il chiacchiericcio di coloro che popolavano il centro di ricerca. Schiuse le palpebre, sospirò e fece per ritrarre la mano, sentendosi estremamente sciocco. E anche un po’ infantile. Proprio in quel momento le sentì; e perse un battito, colto alla sprovvista. Lontane, come un’eco. Quasi sbiadite. Eppure reali. Concrete. Le vibrazioni si propagavano sotto i suoi polpastrelli, a dispetto della stoffa che li ricopriva e di quel muro che mentiva con la mera presenza. Nascondendogli la verità. Perché non aveva immaginato né il passaggio, né i sotterranei; e qualcosa s’agitava oltre la barriera. Sbatteva, graffiava e urlava per uscire esattamente come in passato.

Inarcò le sopracciglia e serrò la mandibola, gli occhi fissi sulla parete bianca. Avrebbe potuto ignorare quel richiamo. Avrebbe potuto firmare l’autografo, recuperare i file che gli servivano e andarsene come da programma, lasciandosi dietro quei laboratori e i ricordi a essi legati. Per sempre. Ma se c’era qualcosa che non riusciva a ignorare era il desiderio di libertà e la volontà di capire; e qualcosa dentro, un languore che sapeva di nostalgia e di solidarietà, gli diceva che quell’essere aveva bisogno di lui. Come lui ne aveva di quell’essere. E il semplice realizzarlo gli gonfiò il petto, gli punse gli occhi.

Non indugiò oltre. Si fece indietro ed estrasse la Masamune. Qualcuno dietro di lui strillò. Una donna. L’ignorò, concentrato sull’ostacolo che si frapponeva sul suo cammino, quasi a sfidarne l’audacia. Dopotutto era stato proprio Hojo a ordinargli di non rimettere più piede lì sotto; e lui aveva obbedito. Un’onta che rinforzò unicamente la sua determinazione nell’osare. E di indagare sul perché di quel divieto così ferreo. Avvertì dei passi avvicinarsi, percepì anche un singulto, ma si accorse che si trattava del suo ammiratore solo quando sentì dire: “Ge-Generale…?” Non lo guardò neppure, ignorando la domanda implicita. Ammesso e non concesso che ci fosse modo di spiegarli, non era interessato a farlo. Divaricò leggermente le gambe, spostò il baricentro verso il basso e sollevò la katana sopra la testa, sordo al vociare sempre più concitato di chi gli stava attorno. Contrasse i muscoli e sferrò un deciso sgualembro dritto, seguito da un rovescio e da un fendente, intagliando nella parete una porzione triangolare. Quando ritrasse la lama e tornò in posizione di guardia, il cemento armato crepitò, si sfaldò e crollò in pezzi sul pavimento. Oltre il muro spesso più di quaranta centimetri, s’intravedeva la porta a tenuta stagna che ricordava. Intatta.

“Aprila.” ordinò.

“Generale! Che cosa ha fatto?” strepitò l’assistente “Il Professor Hojo lo verrà sicuramente a sapere! Si arrabbierà moltissimo e se la riprenderà con me! Verrò licenziato e il Presidente Shinra…”

Diresse le iridi su di lui e quello tremò, ingoiando le parole successive. Gli occhi del ragazzo ora non trasmettevano più alcuna ammirazione, ma solo la paura. Una preda che aveva istintivamente percepito la vicinanza del predatore. Allungò il braccio e l’afferrò per il bavero, traendolo a sé. L’assistente squittì, strizzò gli occhi e serrò le mani sul suo avambraccio, come se potesse liberarsi. Povero stolto. Tanto più che tremava come una foglia battuta dal vento.

Aprila.” reiterò, scandendo ciascuna sillaba.

Il ragazzo boccheggiò, gli occhi sgranati su di lui.

“Io… io…” balbettò.

Gli strappò dal petto il tesserino d’identificazione e lasciò la presa. Di rimando quello s’abbatté al suolo con un tonfo, alla stregua di un sacco di patate. Non vi badò. Semplicemente andò alla serratura elettronica e passò la banda nell’apposito lettore magnetico. Seguì un suono acuto; poi la luce dapprima gialla divenne rossa. Poco ma sicuro: l’unico ad avere libero accesso a quel particolare piano della struttura era lui, il professore. Guardò al trambusto che aveva provocato, alla facce preoccupate o sorprese di chi gli stava attorno. Gli assistenti dovevano aver già allertato la sicurezza, comunque. E presto o tardi sarebbe sopraggiunto anche Hojo. Ciononostante non aveva intenzione d’aspettare fino a quel momento e di lasciarsi intralciare da chicchessia; e solo per impadronirsi del tesserino giusto. Si sarebbe fatto largo con la forza. E subito. Sollevò la Masamune e caricò un altro colpo, più potente dei precedenti. Scattò in avanti e il metallo impatto contro il metallo, una, due volte, emettendo scintille e sinistri stridii. La lama penetrò e fendette, disegnando tagli netti e puliti, e aprendo un varco abbastanza grande da permettergli il passaggio. Guardò oltre. Il buio l’attendeva e si spandeva vischioso oltre la scalinata che conduceva al piano inferiore. Dietro di lui l’assistente balbettava e riferiva la situazione da una ricetrasmittente. Non se ne preoccupò, ma il dettaglio della penna che giaceva ai suoi piedi lo colpì. Rilasciò un piccolo sbuffo, scosse appena il capo e la consapevolezza gli si delineò chiara nella mente: era un viaggio senza ritorno. E una volta varcato quell’ingresso non ci sarebbe più stata nessuna Nibelheim. Nessuna ultima missione.

Rinfoderò la Masamune e scavalcò la porzione di muro che si alzava ancora intatta dal pavimento, sordo agli ammonimenti degli astanti. Poggiò la mano sulle lamiere, spinse e si fece spazio attraverso di esse. Dall’altra parte era umido e l’aria risaliva fredda dal basso, sferzandogli le gote. Ostile. Scese lungo la scalinata, nel silenzio. Più si avventurava verso il basso, più il suono dei suoi passi riverberava nell’ambiente, come unico eco. Raggiunse il sotterraneo e assottigliò le palpebre, scandagliando le ombre e cercando di riconoscere il cammino che in precedenza l’aveva condotto all’obbiettivo; inutilmente. Proseguì, allungò il braccio e sfiorò le pareti con dita leggere, lasciandosi guidare. Incappò in solchi profondi, irregolari e riconobbe in essi le stesse artigliate che aveva visto da bambino. Ciò rafforzò la sua determinazione. Si spinse oltre e poco più avanti intercettò il pannello elettrico. L’aprì e portò in alto gli interruttori. Di rimando i neon lampeggiarono e si accesero, illuminando a giorno i corridoi. Voltò appena il capo e socchiuse le palpebre, infastidito. Si abituò subito, comunque, e la luce dapprima insopportabile si rivelò invece esigua. Proprio come la ricordava.  I neon ronzavano, alcuni erano rotti e proiettavano ampie zone d’ombra lungo il cammino, altri erano semplicemente intermittenti. Riprese la marcia, tendendo le orecchie ai rumori. Niente. Raggiunse un bivio, senza che sapesse di preciso dove dirigersi. Dopotutto in passato era stato l’essere a guidarlo, a dirgli dove andare…

Svoltò a sinistra e proseguì da quella parte. Attraversò luci e ombre, accompagnato unicamente dal suono dei propri passi e dal rassicurante tintinnare della Masamune, ma la strada s’interruppe più avanti, sbarrata da un’altra porta a tenuta stagna. La serratura elettronica lampeggiava di giallo, notò. Serrò la mandibola e indugiò con le dita sull’elsa della katana. Solo poi noto l’altra porta che si stagliava lungo il corridoio. Era diversa dalle altre. Era semplice, di legno, con uno sportello di vetro all’altezza degli occhi. S’accigliò, sospettoso, e la raggiunse. Spinse la maniglia e, contrariamente alle sue aspettative, l’uscio si schiuse con estrema semplicità. Deglutì, aprì la porta e mise piede all’interno. Il buio si stendeva ovunque come una coltre, eccetto per il fascio di luce proveniente dal corridoio. Tastò la parete alla ricerca dell’interruttore e l’azionò appena lo sentì sotto le dita. I neon illuminarono scrivanie colme di fascicoli, monitor e altri tipi di apparecchiature che nemmeno conosceva. Nell’angolo della stanza stava invece un contenitore cilindrico della dimensione di un uomo, colmo di un liquido denso e verdastro. Mako, probabilmente. Schiuse le labbra e provò l’impulso di andare da quella parte per approfondire; ma la sua attenzione venne richiamata dalla scrivania coi monitor, dove stava anche il pannello di controllo delle porte. Contrassegnate da altrettante luci gialle.

Raggiunse il piano e notò che tutte le superfici erano ricoperte di polvere. Doveva essere passato parecchio tempo dall’ultima volta che qualcuno aveva messo piede lì dentro. Tra i fogli sparsi, notò, c’era un registratore vocale abbandonato. Batté le palpebre, interdetto. Poi la curiosità prese il sopravvento e l’afferrò, premendo subito il tasto play. Dall’altra parte, arrivò la voce stridula del professore.

“Il Soggetto CG non risponde alle stimolazioni. Il suo organismo ha smesso di contrastare la creatura ospite ed è sempre più raro vederlo cosciente. Il processo sembra irreversibile e si è riscontrato in seguito all’estrazione della Protomateria.” sentì del rumore non meglio precisato provenire dal registratore; poi nuovamente la voce stridula di Hojo “Non sono da escludersi cause psicologiche. La separazione dal Progetto Jenova ha messo in evidenza sintomi riconducibili a stress e depressione. In soldoni il soggetto potrebbe aver semplicemente perso la volontà di combattere per la supremazia, lasciando alla creatura ospite il pieno controllo.” altri rumori non identificabili “Con questo, mi accingo a dichiarare concluse le ricerche relative al Progetto Omega.”

Il nastro continuò ad andare, sordo; mentre le parole appena ascoltate gli si ripercuotevano nella mente e nella coscienza alla stregua di aghi nella carne. Schiuse le labbra, a corto di fiato e completamente colto alla sprovvista. Non sapeva chi fosse il Soggetto CG, né a cosa alludesse Hojo con Progetto Omega; ma il nome di sua madre non gli era di certo sfuggito. Che cosa c’entrava lei con quegli… esperimenti? Rabbrividì e sentì l’urgenza scivolargli subdola sottopelle, in ogni cellula del corpo, assieme al desiderio sempre più pressante di capire. Lentamente spense il registratore; e il “click” che ne derivò gli arrivò alle orecchie di lontano, di già proiettato con lo sguardo e col pensiero sul mare di fogli che inondava la scrivania. Lasciò andare la presa e l’oggetto cadde, frantumandosi in più parti. Senza degnarlo di ulteriori attenzioni s’avventò sulla carta, sui fascicoli, divorando dati e referti medici uno dopo l’altro. Scorse le righe, i paragrafi, le pagine, ma nella febbrile ricerca l’unico nome cui incappò fu Choas. Il mostro, intuì. La creatura ospite del Soggetto CG. Deglutì, senza fiato, gli occhi grandi puntati dritti innanzi a sé e le dita serrate come ganasce su risme di fogli ormai ridotti a carta straccia. Dalla scrivania gli schermi bui lo fissavano di rimando, come finestre socchiuse, in attesa di essere aperte e di mostrargli quanto si celava oltre. Una prospettiva che l’inquietò. Che si trasse d’istinto o di mera logica, qualcosa dentro lo stava mettendo in guardia, quasi diffidandolo dal varcare il confine; tant’è che esitò, immobile innanzi alla scrivania, col fiato corto e il sudore gelido lungo la schiena. Infine lasciò cadere i fascicoli e con mano ferma accese gli schermi. Gli occhi si spalancarono su di una stanza in penombra, al cui centro stava un lettino medico sovrastato da una lampada scialitica. Batté le palpebre e percorse avidamente ciascun dettaglio di quanto gli veniva mostrato, finché notò il carrello degli strumenti, il cui vassoio recava bisturi di ogni forma e dimensione, forbici, pinze e divaricatori disposti perfettamente in fila, in un ordine che gli parve quasi maniacale. Quando poi notò le macchie rosso scuro che incrostavano le cinghie del lettino, avvertì una stretta allo stomaco e un senso di vertigine. E quasi gli sembrò di sentire l’ago farsi spazio fra la carne, irrompere nella cartilagine e stagliarsi saldamente fra le vertebre. Distolse lo sguardo, si poggiò alla scrivania e deglutì, cercando di scacciare la nausea. Ma non poteva farsi scoraggiare, cedere a quella parte di sé che ancora temeva quei luoghi e ciò che vi era accaduto. Tanto più che alla luce di quanto aveva scoperto, voleva, doveva sapere perché Hojo gli aveva intimato di non avventurarsi mai più lì sotto. Che cosa voleva nascondergli? Qualcosa a proposito di sua madre, probabilmente. Serrò le labbra, la mandibola e tornò con lo sguardo agli schermi. C’era un lettore dvd collegato a uno di essi, forse contenente i record degli esperimenti effettuati sul fantomatico Soggetto CG. L’azionò e il monitor gli rimandò la stessa stanza che aveva appena visto. La differenza consisteva nell’angolazione dell’inquadratura e nella presenza di Hojo, curvo sul tavolo operatorio e intento a parlare con qualcuno di cui poteva intravedere solo i piedi e le mani, saldamente serrati dalle cinghie di contenzione. Trattenne il respiro.

“E così, ragazzo mio, siamo giunti alla fine.” stava dicendo lo scienziato “Potremmo definirlo un addio. O la fine di una proficua collaborazione.” Hojo rise, sinistro; e s’inarcò all’indietro, sotto la luce della lampada scialitica “Proficua per me, s’intende!” specificò poi “Ma dovresti essermi grato per l’onore che ti ho riservato. In fondo ho dato uno scopo alla tua patetica, insulsa esistenza.” concluse; e sì discostò dal tavolo per recuperare il bisturi dal vassoio con gli strumenti.

Di conseguenza scorse le fattezze dell’uomo che giaceva disteso sul piano, intubato e con la testa reclinata da un lato. All’apparenza privo di sensi. Sedato, sarebbe stato meglio supporre. Sgranò gli occhi, manco un battito e vacillò sul posto, incapace di distogliere lo sguardo dal viso che aveva popolato i suoi sogni di bambino e di adolescente. Con ricordi amari e dolci che ancora lo facevano sospirare.

“Vincent…” sussurrò; e poggiò anche l’altra mano sul tavolo, in cerca di sostegno.

Impotente osservò lo scienziato tanto odiato premere la lama nella carne dell’altro e ricalcare le vecchie cicatrici di un taglio a y. Con sgomento vide quell’uomo orribile imbracciare la sega chirurgica e spezzare lo sterno della persona lì distesa, aprendosi un varco nel suo petto. Il ronzio e il rumore d’ossa rotte gli strapparono un brivido freddo che gli percorse la schiena per tutta la lunghezza. Con orrore seguì le dita di quel macellaio, mentre affondavano, si tingevano di rosso e afferravano quanto cercavano senza alcuna delicatezza; in quella ferita pulsante, aperta direttamente nella carne viva. Provò l’impulso di chiudere gli occhi; proprio lui, l’eroe che aveva portato a termine la guerra contro Wutai. Spegnendo nel sangue anche il più piccolo focolaio di rivolta. Scosse la testa, deglutì e tornò a puntare lo schermo, notando solo in quel momento ciò che Hojo stringeva fra le mani insanguinate: una sfera al cui interno brillava un intero microcosmo. La Protomateria. E il mondo per come lo conosceva finì per sgretolarsi nuovamente, lasciandogli intravedere quella verità così dolorosa da essere addirittura inaccettabile.

Rivide Hojo, seduto dietro la scrivania del suo ufficio, col sogghigno disegnato sulle labbra sottili, la malizia impressa negli occhi piccoli, pungenti e quella stessa sfera fra le mani; mentre lo umiliava, si prendeva gioco di lui, dei suoi sentimenti e gli sbatteva in faccia la menzogna.

Digrignò i denti fino a farli scricchiolare. No. No! Non poteva essere! Tornò al lettore dvd, armeggiò freneticamente con i comandi e frugò fra le registrazioni più vecchie, alla ricerca di altre prove o dettagli che avrebbero potuto confutare quanto gli si stava angosciosamente delineando nella mente; ma per quanto smaniasse non trovò rassicurazioni nelle immagini a seguire. Vide il corpo nudo di Vincent collegato a una serie di elettrodi, lo vide sbattere e contorcersi. Vide le cinghie tendersi e tagliargli i polsi, le caviglie. Lo sentì gemere e urlare; e ciascuno di quei tormenti gli si ripercosse nell’animo alla stregua di una pugnalata. Nemmeno si stupì quando vide le fattezze umane dell’altro trasfigurare e acquisire i tratti bestiali dell’essere, del mostro, che aveva incontrato da bambino. In qualche modo, realizzò, l’aveva sempre saputo. Sentito. Ma era stato così cieco, così sciocco ed egoista da ignorare i segnali insiti nelle parole, nei comportamenti e nelle assenze ingiustificate dell’altro. Nei tratti del suo viso: bellissimi e immutabili, come una fotografia.

Affannato, sopraffatto dalla consapevolezza, smise di tormentare il lettore dvd e lasciò allo sconforto la possibilità di attanagliarlo: era stato lui ad abbandonare Vincent, a voltargli le spalle. A lasciarlo tra le grinfie di Hojo. Perché Vincent non se n’era mai andato, né era mai stato uno degli inservienti o degli assistenti di Hojo. Si era lasciato ingannare dallo scienziato. Aveva visto soltanto quello che voleva vedere; e le sue insicurezze avevano fatto il resto. E ora della persona che amava non era rimasto che il ricordo. E il rimpianto. Chinò il capo, incurvò le spalle e restò immobile, appoggiato alla scrivania. Annichilito dal vuoto, schiacciato dalla colpa; mentre dal monitor giungevano i suoni di un avvenimento passato che quasi non riusciva a toccarlo dal baratro in cui era scivolato.

“….dovresti vedere i risultati che ha ottenuto.” diceva la voce sottile dello scienziato, appena alterata dalla riproduzione digitale “È preciso, letale, infallibile. Il Progetto Jenova è un gran successo! Il Presidente Shinra ne è davvero soddisfatto. Si è perfino congratulato con me! E ha deciso di aumentare i fondi destinati alla ricerca del 5%...”

La menzione a sua madre lo riscosse appena e lo portò a dirigere lo sguardo nuovamente sullo schermo e sulla figura di Hojo, che camminava febbrilmente avanti e indietro innanzi alla telecamera.

“Ha un nome. Usalo.” lo ammonì Vincent, saldamente trattenuto dalle cinghie.

Lo scienziato tacque, arrestò il passo e guardò la cavia con sufficienza, probabilmente infastidito dall’interruzione. Poi si aprì in un ghigno sferzante e riprese da dove aveva lasciato, ricominciando a muoversi avanti e indietro, le mani giunte dietro la schiena.

“Fossilizzarsi su dettagli insignificanti è tipico di chi possiede una mente semplice.” puntualizzò Hojo; e notò che la voce gli era salita di una tonalità “Anche quella stupida femmina non è riuscita a vedere oltre il suo naso. Pensava che una volta dato alla luce il bambino avrebbe potuto giocare a fare la madre. Ah! Semplicemente imbarazzante. Uno scienziato che si rispetti non perde mai di vista l’obbiettivo!” il professore scosse la testa, dolente; poi fece spallucce e soggiunse “Ma suppongo che da una donna mediocre come lei non potessi aspettarmi di meglio…”

A quell’allusione Vincent contrasse i muscoli e scattò in avanti, gli occhi roventi. Le cinghie si tesero, crepitarono e si allungarono oltre l’effettiva portata, affondando nella carne. E per un attimo pensò, sperò, che le avrebbe spezzate. Anche se il passato non si poteva cambiare. Doveva averlo pensato anche Hojo, comunque, perché sullo schermo lo scienziato balzò indietro e cacciò un verso stridulo.

“Lei… Lucrecia…” ringhiò invece Vincent “…era una scienziata brillante e appassionata! Sapeva sorridere ed essere gentile! Ma sei arrivato tu. Tu! Ti sei approfittato di lei. Le hai offuscato la mente e il cuore con le tue pericolose ambizioni! E lei non lo vedeva, non poteva, ma amava il suo bambino più di ogni altra cosa. E tu glielo hai portato via!” urlò; e ricadde sul lettino, affannato “Tu l’hai uccisa.”

Lo scienziato restò a debita distanza dalla cavia, ma fremette da capo a piedi e strillò, rosso come un peperone: “Ah! Che assurdità. Quella stupida ha fatto tutto da sola! Si è uccisa perché era nient’altro che una pusillanime! E Sephiroth non è mai stato un bambino come gli altri! Non aveva bisogno di una madre!”

Batté le palpebre e deglutì, mentre il battito del cuore gli arrivava in gola e fin dentro le orecchie al semplice suono di quelle parole. Che cosa aveva appena detto quel verme? Sua madre si chiamava Jenova. Era morta subito dopo averlo messo al mondo. Sua madre… I versi di una vecchia favola gli solleticarono improvvisamente la memoria, prendendo il posto delle sue frenetiche elucubrazioni; e, mentre la verità si rimodellava nella mente, la registrazione gli rimandò senza margine d’errore il prosieguo di quell’impietosa invettiva.

“Lui è… una cosa. Una macchina da guerra implacabile e infallibile! La perfetta miscela di Mako e Cellule Jenova. Il prodotto meglio riuscito della serie e il mio risultato scientifico più grandioso! Quello che mi garantirà di passare alla storia come la mente più ingegnosa dell’intero Pianeta!”

“È di tuo figlio che stai parlando!” sputò Vincent, stringendo i pugni, digrignando i denti.

Lo scienziato tacque e guardò l’altro come fosse qualcosa d’insignificante.

“Il fatto che sia mio figlio è una mera e ininfluente coincidenza.” puntualizzò quindi; e rise. Rise di Vincent. Rise di lui.

Il suono così registrato andò a ottundergli l’udito, a perforargli il cervello, mentre il significato di quanto aveva appena ascoltato gli strappava direttamente l’ossigeno dai polmoni. E più di qualche battito. Vacillò ancora e piantò le dita sulla scrivania, incapace di muoversi, di ragionare lucidamente o di distogliere lo sguardo dalla figura del professore, di suo padre, che s’incurvava sotto la lampada scialitica e tremava di gioia sullo schermo innanzi a sé. Ma il peggio doveva ancora arrivare; e quando ascoltò le parole di Vincent, sentì qualcosa morirgli dentro.

“Sei un mostro senz’anima e senza vergogna! E mi fai pena… perché non capisci.” disse “Ti vanti dei tuoi risultati, di come Sephiroth sia diventato il perfetto SOLDIER che desideravi. E ti compiaci di quanto sia speciale, credendo di averne merito. Ma sei soltanto un uomo piccolo e cieco che neanche immagina cosa lo renda effettivamente tale. Sono bontà, gentilezza e sensibilità a renderlo migliore degli altri. Di te. E la sua volontà di resistere alla cattiveria, agli impulsi violenti della cosa dentro di lui. Ma tu questo non potrai mai capirlo.”

Deglutì ancora, una, due volte e sentì gli occhi pungere. Nessuno mai l’aveva accettato come Vincent. Nessuno mai aveva avuto così tanta fiducia in lui. In maniera totale. Ingenua. Perché, anche se aveva desiderato di corrispondere alle aspettative, lui non era affatto come l’altro lo descriveva. Perché, ora lo sapeva, fin da bambino era stato l’esperimento riuscito di Hojo. La perfetta miscela di Mako e Cellule Jenova di cui l’altro decantava. La macchina da guerra al soldo della Shinra. Il Generale temuto dai compagni e dai nemici senza distinzione. Unicamente capace di spegnere la propria sete nel sangue e di trarre soddisfazione dalla disfatta altrui. E dalla propria, incontestabile supremazia. Se solo avesse dato ascolto alla parte più oscura di sé, avrebbe volentieri fatto del Pianeta tutto un mare di lava incandescente, bruciando e spazzando via qualsiasi altra forma di vita inferiore. E ammetterlo gli provocò insperato sollievo.

Rise. Rise di sé, rise dell’ingenuità di Vincent e della vergogna che provava per averlo prima deluso e poi perso per sempre. Rise del destino che gli era toccato e di quanto fosse stato sciocco a pensare di poter intraprendere un cammino diverso. Di poter essere diverso dal mostro che era nato per essere. Ma ora che i suoi occhi erano aperti e vedevano chiaramente oltre il velo della menzogna, dell’inganno, sapeva esattamente dove andare. E cosa fare.

La rabbia sopraggiunse con la consapevolezza. Afferrò il monitor che gli rimandava le immagini del laboratorio sotterraneo e lo scagliò via. L’apparecchio descrisse un arco perfetto e andò a schiantarsi contro la parete, riducendosi in pezzi. Preso dalla frenesia gettò all’aria anche i computer, i fascicoli relativi al Progetto Omega e la sedia ivi disposta. Poteva solo immaginare tutte le volte in cui Hojo si era accomodato a quella scrivania per giocare con la sua cavia prediletta. Digrignò i denti, ringhiò e infierì sulle altre apparecchiature. Fece per lanciare da un lato anche il tavolo; ma si soffermò sul pannello di controllo delle porte e sulle luci gialle che si stagliavano una dietro l’altra, in fila. Si scansò i capelli dalla faccia, raggiunse il macchinario e senza pensarci due volte sbloccò gli accessi. Seguì un suono acuto, le spie divennero verdi e del clangore metallico risuonò per tutto il sotterraneo, lasciando intendere l’apertura dei passaggi. Il silenzio si stiracchiò per qualche istante, interrotto unicamente dal suo ansimare. Poi il ruggito si spanse stentoreo per l’ambiente, riverberando lungo tutti i muri e facendo tremare perfino i suppellettili del piccolo laboratorio in cui si trovava. Sorrise. Non gli interessava se era cosciente o meno. Finalmente l’aveva ritrovato… e stavolta non avrebbe permesso a nessuno di mettersi in mezzo.

Uscì dal laboratorio e percorse la strada a ritroso, passo svelto e cadenzato. Tornò alla biforcazione e guardò allo sbocco precedentemente ignorato. La luce andava e veniva, rendendo impossibile scorgere la fine del corridoio. Andò da quella parte; ma vociare e rumore di passi lo costrinsero ad arrestare il cammino. Voltò il capo e da sopra la spalla osservò la situazione. Un folto gruppo di soldati gli sbarrava la strada verso l’uscita del piano interrato, fucili puntati su di lui. Patetici.

“Signore!” l’apostrofò quello che riconobbe come il capitano della squadra di sicurezza “Ha infranto il protocollo, ha danneggiato le strutture del dipartimento di ricerca e si è introdotto in una zona preclusa e ad alto rischio. Sono certo che si tratta di un malinteso, ma la prego ugualmente di non opporre resistenza e di seguirci al quartier generale per effettuare rapporto!”

Un verso basso e gutturale fece eco all’ammonizione, serpeggiando sinistramente lungo le pareti. Di rimando lo sgomento si dipinse sulle facce dei soldati. Qualcuno fra essi indietreggiò, qualcun altro tremò, mentre la maggior parte di essi si guardava attorno senza capire, le mani rigidamente ancorate ai fucili. Perfino il capitano era sbiancato, forse sorpreso da quell’evento singolare e del tutto inaspettato. Hojo non li aveva informati, calcolò. Tanto più che non ravvisava lo scienziato fra essi. Scosse la testa. Era un codardo. Ma un codardo furbo, pensò.

Si lasciò scappare un piccolo sbuffo divertito e s’avviò lungo il corridoio che gli interessava, indifferente al gruppo alle sue spalle. E alle armi puntate su di lui.

“Questo è l’ultimo avvertimento, Generale!” urlò il capitano “Ci segua, o sarò costretto a spararle!”

Se l’immaginò, con il braccio alzato, pronto a dare il segnale di fuoco. Guardò dritto innanzi a sé e continuò a camminare, sordo agli ammonimenti. Il neon illuminò il corridoio, poi calò nuovamente il buio. Percepì uno spostamento d’aria e i suoi capelli, i suoi vestiti ondeggiarono. Quando tornò la luce, la creatura stava innanzi a lui e lo squadrava coi suoi grandi occhi gialli. Vincent. Il cuore aumentò i battiti. Chissà se riusciva a riconoscerlo… chissà se dentro di sé provava ancora delle emozioni. Si studiarono per attimi che parvero infiniti, mentre dietro di lui dilagava il panico, fra urla d’orrore, passi e voci concitate. Qualcuno fra i soldati non aspettò alcun segnale; e il rombo dello sparo invase il sotterraneo. Istintivamente serrò gli occhi. Il proiettile invece lo colpì di striscio sul braccio e poi andò a conficcarsi nel muro, lasciandosi dietro una scia di fuoco.

Si affrettò a riaprire le palpebre, incurante del bruciore, e vide le grandi ali membranose di Chaos schiudersi, proiettando alte ombre scure sulle pareti del corridoio. Schiuse le labbra, affascinato da così tanta magnificenza. Poi l’altro mostrò i denti e ruggì, così forte da scuotergli le membra, da ottundergli l’udito. S’irrigidì, mentre la creatura imprimeva un poderoso colpo d’ali e scattava in avanti a una rapidità incredibile; e quasi pensò che l’avrebbe aggredito. Invece gli sfrecciò accanto, investendolo soltanto con lo spostamento d’aria. I vestiti ondeggiarono, sbatterono e i capelli gli vorticarono attorno, coprendogli la visuale. Alle orecchie invece gli arrivarono chiari le urla, i versi inarticolati di Chaos e gli spari dei fucili. Labile difesa.

Si voltò a osservare la carneficina, ad assaporare il rumore della carne dilaniata, delle ossa in frantumi e dei lamenti strozzati nel sangue. Vide pezzi di membra cadere a terra e schizzi cremisi imbrattare le pareti, il pavimento a ogni morso, a ogni artigliata, mano a mano che la creatura si faceva largo verso l’uscita. Inebriato, s’incamminò a sua volta verso il piano superiore, seguendo la scia di distruzione che l’altro lasciava dietro di sé. Ad ogni passo gli stivali affondavano nella consistenza molliccia delle interiora e scivolavano sul pavimento viscido di sangue. L’odore era acre, pungente. Sapeva di polvere da sparo, di escrementi e di fluidi corporei. Sapeva di morte.

Raggiunse le scale che Vincent era già scomparso alla vista, inghiottito dalla luminosità abbacinante che si stendeva oltre l’uscita in cima. Iniziò l’ascesa con estrema tranquillità, accompagnato dal trambusto e dalle urla che dal piano superiore si riversavano nel sotterraneo. Sì, era così che doveva essere. L’equilibrio naturale delle cose era infine stato ripristinato. E c’era ancora qualcuno che doveva esserne messo a parte: un messaggio che avrebbe presto recapitato di persona. Sorrise fra sé, pregustando il momento, e continuò a salire, ammantato di una gelida calma che mai come in quel momento sentì totale. Dopotutto non doveva più fingere, né trattenersi. Doveva solo essere se stesso; ed era la cosa che gli riusciva meglio, pensò, mentre sfoderava la Masamune.

***
 
Corse a perdifiato lungo il corridoio illuminato di rosso. L’allarme era scattato solo da pochi minuti e la voce preregistrata continuava a ripetere l’ordine di evacuazione, assordante e leggermente metallica. Non sapeva come si fossero svolti i fatti, ma Sephiroth aveva varcato la soglia del sotterraneo e ora Vincent Valentine, anzi no, quella bestia dissennata di Chaos s’aggirava liberamente per i laboratori, disseminando morte e distruzione. Difficile dire dove finisse l’uno e iniziasse l’altra, comunque. Ma di una cosa era certo: stava cercando lui. Sapeva che era così. E l’unica via di salvezza era sparire senza lasciare traccia. I soldati e i sistemi di sicurezza della struttura soprastante non erano progettati per resistere a una simile furia…

Svoltò alla prima diramazione, incespicò nei propri piedi e finì contro il muro. Frappose le mani nel mezzo, riacquistò l’equilibrio e riprese la corsa. Il cuore gli batteva nel petto, nella gola e perfino nelle orecchie, come impazzito. Lo sforzo era indubbiamente superiore alle sue capacità fisiche, vuoi per l’età, vuoi per la scarsa prestanza, ma l’adrenalina lo sosteneva ancora adeguatamente. Doveva abbandonare il suo centro di ricerca. E in fretta. Il mondo non avrebbe pianto la scomparsa degli altri dipendenti. Dopotutto erano carne da macello, pedine sacrificabili per un fine superiore. Dovevano solo resistere per il tempo necessario. Ma lui non rientrava nella categoria e doveva assolutamente mettere al sicuro la sua mente geniale. Preservarla per il bene della scienza e del progresso. Tuttavia non poteva andarsene a mani vuote, senza le sue ricerche e i risultati di una vita. E tutto per colpa di quel ficcanaso di suo figlio!

Sfoderò una smorfia e lasciò schioccare le labbra, stizzito. Gli anni erano passati, sì, ma le vecchie, incresciose abitudini di Sephiroth erano rimaste le stesse: e suo figlio ancora non sapeva rimanere al suo posto. S’appuntò mentalmente di rimediare, se e quando ce ne sarebbe stata occasione, e s’infilò nel Settore D, dirigendosi di gran carriera all’ufficio che gli interessava. Si lasciò dietro la sala computer, sfrecciò oltre la divisione di coordinamento, attraversò lo spazio ristoro e raggiunse l’ingresso in questione che il fiato gli raschiava letteralmente la gola, tanto era affannoso. Puntò il lettore magnetico accanto alla porta e mise mano al proprio tesserino d’identificazione, pronto a sbloccare l’accesso. Passi, urla e parecchio clangore proruppero dal corridoio sulla sinistra, strappandogli un sussulto. Lasciò cadere il cartellino, complici le dita sudate, e adocchiò freneticamente da quella parte. Il passaggio era sgombro fin dove arrivava lo sguardo, ma il rumore parlava da sé. Doveva essersi avvicinato al pericolo, considerò; ma si costrinse a ignorare la paura. Si accovacciò a terra per recuperare quanto aveva perso e per lunghi, infiniti istanti annaspò con le dita sul pavimento. Quando sentì la sottile consistenza della plastica fra indice e pollice rilasciò un sospiro di sollievo. Tornò alla serratura, mentre il trambusto s’avvicinava inesorabilmente, e passò la banda nel lettore magnetico. Non appena il “beep” gli comunicò il via libera  si gettò di peso sulla porta.

L’uscio si schiuse e lo catapultò all’interno, richiudendosi poi alle sue spalle con un leggero tonfo. Caracollò in avanti di qualche passo per via dell’impeto e per poco non cadde a terra lungo disteso. Allargò le braccia, puntò i piedi e riacquistò l’equilibrio per un soffio; dopodiché andò rapidamente con gli occhi agli schedari che si stendevano per tutta l’area della stanza, ordinatamente disposti in file. Molta della roba lì contenuta non era che carta straccia: banali test su cellule animali, teorie senza alcun fondamento pratico sul Life Stream o dati inerenti ai suoi precedenti, straordinari risultati scientifici. Come quelli legati al suo sciocco e ingrato figliolo, ad esempio. Eppure c’era qualcosa di cui necessitava per il Progetto Omega, il suo ultimo, più grande esperimento. Adocchiò l’indicizzazione e individuò subito la fila e il numero di schedario che gli serviva. Lo raggiunse a grandi passi, lo aprì e per lunghi istanti scartabello fra le schede lì disposte. Infine trovò quanto cercava: i dati riguardanti il Soggetto W. Il vascello di Omega.

Piegò le labbra in un sogghigno soddisfatto e restò in contemplazione di quanto teneva fra le dita; ma l’urlo di una donna trapassò la consistenza della porta e lo riscosse dal suo personale angolo di compiacimento. Non si premurò di chiudere lo schedario; semplicemente rafforzò la stretta sui fogli che stringeva e si diresse all’uscita, nuovamente verso i corridoi del Settore D. Schiuse l’uscio e guardò all’esterno. La luce rossa si proiettava a intermittenza lungo i muri e la voce preregistrata echeggiava in ogni dove, sovrastando gli altri suoni. Ciononostante poteva riconoscere nel rumore di sottofondo le grida, i passi e… i versi inumani della bestia. Ingollò a vuoto. Attraverso lo spiraglio il corridoio appariva deserto, ma se voleva raggiungere il suo ufficio, recuperare ciò che gli mancava e abbandonare il dipartimento di ricerca  doveva rischiare. E continuare a correre, anche se le sue gambe erano pesanti, vittime dei crampi e scosse da insopprimibili, violenti tremori.

Lasciò scivolare i denti gli uni sugli altri, trasse un profondo respiro e sgusciò fuori dall’archivio. All’inizio annaspò, quasi i margini inferiori del camice cercassero di intralciarlo, di agguantarlo per le caviglie. Poi combatté contro la stoffa, contro i limiti del proprio organismo e in qualche modo riuscì a prendere il giusto ritmo, proseguendo abbastanza spedito. Imboccò il tragitto da cui era venuto: indubbiamente la strada più breve per il suo ufficio. Attraversò nuovamente la zona ristoro, passò una seconda volta davanti alla divisione di coordinamento e raggiunse la sala computer. Poco oltre tre individui, fra assistenti e inservienti, gli sfrecciarono accanto. Uno di essi quasi l’investì, così impegnato a guardarsi alle spalle da non prestare attenzione a dove metteva i piedi. Si gettò di lato, sul muro; e un brivido gli risalì la spina dorsale, carico d’anticipazione. Dopotutto poteva ben immaginare da cosa stavano scappando. E forse aveva commesso un frettoloso errore di calcolo quando aveva assunto che la via più breve fosse anche quella più sicura. Tanto più che il suo respiro era ormai un rantolo doloroso, che gli graffiava la gola e i polmoni. Le sue gambe erano molli, intorpidite. Il sudore invece gli imperlava la fronte, gli bagnava il petto e la schiena, scendendo a rivoli lungo le tempie e il collo. Era sfinito. Indugiò contro la parete, gli occhi rivolti alla svolta che l’attendeva, pochi passi avanti a sé: un angolo cieco che accresceva soltanto la paura dell’ignoto. Percepì pietosi lamenti, qualche supplica e passi concitati provenire proprio da lì. Tremò e, mano a mano che i secondi si susseguivano, avvertì il pericolo accendersi in ogni cellula del corpo; poi un sonoro ruggito face eco ai lamenti e si ripercosse sulle pareti, facendole tremare. Non c’erano più dubbi: stava arrivando. E lui era sulla sua strada.

Avrebbe voluto fuggire nella direzione opposta e mettere quanta più distanza possibile fra sé e la creatura; ma il suo cervello sempre reattivo non riusciva a inviare i giusti impulsi al resto del corpo, condannandolo all’immobilità. Panico. Ne era pienamente conscio eppure completamente incapace di contrastarlo, ormai intrappolato in un velo di sudore gelido. Con orrore puntò le ombre che si proiettavano sulla porzione di corridoio che riusciva a scorgere da dietro l’angolo. Vide la sagoma dell’uomo arrancare, cadere e rialzarsi per continuare a correre disperatamente. Percepì lo spostamento d’aria, riconobbe le ali enormi di Chaos schiudersi, offuscare la luce dei neon e proiettare ombre più lunghe, più scure sul pavimento e sulle pareti. Tremò, scosso dal verso inumano, rabbioso della creatura. Di rimando si appiattì lungo il muro e serrò le palpebre. Poi urla soffocate e rumore di membra dilaniate si ripercossero nelle sue orecchie, quale nefasto preludio. Riaprì gli occhi, strinse le schede al petto e portò la mano libera alla bocca, impedendosi così di emettere anche solo un fiato. Oltre l’angolo, disegnate sulla parete, le due sagome apparivano come una. Incapace di distogliere lo sguardo, vide le ombre muoversi, separarsi con un sonoro, netto schiocco; e qualcosa accasciarsi a terra con un tonfo. L’arto di Chaos si tese all’indietro per poi scagliarsi rapidamente in avanti. Qualcos’altro volò oltre la copertura, lungo la porzione di camminamento visibile, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue. Quando riconobbe nell’ammasso di carne la testa dell’uomo ancora attaccata a parte della colonna vertebrale, sentì le forze venirgli meno. Dall’altra parte, così vicino, Chaos indugiava in piedi lungo il corridoio, emettendo un basso, sordo ringhio. E pensò che stesse annusando l’aria, captando la sua paura. Annaspò in cerca d’ossigeno e per poco non fece cadere a terra i fogli, rivelando così al mostro la sua posizione. S’irrigidì ulteriormente, quasi si accartocciò su se stesso, incapace di fare altro se non aspettare l’inevitabile. O sperare nella buona sorte: un concetto non dimostrabile e in cui non aveva mai creduto. Gli occhi fissi sui resti di colui che l’aveva preceduto.

Improvvisamente udì altri passi, altre urla in lontananza. E l’ombra di Chaos si ritrasse con un ruggito per tornare da dov’era venuta, all’inseguimento di chi era stato così sciocco da attirare la sua attenzione. Scivolò a terra, lungo la parete, col cuore che gli batteva così forte nel petto da fargli vibrare tutta la gabbia toracica. Ansimò, tremò e si asciugò il sudore dalla fronte con la manica del camice. L’universo doveva essere dalla sua parte, considerò brevemente; ciononostante non poteva restarsene lì accovacciato, non quando gli era stata riservata l’occasione di proseguire e di perseverare nei suoi intenti.

Si appoggiò al muro retrostante, fece forza su di esso e si rialzò faticosamente. Era troppo vecchio per simili sforzi. Barcollò e riprese la marcia, a dispetto del dolore, a dispetto della fatica. Ignorò il corpo smembrato che stava ai suoi piedi, ignorò l’allarme, i colpi di fucile e le urla sempre più disperate, lasciandosi alle spalle il Settore D. Lungo la strada qualcuno l’appellò, lo scosse per le spalle, forse per spingerlo a seguire il piano di evacuazione. Ciononostante si scrollò di dosso i seccatori e, senza guardare in faccia a nessuno, svolta dopo svolta, passo dopo passo, raggiunse finalmente la soglia del suo ufficio.

L’interno era in ordine, esattamente come l’aveva lasciato quella mattina quando era uscito per il giro di controllo dei laboratori, attorniato dai suoi assistenti. Si diresse alla scrivania senza chiudersi la porta alle spalle, aggirò il piano colmo di carte e andò con la mano alla maniglia del primo cassetto. L’aprì e il prezioso contenuto rotolò verso l’esterno. La Protomateria rifulgeva nella penombra del vano, in attesa di lui. Si umettò le labbra, descrivendone brevemente la lucida linea; dopodiché l’afferrò con decisione e s’incamminò nuovamente all’uscita. Doveva sbrigarsi e abbandonare l’edificio una volta per tutte. Se avesse rispettato i piani di sicurezza come tutti gli altri idioti lì presenti non ce l’avrebbe fatta. Il panico ormai dilagava e le uscite d’emergenza dovevano essere intasate, colme d’individui mediocri che spasimavano per la propria, inutile vita. Tuttavia, come la maggior parte del personale ignorava, si poteva uscire anche dal vano smaltimento rifiuti. Ironico che dovesse ringraziare proprio Vincent Valentine e i suoi vecchi tentativi di fuga, per questo.

In prossimità della soglia sollevò lo sguardo e il cuore mancò un battito. Non l’aveva nemmeno sentito arrivare, ma Sephiroth stava in piedi sull’uscio, algido nella sua impeccabile, austera figura. E gli sbarrava la strada: uno scenario che non aveva previsto. Barcollò all’indietro per lo sgomento e face appello a tutta la propria forza di volontà per restare in piedi.

“Stava andando da qualche parte, professore?” esordì l’altro; poi il ragazzo sfoderò un sorrisetto malizioso “Quando la nave affonda il capitano affonda con essa. Ma i ratti fuggono sempre per primi dalla stiva, non è così?” lo schernì; e i fogli, la Protomateria gli caddero di mano.

La sfera rimbalzò a terra, sui documenti e rotolò sul pavimento, raggiungendo gli stivali del First Class. Con estrema tranquillità Sephiroth si chinò e la raccolse con un unico, fluido gesto. S’irrigidì e fece un passo avanti, desideroso di strappargliela di mano; ma di fatto non c’era niente che avrebbe potuto fare per impedirgli di toccarla. Non subito, almeno. Inarcò le sopracciglia, storse le labbra e strinse i pugni, mentre l’altro se la rigirava fra le dita con perfetta nonchalance.

“Questa la prendo io.” affermò il Generale “Dopotutto non ti appartiene.” soggiunse; e lo puntò dritto negli occhi con le sue iridi serpentine.

Sembrava sicuro di sé, calcolò, e nel suo sguardo non c’era traccia di dubbi. Solo malizia e un pizzico di disprezzo; ma a differenza di Vincent Valentine, o di ciò che ne rimaneva, considerava Sephiroth un avversario alla sua portata. Non sapeva di preciso cosa avesse scoperto nel sotterraneo, di certo non si era aspettato di fronteggiarlo così presto e in un simile, scomodo momento, ma con un po’ d’astuzia e la giusta calma era sicuro di poter ancora volgere la situazione a proprio vantaggio. Di indurlo alla ragione. Di rimando si spazzolò i lembi del camice, si riavviò i capelli e si sistemò meglio gli occhiali sul naso, dandosi una sorta di contegno.

“E a chi apparterebbe? A te, forse?” domandò, retorico “O magari a quella bestia dissennata.” sottolineò infidamente, cercando invero di capire se l’ex Turk fosse ancora il nervo scoperto di suo figlio. E il giovane First Class non mancò di dargli soddisfazione.

“Il suo nome è Vincent.” puntualizzò infatti; e ciò gli conferì ulteriore sicurezza.

Scrollò le spalle e soggiunse: “Affannarsi è inutile, Sephiroth. Se n’è andato. E stavolta per sempre. Credi che riesca a ragionare? Che ti riconosca? Ah! Sciocchezze. L’unica cosa che gli interessa è distruggere. Cose, persone. Tutto quanto. È stato il Pianeta stesso a designarlo per questo. È la sua natura.”

Il Generale non replicò e seguitò a presidiare l’ingresso senza colpo accusare. Assottigliò le palpebre, incerto su come interpretare simile comportamento. Era già consapevole della sorte toccata a Valentine o non gli importava, contrariamente a quanto presupposto? Quale che fosse la risposta non poteva esitare, rimanere in silenzio o l’altro avrebbe percepito il suo netto svantaggio.

“Capisco che tu sia sconvolto.” convenne “Ma è così che dovevano andare le cose, Sephiroth. E la Protomateria è più utile nelle mie mani che nelle tue.” specificò; e tese anche il braccio, in attesa che gliela restituisse.

A dispetto della sicurezza ostentata, l’arto gli tremava. L’ignorò e continuò ad aspettare come niente fosse. Tuttavia il First Class restò immobile e in silenzio, a fissarlo di lontano. Nient’affatto propenso a venirgli incontro. Non si era di certo immaginato una resa immediata e senza condizioni, ovviamente, ma sotto la facciata da Generale dei SOLDIER Sephiroth era sempre stato un tipo emotivo. La persona che aveva di fronte in quel momento, invece, non aveva niente del ragazzo che ricordava. E non sapeva cosa aspettarsi. O come prenderlo, s’accorse con sgomento. L’idea che stesse semplicemente giocando con lui, logorandogli i nervi col silenzio, con l’attesa, andò improvvisamente a stuzzicarlo. Dopotutto non aveva tutto il tempo del mondo e ne aveva già perso a sufficienza. Ciò lo destabilizzò ulteriormente. Digrignò i denti, ritrasse il braccio e rispose con aggressività alla freddezza.

“Possibile che tu non te ne renda conto?” domandò quindi “Ho fatto tutto questo per te! Per noi! Per un grandioso, straordinario disegno che ancora ti ostini a non vedere! Di certo non potevo permettere a quel piccolo, sporco Turk di mettersi in mezzo e di rovinare tutto! Ho dovuto distruggerlo.” si umettò le labbra; e si accorse che la rabbia aveva infine preso il sopravvento sul timore, forse aizzata dall’ingratitudine dimostratagli. Si concesse un lungo, mesto sospiro e cercò di riacquistare la calma; poi sfoderò un’espressione più morbida e soggiunse: “Intralciarmi non ha alcun senso, Sephiroth. Sono l’unico alleato che hai. Che hai sempre avuto. E la sola cosa che puoi fare per lui, per quella bestia, è porre fine alla sua follia. Alla sua sofferenza. Sarebbe misericordioso da parte tua, non trovi?”

Quell’ultima precisazione infranse l’immobilità del Generale, perché Sephiroth scosse la testa e rise. Un suono così lugubre da fargli accapponare la pelle.

“Sembrerebbe un suggerimento saggio. Quasi appassionato.” commentò poi, le labbra arricciate verso l’alto in un terribile sogghigno “Comodo per cavarsi d’impaccio, soprattutto. Mi sbaglio?”

L’ulteriore scherno contribuì a mandare definitivamente in frantumi la sua maschera di compostezza.

“Io so cos’è giusto per te, ragazzino!” strillò, i pugni serrati e le braccia adese ai fianchi “Dovresti obbedirmi, portarmi rispetto! Da quando sei nato ho sempre agito nel tuo interesse! Sempre. E guarda dove sei arrivato! Chi sei diventato!” sottolineò, puntandogli l’indice contro “Tutto il Pianeta ti acclama come eroe! E Valentine… Ah! Non devi proprio niente a quel Turk! Per lui sei sempre stato nient’altro che un insignificante, pietoso surrogato di…”

 “…di mia madre.” concluse Sephiroth “Di Lucrecia.” specificò; e nel sentire quel nome pronunciato dalle vivide labbra di suo figlio perse tutta la ferocia e fece un passo indietro.

Si morse il labbro inferiore e cercò sostegno nella scrivania retrostante. Le dita sudate scivolarono sul piano e per poco, vuoi per le gambe molli come burro, vuoi per lo sgomento, non finì col sedere per terra.

“Faresti meglio a tenere per te la tua ragnatela di bugie.” continuò l’altro; e fece un passo avanti “Sei sempre stato bravo con le parole, devo ammetterlo. Ma stavolta non ti serviranno. Vedi, non sono mai stato più conscio del mondo attorno a me. E so esattamente cosa stai cercando di fare… padre mio.”

Il Generale rise e scrollò il capo, le spalle, compiendo un altro passo in avanti. Di rimando aderì alla scrivania, affatto sorpreso di sentirsi appellare in quella maniera. Più un moto di scherno che un effettivo riconoscimento, comunque. Ingollò a vuoto; mentre l’altro accorciava ulteriormente le distanze, prendeva la Protomateria con la sola destra e lasciava indugiare la sinistra sull’elsa della Masamune. Sentì lo stomaco contrarsi.

“Sephiroth!” strillò, tremò e deglutì ancora, come se avesse un limone incastrato in gola “Non puoi farmi questo! Io sono tuo padre! Sangue del tuo sangue!” strillò ancora, guardandosi freneticamente attorno, alla ricerca di una via di fuga o di qualcosa con cui difendersi “Possiamo ancora uscirne puliti. Insieme. Restituiscimi la Protomateria, uccidi quel mostro e sarai l’eroe che ha salvato il dipartimento di ricerca! Il Presidente Shinra ti ricompenserà di certo!” spergiurò, vittima del panico “Potresti addirittura prendere il posto di Lazard nei SOLDIER e io…”

Sephiroth rise più forte, di lui, delle sue speculazioni; ed estrasse la katana. La Masamune baluginò nell’ambiente, ma ciò che maggiormente l’atterrì fu il sangue che già ne macchiava il filo della lama. E capì che suo figlio aveva preso la sua decisione molto prima di mettere piede in quell’ufficio, falciando chi aveva osato mettersi sul suo cammino. Mancò un battito e si artigliò al piano retrostante, occhi e bocca sgranati. Dall’alto, Sephiroth lo fissava così come un gigante avrebbe fatto con una formica.

“Un ragionamento ineccepibile, professore.” disse; il suo tono di voce era calmo, ma nella freddezza dei suoi occhi non c’era comprensione, né pietà “Ma ti è sfuggito un dettaglio importante: io non sono un eroe.” puntualizzò; e rise, stavolta più mestamente “Non è buffo? Sono sempre stato così intimorito da te, un misero omuncolo senza spina dorsale, da confondere chi fra i due fosse realmente il mostro.”

Rabbrividì, incapace di muoversi, incapace di parlare o di fare altro che esulasse dal fissare l’essere lì davanti, terribile nella sua glaciale determinazione. Sephiroth si chinò su di lui, così vicino da sfiorargli le membra con i capelli, e gli sussurrò all’orecchio.

“Dimmi, come ci si sente?” gli domandò; e rabbrividì al semplice suono di quella domanda insidiosa “Tutto ciò in cui credevi è stato ridotto in pezzi. Le tue certezze sono state spazzate via. E il potere che pensavi di possedere si è rivelato nient’altro che un’illusione. Non hai mai avuto controllo su di me. Su di noi. Ma la troppa sicurezza ti ha reso cieco. E ottuso. La verità è che sei niente. E ora il pavimento sembra crollarti sotto i piedi. Il cuore sembra esploderti nel petto. Spaventato e messo alle strette dai tuoi stessi strumenti. Temi di morire a un passo dalla meta. E di essere dimenticato, di passare alla storia come uno dei tanti nessuno che sono morti prima di te, accecati dalla vanagloria. Perché nel profondo, oltre l’istinto di sopravvivenza, sai che è questo ciò che succederà…”

Digrignò i denti, oltraggiato da quel dire così irriverente.

“…e io mi assicurerò di bruciare ogni cosa di questo posto. E di bruciarne le ceneri. Finché del tuo passaggio su questo mondo non resterà niente. O nessuno che lo ricordi.”

No. Non gli avrebbe permesso di passarla liscia, di vanificare così tutti i sacrifici che aveva fatto in anni di duro lavoro.

“Tu, piccolo ingrato…” sibilò.

Con dita tremanti afferrò la stilografica che stava sulla scrivania e cercò di colpirlo nell’occhio, sperando di toglierselo di dosso il tempo necessario per scappare.
Il Generale si scansò, schivò la penna e sollevò il braccio. Di rimando la Masamune descrisse un lungo arco argentato, tagliando perfino l’aria con un sordo sibilo. Cacciò un singulto e lasciò cadere l’arma impropria, ma grazie all’adrenalina guizzò in avanti, con tutta l’intenzione di imboccare l’uscita e far perdere le proprie tracce. Il pensiero fu meno veloce della stoccata. La lama penetrò all’altezza della spalla e lo trapassò di netto, inchiodandolo alla scrivania. Urlò e serrò gli occhi, mentre il fuoco si diffondeva dall’arto a tutto il resto del corpo, intorpidendolo. Le gambe cedettero e per lunghi, dolorosi istanti restò appeso per la ferita. Urlò ancora e slittò sul pavimento, cercando la forza per rimettersi in piedi. Innanzi a lui, Sephiroth presenziava impassibile.

“Infido fino all’ultimo, noto.” commentò “E che sia chiaro: il fatto che tu sia mio padre è una mera e ininfluente coincidenza.” stabilì il SOLDIER prima di dargli le spalle.

Batté le palpebre, sibilò di dolore e lo guardò allontanarsi. Sephiroth uscì, ma indugiò in prossimità della soglia. Non capì; e quasi pensò di aver ottenuto quanto desiderava. La sopravvivenza. Aveva perso la Protomateria e i dati relativi al Progetto Omega, ma aveva conservato la cosa più importante: la sua mente geniale. Sì, certo!, considerò febbrilmente: con essa non avrebbe faticato a ricominciare da capo; e gli imprevisti, le avversità erano sempre state uno stimolo a fare di più. A osare di più. Doveva solo liberarsi e…

“Sta arrivando.” disse Sephiroth; e soltanto allora, oltre l’allarme, oltre il trambusto di sottofondo, riconobbe il verso basso e gutturale di Chaos. E il disegno di Sephiroth.

Il cuore prese a battergli all’impazzata nel petto, lo stomaco gli si accartocciò su se stesso, mentre alla mente gli tornava nitido soltanto il dettaglio della testa di quell’uomo, divelta con parte della colonna vertebrale ancora attaccata. Annaspò, senz’aria. Andò con le mani alla Masamune e piantò i palmi nella lama, nel disperato tentativo di liberarsi. Sgusciò, tentò di nuovo, sordo al dolore e al sangue caldo che gli scorreva sulle braccia; ma la lama era stata impressa così a fondo nel legno da risultare inamovibile. Il panico sopraggiunse subito dopo. Scalciò e cercò di alzarsi, di scappare, anche a costo di strapparsi via il braccio. Inutilmente. Percepì un tonfo in lontananza. Puntò le iridi alla porta. Seguì un altro tonfo, nettamente più vicino. Infine, con un ruggito poderoso, Chaos abbatté l’ultima barriera e irruppe nell’ufficio, sfondando la porta e parte del muro come fossero fatti di cartapesta. Mentre gli si gettava addosso, gli artigli protesi e le ali spalancate, il buio calò su di lui. E urlò. Urlò fino a perdere la voce, fino ad assordarsi. Artigliata dopo artigliata. Di lontano la voce di suo figlio recitò, impassibile: “E così il Soldato affrontò il Ragno Tessitore e vendicò la Principessa cui era stato rubato il sorriso.”

***
 
Sentì pulsare. Dapprima piano, poi sempre più vigorosamente. Batté le palpebre e trasse un profondo respiro, come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno. Non sapeva dove si trovava e le uniche certezze risiedevano nel calore che avvertiva sulla pelle, nel sapore acre che aveva in bocca e nelle urla, nei lamenti che di tanto in tanto gli raggiungevano l’udito. Sollevò lo sguardo: selvagge volute si arrampicavano lungo i pilastri e le travi del luogo in cui si trovava, annerendo e consumando ogni cosa. Un pezzo del soffitto crepitò, si sfaldò e cadde al suolo, a pochissima distanza da lui, portandosi dietro fiamme, scintille e fumo nero. Non vi badò.

Si portò le estremità superiori innanzi al viso, invece, e adocchiò con attenzione i propri artigli. Erano viscidi, interamente sporchi di sangue. I rivoli cremisi gli arrivavano ben oltre i gomiti, ormai raggrumati in macchie più scure, e gli incrostavano la pelle tanto da tirargliela. Doveva averne degli altri anche sulla faccia e lungo il collo, perché si sentiva sporco e appiccicoso anche lì. Emise un verso basso, vibrante e provò a schiudere le ali. Di rimandò impattò contro il muro; e un’altra porzione di cemento cadde a terra, sollevando polvere, detriti e altre volute di fuoco. Scoprì le zanne e ruggì, ritraendosi.  

“Vincent.”

La voce era maschile, calma. Si girò da quella parte. Accanto a sé c’era l’uomo dai capelli argentati, col braccio teso e la mano poggiata sul suo petto. Al di sotto di essa, il calore avvampava e il cuore –il suo cuore- batteva ormai all’impazzata. Schiuse le labbra, i canini che premevano internamente, inclinò appena il capo e lo fissò dritto negli occhi, senza capire. Vincent…? Vincent. Non sapeva cosa significasse, ma per un istante si chiese se un tempo era stato umano anche lui. Provo a ripetere la parola ma dalla sua bocca uscì nient’altro che un gorgoglio incomprensibile. L’altro corrucciò le sopracciglia e scosse la testa. Poi sorrise mestamente.

“È troppo presto. Andrà meglio, vedrai.” disse; ma non sembrava crederci davvero, perché le iridi smeraldine che lo stavano scrutando erano velate dall’incertezza.

Accusò una fitta al petto. Non sapeva dove si trovasse, chi fosse o cosa era successo, ma conosceva quell’uomo. Lo sentiva. Perché era l’unica cosa sulla faccia della terra che, nonostante l’odio, nonostante la rabbia e il tormento, non era disposto a dilaniare. Forse proprio per questo, non riusciva a sopportare la luce fioca di quegli occhi.

“… phi… roth…” gorgogliò; e l’altro s’illuminò per un flebile istante.

Allungò anche il braccio, gli artigli e fece per sfiorargli il viso. Voleva… consolarlo? Non seppe rispondersi, ma non poteva toccarlo. Non quando ogni centimetro di sé era ricoperto di sangue. Emise un basso, vibrante lamento e ritirò la mano artigliata. Di rimando Sephiroth si protese in avanti, afferrò l’arto in questione e gli impedì di sottrarsi. S’irrigidì appena, mentre l’altro lo fissava intensamente, affatto intimorito da lui; poi Sephiroth chinò lo sguardo, il capo e si portò il dorso della mano artigliata alle labbra, posandovi un bacio delicato.

“Perdonami.” disse; e strinse febbrilmente con le dita, indugiando in una specie di carezza “Per essere stato così cieco. Per non aver capito… che da me a te non c’era che un passo di distanza.”

L’altro s’inginocchiò davanti a lui e protese ambo le braccia. Gliele passò attorno alla vita e lo strinse a sé come fosse la cosa più naturale del mondo. Lo lasciò fare, cercando di capire il senso della situazione e delle parole.

“Ma non permetterò più a nessuno di farti del male. Né di mettersi in mezzo.” proferì; e il tono della sua voce si fece più duro “Finalmente mi è tutto chiaro. Ho capito chi sono, cosa voglio. E non ho più intenzione di scappare da me stesso.” proclamò “Insegnerò loro, a questa stolta umanità, il vero significato della paura, del dolore. E che il tradimento si paga col sangue. Hanno avuto a disposizione l’Eden e guarda cosa ne hanno fatto! I Reattori ne usurpano la vita, la guerra ne annerisce le lande. C’è bisogno di un nuovo inizio. Brucerò ogni cosa dalle fondamenta, eradicherò la speranza dai loro cuori, e quando il suono della disperazione riempirà l’aria, infliggerò a questo Pianeta corrotto il colpo decisivo. Il mio sarà un castigo misericordioso, perché libererò l’umanità dalla menzogna, dalla cupidigia, e libererò il Pianeta dal cancro dell’umanità. Con te al mio fianco darò inizio a un’era in cui saremo liberi. E padroni dell’Eden che ci è stato negato.”

La determinazione di Sephiroth, la sua voglia di distruggere stuzzicarono la parte più viscerale, più ferina di lui. Fremette da capo a piedi, contrasse i muscoli e serrò spasmodicamente gli artigli, emettendo un lungo, basso ringhio. Carico d’anticipazione. L’altro sollevò il capo e lo guardò dal basso, senza smettere di abbracciarlo.

“Con te al mio fianco. Finalmente insieme.” reiterò, in attesa; e nei suoi lineamenti, nelle sopracciglia corrucciate, negli occhi colmi di languore, gli sembrò di scorgere una supplica e una speranza “La strada che voglio percorrere è in salita, senza uscite. Proprio come dicesti tu. Ma non dev’essere per forza solitaria. Perciò stavolta andiamo insieme, come un tempo.” soggiunse; e rafforzò la stretta delle braccia.

Il calore di Sephiroth andò a scaldarlo più delle fiamme e molto più in profondità, risvegliando sensazioni sopite. E qualche vecchia reminescenza: un bacio mancato, un desiderio disatteso. Non capiva bene la situazione, ma di una cosa fu improvvisamente certo: gli bastava ricambiare quello sguardo per ricordare che sì, un tempo era stato umano; e che l’aveva amato immensamente. E che ciononostante l’aveva perso, come aveva perso qualcun altro prima di lui. E che senza ciò che aveva ritrovato sarebbe stato nuovamente null’altro che un mostro, incapace di provare emozioni o sentimenti. Eccetto il primordiale desiderio di distruggere…

Il soffitto crepitò e altri detriti caddero dall’alto, trascinandosi dietro fiamme e fumo. Di rimando ricambiò l’abbraccio, schiuse le ali e avvolse Sephiroth fra le membrane rosso scuro. Voleva… proteggerlo? Sì. E tenerlo con sé. Il cemento impattò su di lui e scivolò oltre, sul pavimento, mentre l’altro rilasciava il fiato, gli passava le braccia attorno al collo e gli si avvinghiava maggiormente addosso. Come se avesse aspettato quel momento da anni. Percepì umido, captò un lieve singhiozzo e accusò un’altra fitta al petto. Di rimando emise un basso, lungo ringhio di cordoglio. Non voleva che soffrisse. Voleva che sorridesse, invece; e nel futuro di cui Sephiroth gli aveva parlato, quegli occhi verde smeraldo non si sarebbero più velati d’amarezza, realizzò: una prospettiva per cui avrebbe volentieri annientato qualsiasi altra forma di vita esistente. Come natura gli imponeva.
 
Quando la guerra delle bestie porterà la fine del mondo,
la dea scenderà dal cielo.
 
Ali di luce e oscurità si dispiegheranno.
Ella ci guiderà verso la felicità, il suo dono eterno.
La leggenda racconterà di sacrificio alla fine del mondo.
 
The end. oo' *e venne randellatta da tutti* (Sono... morto! °A° ndHojo; Sono rimasto bloccato in versione Chaos. =_=' ndVincent; Sono impazzito. Al solito, insomma. << ndSeph)
Ok, ok. Innanzi tutto scusate per la sparizione ma sotto le feste ho avuto un periodo parecchio impegnato. ^^' Ma sappiate che risponderò a tutti in questi giorni. >-< Giurin giuretto parola di lupetto! °A° *e venne randellata di nuovo*
Passando alla storia, avevo preannunciato che non sarebbe stato un finale roseo. oo' Non lo è. *fa ciao ciao con la manina al Pianeta* ùù''' Spero comunque di avervi intrattenuti piacevolmente e che quest'ultimo capitolo abbia chiuso in maniera soddisfacente tutte le parentesi aperte nei precedenti. Per eventuali domande sono a disposizione! Lol. Da una parte, comunque, mi rendo conto che questa conclusione faccia nascere domande del tipo "Ok, ma ora che ne sarà del Pianeta e di tutti gli altri?". O almeno io ci ho pensato... e da qualche parte mi è nato il desiderio di scrivere un prosieguo. Non so come e quando, però. (Cloud! *w* Vuoi essere il mio prossimo protagonista? *w* ndCompaH; Yoh! Finalmente mi prendi in considerazione! ** ndCloud; Pensa, Zack non morirà e potrà combattere con te i cattivoni che vogliono distruggere tutto! *w* ndCompaH; Evviva! *w* ndCloud; Però considera che Hojo è già morto e che a Nibelheim non sei stato modificato con le cellule Jenova, per cui sei un fante scarserrimo. oo' ndCompaH; <<''' ndCloud che fa le valige; Ma dove vai? °A° ndCompaH; Su un altro Pianeta, ovvio! °A° ndCloud) .
Non so dire come sia venuto il capitolo, ma sono comunque contenta e soddisfatta per essere riuscita a portare a termine il tutto. Fatemi sapere cosa ne pensate e se nel complesso la storia è ben strutturata! Naturalmente ringrazio tutti quelli che mi hanno seguita e commentata. Scrivere fanfiction è molto divertente, ma condividere quest'avventura assieme a voi è ancora meglio! Vi voglio bene! *w* Per concludere, se vi va e per chi non l'ha già fatto, potete trovare le mie altre storie nella mia pagina autore. O in alternativa qui: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=59904
A presto! *w*
   
 
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