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Autore: Ita rb    23/01/2015    8 recensioni
«Dovevamo solo accordarci per fare silenzio, Cherry, per impedire che i suoni scivolassero via fino a rintoccare come campane fra le pareti di casa; ma non serviva davvero a qualcosa, solo a rimarcare condizioni improrogabili per dissolvere fastidiosi equivoci. Loro erano comunque lì, contro la carta fine che si credeva cemento, e sospiravano fra i cassetti chiusi per fingersi sogni. Colorati e irraggiungibili, una volta liberati, sono volati in alto con le loro ali di farfalla. Precipitando dal cielo terso, la neve di fuliggine li ha annullati lentamente e loro, intossicanti, si sono lasciati cadere in terra.»
[ Fan fiction che partecipa al contest " NOIR - NELLA MENTE DEL SERIAL KILLER" del gruppo "La crème de la crème di EFP" ]
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Disclaimer: Questa storia appartiene alla rispettiva autrice, i personaggi citati sono tutti inventati, frutto della sua immaginazione e privi di attinenza con la vita reale. Qualunque riferimento a situazioni, luoghi o persone realmente esistenti è puramente casuale e non voluto. La ricerca del punto di vista narrativo è prettamente di origine psicologia, fonte di un’attenta ricerca alle patologie mentali e fisiche che caratterizzano il protagonista. Nessuna azione illegale è giustificata con questo scritto, ma si presenta nella sezione apposita del “Noir” e vuole un’introspezione necessaria della psicologia criminale in quanto punto focale del genere stesso. A discrezione dell’autrice, le scene troppo cruente sono state sorvolate per non turbare troppo la sensibilità del lettore e si rifanno all’immaginazione collettiva. L’handicap fisico del protagonista non è fonte di scherno da parte dell’autrice, né deve esserlo da parte della comunità che si appresta a leggere la storia. Rispettivi credits sono nelle note a piè di pagina.

Note: Salve a tutti, credo che il vizio d’inserire le note a inizio capitolo non verrà mai meno, mio malgrado. Cercando di non dilungarmi troppo nella spiegazione di questa storia, ci tengo a precisare che è una OS nata per il contest indetto dalla pagina Facebook “La crème de la crème di EFP” che tratterà – nei limiti concessi da EFP e dalle mie conoscenze di psicologia e criminologia – di una visione attraverso gli occhi criminali di un assassino seriale (dicitura del contest “NOIR - NELLA MENTE DEL SERIAL KILLER”). Nello specifico, la lista del contest riportava svariate tipologie cui fare riferimento (missionario, edonista, visionario e dominatore), ma prevedeva anche la possibilità di fonderne più di una o di passare da una all’altra per scopi narrativi; nel mio caso è così: ho scelto un serial killer di base dominatore-edonista a causa del suo handicap fisico, il quale trascende nella componente del visionario per gran parte dei suoi discorsi e azioni, ma anche nel missionario per via dell’origine del suo trauma e della scelta delle vittime che si relegano nell’accezione del trauma stesso.
Spero che vi piaccia, che non sia una storia troppo scontata o troppo eccessiva per i vostri standard, e che gradirete i due rimandi (uno al cinema, l’altro all’arte) creditati nelle note a piè di pagina. Infine, qualora non risultasse abbastanza chiaro nella narrazione, avviso che nelle stesse ho inserito anche il nome dell’handicap del protagonista.
 
 

«Vivo minuti che sembrano coriandoli, che cadono – colorati – dal cielo. Precipitano meteoriti e intaccano le mattonelle chiare. Scagliano la vita e indugiano sulle cortecce brune, sui campi di grano dorato, sui tetti rossi delle case di campagna. Piovono gocce di sole, ma del sole non c’è traccia, e neppure una nuvola pare arrancare sulla volta sgombra. Sento solo i brividi di una vecchia sinfonia.»
Laconicamente, le parole gli escono di bocca in un brindisi annoiato. Senza che possa rendermene conto e prima ancora di prestarci attenzione, mi cozzano contro e rimbalzano lontano.
Con le orecchie piene di una realtà distorta, sollevo un sopracciglio e indugio sulla risposta che, tuttavia, non mi sovviene. Ho le labbra chiuse, sigillate, forse addirittura serrate da una sutura improvvisata e rozza, ma non sanguinano, né mi fanno male, e l’unico sapore che punge il palato umido è quello che, sulla lingua, si dissolve in bollicine di prosecco.
L’uomo che ho di fronte, seduto sulla poltroncina di pelle bruna, ha un’aria assorta e disinteressata. Beve il mio stesso drink, tentennando con i polpastrelli attorno allo stelo di vetro, e fa ondeggiare il vino bianco quando, muovendo di poco la punta delle dita, se lo rigira dinanzi per rimirarlo con fare assente. È affabile, di probabile buona famiglia, e indossa un completo grigio piombo, ben curato nei dettagli sartoriali i quali, in costante cromatura con la cravatta corvina e la camicia di perla, lo fanno apparire come un personaggio e non una persona.
Mi schiarisco la voce, tentennando con un pugno davanti alla bocca, e lui fa altrettanto, quasi con spavalderia, mostrandosi sicuro di sé e dei propri ragionamenti da perfetto mimo.
«Sono solo visioni, lo so» ammette senza mezzi termini, socchiudendo gli occhi e fissandomi attraverso due ammalianti fessure verdine.
Nel suo sguardo non c’è cattiveria, meno che mai indignazione o rabbia per il mio atteggiamento poco loquace, tuttavia riesco a scorgere un barlume d’invidia e so che vorrebbe restare in silenzio quanto me; ignora quel brillante temperamento che ha la capacità di renderlo attraente e, allo stesso tempo, immacolato.
Quinton – il suo nome è questo, anche se mi ha pregato di chiamarlo Quin – osserva il mondo dalla sua ottica arcobaleno e veste di sfumature monocromatiche per beffarsi della propria parlantina variegata, ma non tollera ironie sul proprio moto logorroico e induce al silenzio con un sorriso denso, tirato, come le piccole rughe d’espressione che si formano attorno alle gemme smeraldine. Fissa il proprio interlocutore con eleganza, mantenendo una postura avvenente, e incrocia le gambe con nonchalance, mostrando le scarpe lucide – due coleotteri dalla scorsa rigida.
«L’aria di San Francisco si è fatta particolarmente secca questa estate» dice d’un tratto, facendomi battere le palpebre con perplessità.
Sono affascinato dal modo in cui vira i discorsi che intraprende sua sponte, ma annuisco appena e non lo contraddico neppure una volta, dimentico del perché stia ascoltando le sue favole notturne e del motivo che mi ha spinto in quest’appartamento tanto splendido nell’arredamento quanto nell’illuminazione a neon che proviene dall’alto; allora, battendo nuovamente le palpebre, percepisco i contorni di una porta dal montante fino e ho quasi voglia di alzarmi per raggiungerla e tastarla, perché riesco a sentirla liscia e fredda sotto il palmo sudato delle mie mani.
Quin si sistema i capelli dietro l’orecchio, lasciandoli scivolare subito dalla loro postazione, e non si pente del taglio, né dell’inutile mossa appena compiuta. Sorseggia il prosecco con naturalezza, lasciandomi il tempo per voltare lo sguardo nella sua stessa direzione, e sulla sinistra noto una forza motrice che mi gela il sangue nelle vene: una chiazza rossa, più vivida del succo di pomodoro o del derivato dei mirtilli, si confonde in scie traslucide lungo le pieghe di un tappeto fittizio.
La plastica scricchiola sotto la suola delle sue scarpe, ma Quin va oltre, circumnavigando la poltroncina e la poltiglia, e si sofferma a pochi centimetri dalla fonte lesa, agonizzante, mentre punta ancora lo sguardo verso di me.
Sono intrappolato oltre la soglia di questa porta fina, argentea come il Rolex che tiene al polso e che controlla per l’ottava volta da quando ha messo piede in salotto.
Calibra i minuti, li fa scorrere ancora e ancora, dopodiché distoglie gli smeraldi da me e io sono lì, dentro di lui, a scrutare le lancette nere e a ponderare i suoi stessi pensieri:
«Come piccioni ciechi, rantolando in quella pozzanghera bassa che chiamiamo società, becchiamo le anime dei caduti. Non c’è fiore che possa nascere dalla melma, né vita che brulichi sul ciglio del petrolio, e il marcio rantola in tocchi densi, in polpastrelli che si appoggiano e poi rifuggono con filamenti corvini. La scia è sempre la stessa, tracciata con il carbone sull’asfalto, e s’intravede per beffa del destino – i meno avvezzi, in fondo, fingono di percepirla e si fidano a occhi chiusi, rimettendosi nelle mani di un mercante di anime che baratta oro e gioielli con lingue acuminate e segreti in ampolla.»
Attraverso gli occhi di Quin, mi rendo conto di fissare un corpo esangue.
La donna che si trova ai miei piedi è ancora legata in una posa grottesca, con le ossa scomposte, esposte, che spuntano dai muscoli e dalla pelle chiara per creare un groviglio di spine bianche; e i capelli rossi le cadono sulla fronte alta, soffermandosi sulle ciglia lunghe, sulle clavicole, sui rovi di omero, radio e ulna, mentre le gambe, piegate e tese al contempo, la fanno assomigliare a un ragno con due sole zampe. Le braccia, chissà come, le contornano il collo al pari di una sciarpa e si macchiano di sangue per fermare fintamente l’emorragia alla base della gola recisa.
Indugio proprio lì, fra un lembo e l’altro di carne lacera, inorridendo appena e trattenendo il conato di prosecco che mi giunge alle labbra; così, senza rendermene conto, arranco verso il bagno e vomito nel lavandino.
Il bicchiere ancora pieno va in pezzi lungo il corridoio, dove incespico appena su altri ragni e altri cellophan, eppure non riesco ad accumulare i frame e mi perdo lì, con il viso sotto il getto d’acqua fresca che mi riempie la bocca e le narici per qualche istante di silenzio.
Accanto al lavabo, ordinatamente, sono posti una serie di taccuini neri e, uno sull’altro, mi attirano come una calamita. Li osservo appena, pulendomi la bocca con l’asciugamano, e poi ne sfioro uno con le dita ancora inumidite.
«No!» Mi rimprovera la voce della coscienza, sibilando seccamente attraverso i denti dischiusi, perciò l’ascolto e continuo a strofinarmi i polpastrelli, controllando il Rolex argentato nel mentre, e solo dopo una manciata di quarantacinque secondi mi azzardo a raggiungere il primo della lista.
Il monocromo nero, nelle mie mani, risplende attraverso i faretti che lo specchiano nel suo stesso riflesso. Quando lo apro, attentamente, tengo gli occhi ben fissi su Quin e torno nel mio piccolo spazio oltre il lavabo, facendolo sospirare soddisfatto.
«Dovevamo solo accordarci per fare silenzio, Cherry, per impedire che i suoni scivolassero via fino a rintoccare come campane fra le pareti di casa; ma non serviva davvero a qualcosa, solo a rimarcare condizioni improrogabili per dissolvere fastidiosi equivoci. Loro erano comunque lì, contro la carta fine che si credeva cemento, e sospiravano fra i cassetti chiusi per fingersi sogni. Colorati e irraggiungibili, una volta liberati, sono volati in alto con le loro ali di farfalla. Precipitando dal cielo terso, la neve di fuliggine li ha annullati lentamente e loro, intossicanti, si sono lasciati cadere in terra.»
Legge il contenuto della prima pagina con noncuranza, adottando un tono incolore e pressoché simile a quello con il quale mi ha pregato di abbreviare il suo nome per mantenere una linea più confidenziale. Si umetta le labbra già umide, aggrottando le sopracciglia per il sapore disastroso che è stato causato dal mio orrore immotivato, e dopo aver posato il taccuino si premura di lavare i denti con il bicarbonato per ben tre volte – un numero perfetto, a suo dire.
Fare le cose tre volte di seguito lo rassicura, riesce perfino a placare il tremito dell’ansia, ed è ovvio che io non abbia niente d’aggiungere, perché i suoi occhi placidi mi fissano per ammonirmi e, attraverso la finestra rettangolare, mi spingono a mordermi la lingua senza proferire parola sul suo handicap invisibile.
Arriccia le labbra, quasi vezzeggiandomi, e poi sospira rassegnato, tornando a controllare fintamente l’orologio da polso per ticchettare i secondi del proprio declino.
Sa che la pillola ingerita non ha tardato il suo effetto, ma anche che non ha sanato il bisogno fisiologico che gli arrovella le viscere e gl’incendia i lombi; sa addirittura che la risata dell’ennesima Cherry non è stata diversa dalle altre e che lo segnerà più a fondo, superando l’arco dei tre centimetri e delle tre delusioni dell’adolescenza. Eppure non lo dice, non fiata: mi scruta in silenzio.
«Tu non sei mai stato bambino, non puoi far ridere. Sin da piccolo hai avuto a che fare con la morte. Dovrai essere il pagliaccio triste, quello con le ciglia grandi e il sassofono piccolo che accompagna il pagliaccio simpatico e ride alle sue battute1» cita all’improvviso, indurendo i muscoli del volto e battendo un pugno sulla laccatura chiara del lavandino.
I quaderni sobbalzano l’uno sull’altro, rimanendo accatastati lì dove sono e scomponendosi di pochi millimetri, ma Quin li sistema subito, autonomamente, e io torno a guardare attraverso i suoi occhi, rendendomi conto di non poter sfuggire dalla calotta cranica che condividiamo sotto la chioma bruna.
Il respiro si fa pesante, si solleva in un ringhio silenzioso, e ho come l’impressione di poter esplodere da un momento all’altro – sono dinamite, sono un timer, sono un palloncino già gonfio che qualcuno sta continuando a ingigantire con boccate d’anidride carbonica.
Scivolo nel corridoio, indurendo lo sguardo a ogni sagoma scura delle ciliegie-ragno, e quando raggiungo l’ultimo capolavoro dell’irrequietezza di Quinton mi atterrisco, tremolando sulle stesse gambe che mi hanno sorretto fino a questo punto. Deglutisco, arrampicandomi con le braccia sulla parete vicina, e indegnamente finisco con le ginocchia sul pavimento, lontano dal cellophan sporco di sangue, dal prosecco, dal Viagra, dall’handicap che farebbe impazzire ogni uomo e ridere ogni donna.
Sento la voce dell’ultima Cherry, nonostante le sue corde vocali siano state strappate via, e le mie orecchie sibilano nell’eco della vergogna fino a farmi corrugare le sopracciglia e arricciare il naso: È così piccolo che neanche si vede!
Vorrei tagliarlo via e sostituirlo, ma non ci sono dei pezzi di ricambio in quell’alcova di sangue e morte, né la voglia di osservare la beffa di Madre Natura, e più stringo i capelli fra le dita e più ho voglia di aprirmi la testa per cambiare i pensieri, i ragionamenti, i ricordi. Desidero ordinare tutto, dalla A alla Z, ma non ne ho il coraggio, né la spinta emotiva, mentre guardo la ciliegia-ragno nella sua postura disordinata e riprovevole da Vedova Nera capovolta.
Non si è accontentata dei miei giochi, né delle parole dolci che le ho dedicato per una notte intera, e il frutto della passione è ancora lì, sul ciglio esposto della guepiere di pizzo rosa. Mi si dedica come ne L’origine du monde2 e io l’ammiro in lontananza, con frustrazione, conscio della limitatezza del mio corpo.
«La vita è transitoria, come la neve morbida del primo mattino d’inverno – quella leggera che si scioglie sulla punta delle dita – o le polveri sottili che si scindono in un globo di vetro, una pallina di Natale, dove dal cielo cadono gocce di plastica bianca» mormoro tra me e me, cercando di consolarmi per quella nuova perdita. «Scivola piano, si adagia, e i passi di bambino troppo cresciuto confondono la rugiada sotto la suola delle scarpe.» Deglutisco a vuoto, finalmente convinto, e mi alzo in piedi per fissarla con occhi lucidi di tormento, di rabbia, di delusione pura e semplice.
Quando i suoi bulbi vuoti e vitrei mi fissano, io non riesco a fare altro che sospirare e, accartocciandola come una caramella, inizio a delinearne i contorni con rinnovata cura: avvolgo le sue gambe per serrarle con nodi di canapa, finisco un’intera bobina per tessere la tela color paglia attorno alla plastica, e solo allora, quasi meccanicamente, la sollevo da terra per spostarla in corridoio, vicino alla porta del bagno. Dopo aver acceso la luce, guardo tutte le mie ciliegie-ragno. Sollevo la testa, mentre loro ridono di me, e poi sprono il mento in avanti per rinchiudere l’imbarazzo oltre la porta vetrata che delimita il segreto più grande di tutti.
Mi sistemo nell’ingresso, lasciando che lo specchio si creda ancora vivo, e sorrido apertamente nell’addrizzare il nodo della cravatta.
«Chiamami Quin, Quinton è troppo formale…»
E il mio ospite annuisce, accompagnandomi nel mondo e in quella focosa essenza di ricerca. Lui mi conosce bene, sa tutto di me, per questo vuole aiutarmi a trovare altre ciliegie senza voce, altre Cherry da poter amare e custodire con cura nel corridoio.

 
1 CIT. Javier’s father from “Balada triste de trompeta”.
2 Dipinto di Gustave Courbet del 1866.
3 L’handicap di Quinton è una patologia comunemente detta micropene.




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