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Autore: Erodiade    09/01/2015    1 recensioni
[Il Talento di Mr. Ripley]
Quello che le note non dicono, tra volere Dickie Greenleaf e essere Dickie Greenleaf.
A volte sognava che le bugie gli si ammassassero in gola sino a soffocarlo.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer e note: i personaggi appartengono al film The Talented Mr. Ripley di Anthony Minghella (1999), con interpreti Matt Damon e Jude Law. Qui per lo streaming. La pellicola è tratta dall'omonimo romanzo di Patricia Highsmith, a cui però non mi sono ispirata. Ringrazio Delia_Blue per avermi appoggiata nel delirio e per aver scritto lei per prima una shot (a cui si deve la mia ispirazione per questa).




I silenzi tra le note



 

"Don't you just take the past and put it in a room in the basement, and lock the door and never go in there? That's what I do."




Tom aveva avuto un bilocale a New York, grigio e stretto come i vicoli sudici del quartiere in cui abitava. Quattro pareti chiazzate d'umido, un materasso sfondato e nessuno spiraglio di luce che si degnasse di giungere a lui, la compagnia dei topi, le urla della coppia al piano di sopra

(i loro gemiti nella notte più fonda, parole volgari, risate alcoliche, le sue dita che si stringevano alle lenzuola sudate)

e assolutamente nessuno con cui parlare. Tom era bravo a confondersi nella folla fino a sparire, ma quando si trattava di socializzare con una persona che gli piaceva la lingua gli si attaccava al palato e non voleva saperne di scollarsi. Balbettava, e si sentiva così in imbarazzo, e le frasi non avevano alcun filo logico, e allora tanto valeva starsene zitto. Era sempre stato più bravo ad ascoltare che ad intervenire, ad osservare che ad apparire.

Gli unici momenti in cui eccelleva a comunicare erano quelli in cui mentiva. La voce si era sparsa tra chi di dovere. Serviva che si fingesse cameriere per una serata? Di certo era John Moore, di certo la sua fidanzata si chiamava Anne e lavorava al ristorante della 54esima da quasi un anno. Serviva un pianista per un concerto? Lui suonava il piano. Se anche non lo avesse saputo fare, avrebbe imparato – bastavano tre mesi, se la cavava con le imitazioni.

Aveva talento, per mentire. Ma non gli piaceva. Il problema di una menzogna era che non poteva durare, anche se la vita di un John Moore qualunque era decisamente più sopportabile della propria. Il problema di una menzogna era che, se fosse durata, sarebbe divenuta così enorme da seppellirlo.

Si era abituato, comunque. Aveva trascorso così tanto tempo indossando giacche in prestito che i vestiti altrui erano diventati un po' i suoi. Si affezionava ad alcuni ruoli più che ad altri. Il suo talento derivava dal fatto che ci credeva, lui credeva di essere chi si fingeva.

(E poi, badava a farsi pagare bene. Aveva un sorriso naturalmente timido, un aspetto naturalmente pulito, e nessuno sospettava che dal suo lavandino l'acqua con cui si lavava sapesse di ruggine, né dello sporco sul pavimento che non puliva. La gente pensava di poterlo raggirare, per questo lui sparava in alto coi prezzi e li vedeva soddisfatti di sborsargli la nutrita metà di una somma abbastanza contenuta per poter essere ammissibile, ma troppo elevata per essere trascurabile. Ci pagava l'affitto).

Se al Tom di Mongibello capitava di pensare a quella vita, provava nausea e il terrore attanagliante all'idea di esserci rispedito da Mr. Greenleaf, nel caso non gli avesse più girato gli assegni. Mai quel Tom avrebbe creduto di partire per l'Italia e di ricevere l'amicizia di Dickie, come un dono prezioso da stringersi al cuore.

(Aveva mandato a memoria i brani di Chet Baker, imparato a star sveglio oltre le 23:00, e stava studiando lo stile di Dickie – l'anello al mignolo, la trascurata eleganza della sua pettinatura, delle camicie profumate di talco che scivolavano sul petto abbronzato, i pantaloni di sartoria, i foulard di seta estiva).

Quelli come Dickie di solito non si avvicinavano a quelli come lui – neppure li guardavano, quelli come lui. Ma Dickie lo guardava. Se era con Dickie, stava quasi bene anche con se stesso. Tom Ripley alla fine doveva pur essere qualcuno: e perché non il compagno di avventure di Dickie Greenleaf?

(Che assurdità. Tom Ripley non valeva la metà di Dickie, era un nessuno, solo una sanguisuga che scroccava dollari a Mr. Greenleaf, uno che viveva a sbafo e faceva da terzo incomodo tra una coppia di fidanzati. C'era questo dietro ai sorrisi pietosi di Marge, questo e anche di peggio).

Mongibello era abbagliante nella sua bellezza. Il sole pareva illuminare ogni angolo di una luce dorata: galleggiava sulle onde, scaldava le mura colorate delle casette disseminate una sopra all'altra come in una pittura, accarezzava la sabbia e colpiva la pietra della chiesa. Gli italiani sfrecciavano sui motorini senza caschi, completamente disinteressati alla propria incolumità, o forse inconsapevoli di fronte ai rischi; vendevano frutta e verdura e pesce appena pescato, cantavano nel loro dialetto musicale fatto di vocali larghe e strette, facevano tutto con una passione che a Tom toglieva il respiro – dall'amore ai funerali. Secondo Tom era facile innamorarsi, in Italia. Era tutto troppo assolato per essere tristi, tutto troppo brillante e caldo per non notare l'avvenenza delle persone attorno. Le ragazze esibivano fianchi stretti e seni generosi, labbra turgide, scrutavano l'orizzonte con sguardi scuri, i capelli nerissimi scompigliati dal vento. I giovani uomini avevano pelli come cuoio levigato, occhi piccoli e lucenti, nasi imponenti e mascelle virili. Tom si era innamorato del posto, della semplicità surreale in cui era immerso, dell'atmosfera sospesa nel tempo in cui si cullava.

(E Dickie. Dickie con i suoi sorrisi affusolati, dolci e sfrontati insieme, e il singolo ricciolo biondo che gli ricadeva sulla fronte liscia. Dickie con gli occhi azzurri e l'espressione scanzonata, l'indolenza nei pomeriggi sulla sdraio, la frenesia ridente delle loro notti al club, tra la musica assordante e le luci della ribalta, la bocca al suo orecchio ad incitarlo, “Dai, Tom, non stare lì impalato!”, e poi a baciare quella scarlatta di una ballerina. Il modo in cui le sue mani cingevano la vita delle donne, stropicciando i loro vestiti, scivolando sfacciate troppo in basso).

Erano i giorni più belli della sua vita – quelli in cui il desiderio lo bruciava, lento e spietato come i raggi del sole italiano.

 

*

 

“Questo, questo...” Si mordeva le labbra, chiudeva gli occhi gettando il capo all'indietro. La gola esposta. Le dita della destra eseguivano una scala musicale nell'aria. “La melodia silenziosa tra le note, ascolta: il jazz è così, devi sentire quello che le note non dicono... lo senti?”

Tom inghiottì una bolla d'aria che aveva sbagliato direzione. Senza fiato. “Sì – sì, è bello.”

“Più che bello, è perfetto!” Si picchiò il ginocchio con un pugno, una disinvoltura tale da privare il gesto di violenza. Poi rialzò la testa, i capelli scomposti, e spalancò gli occhi. A volte erano azzurrissimi, altre sfumati di verde. Tom immaginò di essere di nuovo Robert Lenoir, quel ritrattista franco-americano, solo per chiedergli se avesse potuto dipingerli.

Dickie fece schioccare la lingua, l'aria di uno che non ha alcuna preoccupazione al mondo. “Dio, sai di cosa ho voglia? Di un sorbetto.”

“Possiamo uscire di nuovo. Credo siano ancora aperti, i locali... oppure no...? Oh, non mi ero accorto che fosse già così – così tardi.”

“Scherzi?” Sopracciglia inarcate, lo scherno stemperato dallo stupore. 'Non dire sciocchezze!' lo aveva ammonito una volta; Tom ricordava nei dettagli il misto di fastidio e ironia che i suoi tratti avevano assunto. “Non è tardi. A malapena le due. Perché siamo tornati indietro?”

A Tom scappava da ridere, come a volte gli accadeva davanti alla sua incostanza. Ed era imbarazzato, come sempre gli accadeva quando si trovavano tanto vicini. “Hai detto che dovevo assolutamente sentire il nuovo disco di Coltrane per colmare le mie lacune e che non ammettevi repliche da parte mia, ecco perché siamo qui.” I primi tempi era stato titubante e a disagio nel discorrere. Ora, parlare con lui era facile come respirare. Doveva persino controllarsi per non dire troppo.

Dickie sbuffò. “... so perché siamo tornati, intendevo: perché non abbiamo fatto qualcos'altro se la notte era appena alla sua alba?”

Tom osò un piccolo sorriso, alzando e abbassando lo sguardo verso il profilo dell'altro.

Dickie riemerse dalla sua impazienza per fissarlo interrogativo. “Che c'è?”

All'improvviso, a Tom parve idiota la propria reazione. Perché stava sorridendo, poi? Qualcun altro avrebbe sorriso, al suo posto? Forse no. Forse non era naturale sorridere per una cosa del genere. “... la notte alla sua alba... È, mmh, poetico?”

Perché doveva trovare divertenti espressioni che altri trovavano normali? Doveva sembrare proprio sciocco, con quel sorrisetto appeso alle labbra. Avrebbe voluto il sorriso spontaneo e sicuro di Dickie. Spesso glielo copiava allo specchio, donando al proprio volto una luce piena di fascino che non aveva mai posseduto, che Dickie sprigionava senza sforzo alcuno.

Questi lo stava sfoderando proprio allora. “Com'è che qualsiasi cosa tu dica sembra sempre una domanda?” Per un attimo Tom si sentì il bersaglio di una critica, ma per fortuna un cenno noncurante intervenne a suo favore. “No, non mi dà fastidio. Mio padre diceva che bisogna affermare e ordinare se si vuol essere ascoltati, ma io non ho mai ascoltato lui, quindi non vale la pena di seguire i suoi consigli.” L'ennesimo sorriso accattivante. “Va bene, niente sorbetto, stasera una cosa tranquilla, tanto – uhh, senti questa!”

La camera era stata invasa dal suono pastoso e malinconico di un sassofono, evento che parve zittire anche l'inarrestabile parlantina di Dickie. Era di nuovo precipitato nel suo stato di meditazione musicale, l'espressione intensa, quasi dolorosa nella sua concentrazione.

Tom sospese il respiro, come prima. Era impossibile per lui non fermarsi a contemplarlo quando si esponeva così al suo sguardo. Se Dickie chiudeva gli occhi o si voltava di schiena, Tom non poteva trattenersi dal fissarlo. Non c'era nulla di solare o di felice nel modo in cui lo faceva, anche se si sentiva felice, la persona più felice del mondo. Serio, ecco come sarebbe apparso a chi fosse entrato in quel momento, troppo immobile, teso: l'attenzione del sicario con la canna della pistola puntata alla tempia della vittima.

Dickie iniziò a mormorare la musica, dondolando due dita da una parte all'altra, come il direttore di una minuscola orchestra. Minuto dopo minuto si rilassava sul letto su cui era disteso. Marge stava scrivendo, la notte era il pieno della sua fase creativa. Era abituata ad udire i vinili del fidanzato nelle prime ore del mattino; Tom sapeva che non sarebbe scesa a curiosare. Deglutì, d'un tratto calmissimo. Fu lesto nel far passare come casuale il suo desiderio di sedersi accanto a Dickie. Una persona normale l'avrebbe fatto senza pensarci su, lo stesso Dickie non aveva problemi a toccargli le spalle e a salirgli sulla schiena in istanti di ribelle cameratismo. Dickie si sarebbe sdraiato con scioltezza, così, e avrebbe accostato il viso al suo petto, così, e avrebbe inspirato quel profumo solo suo, così – l'avrebbe fatto davvero?

Sprofondò il naso nel cotone leggero della camicia bianca. Sapone di Marsiglia e pelle accaldata: avrebbe voluto racchiudere quell'odore in una boccetta, il profumo dei giorni più belli della sua vita. Avrebbe voluto una sua maglia – forse poteva prenderne una e, se Dickie avesse notato la sparizione, dire che non ne sapeva nulla? D'altronde, perché Dickie avrebbe dovuto pensare che rubava le sue cose? Magari gliene avrebbe regalata una, se gliel'avesse chiesto? Avrebbe pensato che fosse strano? Sì, forse l'avrebbe pensato. Oppure no. Non importava. In quel momento, importavano solo la morbidezza del tessuto, l'odore, la carne di Dickie contro la sua guancia, separata solo dal cotone sottile...

“... ehi.” Guardingo. Infastidito.

Tom si scostò, come punto da uno spillo. Non sapeva dove posare lo sguardo, che sfrecciò dal petto di Dickie al soffitto e da lì alla trapunta.

“Cos'era?” Divertito. No – beffardo, ma in maniera delicata.

“Niente.”

Il vinile era concluso. Tom realizzò che era stata la musica a renderlo ardito. Nel silenzio, il suo cuore batteva di vergogna. Dickie balzò in piedi e si diresse al grammofono per riposizionarne la puntina e far partire un altro disco, poi si lasciò ricadere pigramente sul materasso.

La musica riprese.

 

 

Dickie aveva voluto camminare sulle rocce finché non erano giunti alla massima altezza di uno sperone proteso sui flutti. Tom aveva rischiato di cadere – due volte; ora però era riuscito a rannicchiarsi in un punto, le mani appoggiate e strette alle insenature dello scoglio. La linea dell'orizzonte era un bacio tra cielo e mare.

Dickie era sdraiato all'indietro sul piano inclinato della pietra come se sulle rocce ci fosse nato, e aveva smesso di prenderlo in giro per la sua goffaggine. I bermuda beige gli lasciavano scoperti i polpacci tonici, velati da una peluria bionda. Le braccia dietro la testa tenevano leggermente sollevata la nuca. Appariva persino più abbronzato e biondo del solito...

Tom si affrettò a voltare il capo verso il mare, ma Dickie aveva capito in un lampo. Adesso lo canzonava con lo sguardo.

“Dai” disse, bonario.

“Cosa?”

“Dai” ripeté, ruotando gli occhi al cielo. S'indicava la spalla.

Tom fissò prima il suo viso, poi il suo torace. Aveva intuito subito: a trattenerlo era la possibilità di un fraintendimento. Si coricò con attenzione, perché l'idea di piombare su una roccia acuminata non lo attraeva e perché esisteva sempre l'eventualità di un equivoco.

Ma Dickie sapeva essere generoso, se ne aveva l'estro. Non lo scostò quando appoggiò la testa sulla sua spalla.

“Come sei rigido!” esclamò anzi. C'era una crudeltà innocente in una frase del genere pronunciata in un tono tanto rilassato.

(Come se non gli importasse).

“Se vuoi...” Tom vide il pomo d'Adamo che saliva e scendeva. Era troppo agitato per realizzare cosa stesse accadendo. Inarcando il collo, scorse un guizzo di lingua sulle labbra. “... se vuoi, ti lascio accarezzarmi i capelli.”

Tom rimase impietrito. La felicità che stava provando aveva un gusto metallico, simile al sangue da una ferita riaperta, al salmastro della brezza.

“Allora, vuoi o no?”

(Dickie sapeva essere spietato. Doveva negare, magari buttarla sul ridere. Gli sarebbe servita una battuta).

“Ok” gli uscì invece.

Dickie abbandonò la malizia per esplodere in una risata irrefrenabile, i denti di un bianco luminoso in contrasto con la carnagione castano-dorata. “Oh, dio, davvero? Che cosa da finocchio...”

Fu come se l'avesse pugnalato allo stomaco. Tom non riuscì a respirare, nemmeno a pensare. Impallidì e si rimise a sedere con movimenti sconnessi. Le onde che si abbattevano sugli scogli gli incutevano ansia. Stare lì in bilico, con quella risata nelle orecchie, era peggio che annegare.

Dickie se ne accorse. Tornò ad un sorriso scherzoso, miracolosamente privo di disgusto. Sollevò una mano a scompigliargli i capelli e, nel gesto, gli spedì gli occhiali di traverso. “Toglili, quelli. Stai meglio senza.”

Tom si sentì invadere da un fiotto di sollievo mentre l'amico tamburellava con le dita contro la coscia e si alzava in piedi – non era arrabbiato, non gli aveva dato fastidio.

“Andiamoci a prendere quel sorbetto, che ne dici?”

 

*

 

Tom voleva ricordarli così, i suoi giorni a Mongibello.

(Aveva cancellato Marge e i suoi sguardi gelosi con una riga netta, divenuta uno scarabocchio violento sul nome di Freddie Miles. Via anche Silvana e il suo corpo che affiorava dalla schiuma del bagnasciuga, via la ragazza del club di jazz e la moglie del pescivendolo e ogni donna che aveva posato gli occhi su Dickie).

Voleva ricordare il sole, il sorriso di Dickie, il profumo che le sue camicie conservavano a distanza di mesi.

(Non i suoi insulti, le sue mani strette attorno alla gola e la smorfia da ossesso che gli aveva contorto il viso. Non il filo di sangue che gli ruscellava dalla tempia, come se la sua testa fosse stata spaccata in due da un colpo d'accetta. Le membra rigide e l'azzurro sgranato delle iridi vuote mentre lo stringeva tra le braccia, il fluttuare della barca alla deriva, entrambi immersi in una polla di sangue. Cancellati).

Teneva i suoi vestiti impilati in ordine negli armadi di ogni hotel in cui albergava e di ogni appartamento che affittava, li piegava nelle valigie. Aveva la sua pettinatura, i suoi pantaloni di sartoria, il suo anello di turchese al mignolo. Indossava la sua pelle. Cucirsela addosso era stato semplice come un cambio d'abito. Così era come se Dickie fosse ancora con lui.

(Dentro di lui).

Aveva imparato a sue spese quanto caro costasse essere sincero. Adesso nessuna verità lasciava mai le sue labbra.

(Neppure con Peter. Anche se sarebbe stato facile, anche se Peter lo guardava come Dickie non l'aveva mai guardato. Non importava. Peter non avrebbe mai potuto sostituire Dickie).

Quando Meredith gli chiedeva perché non potesse amarla, lui rispondeva che Marge era ancora troppo vivida nella sua mente, e pensava che Tom doveva essere ancora troppo presente in quella di Dickie

(anche se Dickie era stato troppo codardo per ammettere di amarlo –

ah, ma non era quella la verità, perché a Dickie non era mai importato niente).

Quando Marge gli chiedeva perché Dickie non volesse vederla, le diceva che lui era fatto così, sempre in movimento, mai con gli stessi amici per più di pochi mesi.

(Ma quando Peter gli chiedeva come stesse, replicava che fuori c'era il sole o che era appena stato a teatro. Peter lo credeva fragile perché aveva notato le sue occhiaie. Tom non era fragile. Solo che non poteva dimenticare davvero nemmeno se cancellava i ricordi con tutto l'inchiostro di cui disponeva, nemmeno se conficcava la punta della penna talmente in profondità da forarsi il cranio o se li seppelliva nello scantinato e chiudeva la porta e gettava la chiave).

C'erano serate in cui Peter veniva a trovarlo, e gli passava le braccia attorno alla vita mentre suonavano un duetto al piano. Quella musica non aveva silenzi da catturare tra le note, era un'armonia piena e fluttuante, spezzava il silenzio senza graffiarlo – eppure lo faceva vibrare di sentimento allo stesso modo dei vinili di Dickie.

(L'addome premuto contro la sua schiena poteva essere di Dickie, anche se il profumo era quello sbagliato. Dickie con lui, a respirargli sul collo, col suo sorriso bianco di malizia e la sua voce. Dickie dentro di lui, quello che lo amava come un fratello, quello che soffiava nel sax la sua colpa dopo il suicidio di Silvana. Erano la stessa persona, dovevano).

Ma Peter non era Dickie. E con Peter, neppure Tom poteva esserlo.

“Vuoi che venga anche domani?”

“Meglio di no.”

All'epoca, Peter era già più di un amico, ma ancora meno di quel che Dickie era stato. Ad una melodia piena e rassicurante, Tom avrebbe preferito rintracciare le note mute tra le note vere su melodie che non capiva. Avrebbe preferito essere preso in giro e baciato dal sole, anche se il sole baciava da lontano.

“Non sono io il problema, vero?” chiedeva Peter, esitante.

Tom quasi sorrideva. Teneramente, pensando: 'Ingenuo.' “No. Certo che no.”

“Però qualcosa c'è.”

Sapeva che, se avesse incrociato le braccia in quella maniera, Peter non avrebbe avuto cuore d'insistere. Conosceva il modo in cui sorridere perché gli sfiorasse i capelli, quello in cui irrigidirsi per ottenere delle scuse, le bugie da raccontargli quando non potevano uscire perché toccava a Dickie uscire al suo posto.

“Mi spiace. Non desidero insistere. Voglio solo che tu sappia che... se vuoi, io sono qui.”

Sarebbe stato bello, poter essere in due. “Grazie.” 'Ma no.'

Non avrebbe mai pensato di potersi illudere di nuovo, né di poter di nuovo amare.

Le menzogne che mormorava a Peter erano le più dolci al palato: 'Ti sono grato di quello che fai per me' e 'Mi fa piacere che tu sia venuto'. Forse perché erano vere.

(Vero il dispiacere nella sua voce, il bisogno nei suoi occhi).

A volte sognava che le bugie gli si ammassassero in gola sino a soffocarlo.

 

 

E poi c'erano sere in cui era lo stesso Dickie a tornare.

(E non era bello, coi vestiti zuppi di sangue e le dita che tentavano di afferrargli la gola. Non era affetto quello con cui gli gridava contro, né quello con cui Tom stringeva il remo per colpirlo di nuovo, perché una volta e due e tre e dieci non erano bastate).

Si svegliava, il cuore in aritmia, e correva allo specchio. Vedeva i capelli di Dickie, i vestiti di Dickie, l'arredamento alle sue spalle – di Dickie. Precipitava. Gli sembrava Tom Ripley quel cadavere che aveva rivestito dei suoi abiti, a cui aveva messo sassi nelle tasche perché affondasse.

(Volere Dickie, essere Dickie, volere Dickie, essere Dickie).

Insonne, nel buio, pensava che nemmeno Peter avrebbe potuto salvare Tom, nemmeno se l'avesse lasciato entrare nella stanza chiusa.

Quando abbassava le palpebre, vedeva la verità, l'odio negli occhi di Dickie.

Udiva le note mancanti.

 


"I'm lost. I'm gonna be stuck in the basement, aren't I? That's my -- Terribile... and alone... and dark."


 

*

 

N.d.A.: Le note mancanti rappresentano la verità, e cioè che Dickie non se l'è mai filato di striscio e che Tom può solo illudersi di essere Dickie, perché per quanto si sforzi Tom è solo se stesso, quindi un nessuno. Ma francamente non so se si capisca o quanto senso abbia.
Ripley ama Peter sinceramente, ma ho pensato che all'inizio lo stesse manipolando per avere un supporto morale e un difensore contro le accuse della polizia e i sospetti di Marge. In ogni caso, ho ambientato la shot quando la loro relazione è ancora agli inizi e Tom non ha ancora dimenticato il suo amore per Dickie. Ho tratto qualche riflessione da qui.
Quando dico che Tom e Dickie ascoltano un vinile jazz mi riferisco a John Coltrane, l'album Soultrane del 1958, e in particolare a questa canzone. Dato che il film è tratto da un libro ambientato nel '58, diciamo che più o meno (più meno che più) dovrebbe starci.
All'inizio sono presenti un paio di luoghi comuni sugli italiani, ma considerando che Tom è americano e, ai tempi di Mongibello, ancora digiuno dell'Italia, li ho ritenuti opportuni.

   
 
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