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Autore: Beatrix Bonnie    28/01/2015    2 recensioni
La storia di un ragazzo in guerra con la famiglia, un ragazzo preso di mira dai compagni per via del suo temperamento riservato e tranquillo, ignorato dai docenti perché ritenuto un buono a nulla. Ma Tommaso è solo questo, una vittima dei suoi aguzzini?
No, Tommaso è anche colui che avrà il coraggio di ribellarsi a tutto questo e far sentire la sua voce al mondo intero.
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Historia docet'
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Tommaso era il tipo di ragazzo che stava in silenzio. Seduto al suo banco, in fondo alla stanza, ogni tanto scribacchiava qualche appunto o controllava sui libri di testo, ma perlopiù ascoltava. Gli piaceva ascoltare. Il professore leggeva e spiegava, dava l'interpretazione dei testi, e lui assimilava tutto ciò che veniva detto in quell'aula.
Non era sempre stato così, in realtà. Quando studiava ancora a Napoli, gli piaceva intervenire durante le lezioni per porre delle questioni o dire la sua in una disputa. Là lo ascoltavano e parevano anche apprezzare i suoi interventi. Ma quando si era dovuto trasferire, il nuovo ambiente in cui era stato catapultato gli era parso immediatamente diverso: la vita era più frenetica, nella moderna Parigi, tutti presi dal guadagno, dal commercio, dall'arricchirsi, dalle mode. Mai stanchi, sempre insoddisfatti e sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Tutto quel clima di delirio si rifletteva anche nella scuola, per cui Tommaso, abituato a ritmi più tranquilli, ci aveva messo del tempo per adattarsi. Aveva preferito starsene in un angolo ad ascoltare ad assimilare, prima di mettersi in gioco. Tanto più che quelli come lui non erano ben visti in quella scuola: non piacevano agli altri, quelli normali. Si vociferava addirittura di fare degli scioperi o una qualche azione di forza per buttarli fuori dalla scuola.
No, Tommaso aveva tutte le ragioni del mondo per rintanarsi nel suo angolino ad ascoltare in silenzio.
Il passo da quel volontario isolazionismo al divenir oggetto di scherno presso i compagni era stato breve. Certo, Tommaso non si era aspettato quella fredda accoglienza a Parigi, da parte di gente che avrebbe dovuto condividere la sua stessa passione per la cultura, ma, evidentemente, gli altri credevano che fosse un po' ritardato. I compagni l'avevano preso di mira per via di quel suo temperamento tranquillo e taciturno: il bue muto, così avevano cominciato a chiamarlo. Niente più di una bestia senza intelletto e senza parola, ecco come lo consideravano.
Tommaso ci aveva fatto il callo. Non importava come venisse chiamato, non importava che lo ritenessero un buon a nulla, bastava che lo lasciassero in pace. Così almeno lui poteva ascoltare, in silenzio, tutte le lezioni.
Si aggirava schivo per i corridoi, con i libri in braccio e il capo chino.
«Non dovresti nemmeno studiare qui» lo insultò senza mezzi termini un suo compagno.
Tommaso si strinse nelle spalle.
«Ma sei sordo oltre che muto?» insistette l'altro, suscitando qualche risatina ilare tra gli studenti.
Tommaso alzò appena gli occhi su di lui, per un'occhiata di sfuggita. Quello era uno che avrebbe fatto carriera, di certo: indossava abiti costosi e curati, la sua famiglia era ricca e conosciuta da tutti. Al contrario, i suoi vestiti semplici ed economici denunciavano immediatamente la sua condizione sociale. «Ci sento bene, grazie» mormorò in risposta.
L'altro gli si avvicinò fin quasi a sovrastarlo. «Troveremo il modo di sbatterti fuori, sappilo.»
Tommaso lo guardò da sotto in su. Di solito preferiva evitare gli scontri, fare in modo di non offrire l'occasione di tirarlo in mezzo, ma quella volta qualcosa in lui si ribellò. Era stanco di essere calpestato come se non valesse nulla: era arrivata l'ora di dire basta a tutto quello scempio. «Ho il diritto quanto voi di studiare qui» decretò, con una determinazione che stupì i compagni. Non era superbia: si trattava, per una volta, di far fruttare i propri talenti.
«Lo vedremo» sibilò l'altro in risposta, prima di voltargli le spalle e andarsene.
Tommaso fiutò una ritorsione: la vendetta era una brutta bestia, lo sapeva bene. Il compagno avrebbe cercato di fargli del male, in un modo o nell'altro, di umiliarlo davanti a tutti, perché certo non poteva sopportare che una nullità come lui avesse osato risponderli a tono. Ma Tommaso era abituato alle umiliazioni.
Anche in famiglia lo trattavano come se non valesse nulla: non era certo energico e forte come i suoi tre fratelli maggiori, né si era dimostrato disposto a seguire il mestiere che il padre gli aveva indicato, per rendergli onore: aveva scelto pubblicamente tutt'altro, gettando scredito su tutti loro. Erano una famiglia importante, dicevano loro, non si poteva proprio fare che un figlio si unisse ad una tale compagnia di diseredati senza futuro e andasse a peregrinare in giro per studiare chissà dove. Bisognava comportarsi in modo rispettabile e far carriera. Ma lui aveva rifiutato quella vita fatta solo di esteriorità e successo: era piccolo e misero e aveva fatto una scelta che gli aveva inimicato tutta la famiglia. Avevano cercato di dissuaderlo in ogni modo: i suoi fratelli avevano anche escogitato un piano, tanto meschino quanto inutile, per fargli cambiare idea, ma a nulla erano valsi i loro sforzi. «È la mia vita» aveva decretato Tommaso con fermezza. «A questo sono stato chiamato.»
Grazie a quella palestra che era stata la sua misera vita familiare, fatta di costrizioni e prepotenze, Tommaso aveva imparato anche a scuola a sopportare qualsiasi brutto scherzo, qualsiasi umiliazione. «Vieni a vedere un bue che vola!» gli dicevano i suoi compagni, prima di farlo inciampare o buttare in terra. Lui non rispondeva alle provocazioni, silenzioso come sempre. Il bue muto di Sicilia, l'avevano soprannominato, senza nemmeno cogliere che lui era nato vicino a Napoli, non in Sicilia.
Sopporta in silenzio, con pazienza, questo era diventato il suo motto. Dopotutto, il bue, con la sua docile mansuetudine, non era un animale poi così lontano dalla sua indole.
Eppure, quel freddo giorno di gennaio, qualcosa di insolito era scattato in lui. Era giunto il momento di dire basta, di ribellarsi a quell'oppressione, di far sentire la sua voce: non avevano alcun diritto di trattarlo in quel modo solo perché lui era diverso. In fondo, aveva anche lui dei talenti ed era sciocco nasconderli sottoterra per paura di chissà cosa. Bisognava farli fruttare e allora, forse, il bue avrebbe cominciato a muggire.

Tommaso entrò in classe e andò a sedersi agli ultimi banchi, come sempre. Appoggiò sul tavolo il libro di testo e lo sfogliò con cura, fino a trovare il punto dove si era interrotto il professore alla lezione precedente. Anche quella volta ascoltò rapito, in silenzio.
Ad un certo punto, il docente interruppe l'esposizione: alzò gli occhi sugli studenti e disse che la lettura, in quel punto, poneva in essere una questione che andava risolta.
Uno dei ragazzi si alzò in piedi: era quello che aveva insultato Tommaso in corridoio. «Chiediamo al bue muto di risolverla» esclamò.
Eccola, la sua punizione. Voleva metterlo in ridicolo davanti a tutta la scuola, umiliarlo. Dimostrare a tutti e che non era altro che un caprone, troppo stupido per seguire le lezioni o intervenire in modo sensato.
«Va bene» concesse il professore. «Vediamo cos'ha da dire.»
Un barlume di ribellione si accese nell'animo di Tommaso. Non gli avrebbe permesso di insultarlo, non quella volta. Avrebbe spezzato le catene di quell'oppressione, dimostrando agli altri e a se stesso quanto potevano valere i suoi talenti. Si alzò in piedi con risolutezza, pronto a dare la sua soluzione alla questione se l'anima fosse corporea o spirituale.
Quel freddo giorno di gennaio, qualcosa di insolito era scattato in lui. Era l'alba del 1246.

«Sembra che l'anima sia un corpo. Infatti l'anima è l'elemento motore del corpo, ma è un motore mosso, perché nulla può imprimere movimento, se non è mosso a sua volta. E poiché ogni motore mosso è un corpo, l'anima è un corpo. Inoltre è necessario che ci sia un contatto tra il motore e la cosa mossa, ma il contatto non avviene che tra i corpi.»
Alberto di Colonia ascoltò con interesse il giovane studente. Aveva insegnato per tanti anni alla facoltà di teologia di Parigi, eppure mai una volta gli era capitato che un ragazzo sapesse rispondere con tale prontezza di spirito ad una quaestio sorta durante la lectio. Il giovane frate domenicano, proprio quello che di solito se ne stava in fondo all'aula in silenzio, stava enunciando le giustificazioni alla tesi che voleva confutare: un ottimo punto di partenza per la disputa. Ovviamente, era sua intenzione dimostrare che l'anima fosse un elemento spirituale, non corporeo, ma le leggi della dialettica prevedevano che si partisse dalla tesi contraria. In seguito, il ragazzo, facendo propria una frase di Agostino e basando la sua trattazione sul De Anima di Aristotele, enunciò la sua tesi.
«L'anima, che è il principio di vita, non è un corpo, ma è l'atto primo del corpo che ha la vita in potenza; come il calore, che è il principio del riscaldamento, non è un corpo ma è l'atto di un corpo.» La sicurezza con cui sosteneva i propri principi, la ricchezza lessicale, la capacità dialettica, tutto in quel ragazzo silenzioso era stupefacente. Egli terminò la trattazione confutando le giustificazioni alla tesi contraria, che aveva esposto in precedenza, con la stessa naturalezza con cui i popolani parlavano dei prezzi della farina. Al termine del discorso, si risedette nel silenzio generale. Alberto di Colonia, magister di teologia a Parigi, si alzò dal suo scanno. «Questi, che noi chiamiamo bue muto, muggirà così forte da farsi sentire nel mondo intero» commentò con ammirazione. Mai aveva sentito uno studente risolvere una quaestio con tanta acutezza d'ingegno e perfetta dialettica. «La lectio di oggi è terminata» annunciò ai suoi discepoli.
L'aula ci impiegò più del solito a svuotarsi, perché tutti lanciavano occhiate perplesse e stupite al giovane frate nell'angolo. Alberto attese che gli altri se ne fossero andati, prima di far cenno al giovane di avvicinarsi.
Quello si trascinò alla cattedra come se temesse di essere rimproverato di qualcosa. Eppure nei suoi occhi scuri brillava una barlume di fermezza e coraggio tanto vivo da lasciar quasi storditi.
«Come ti chiami, ragazzo?» gli domandò il professore.
Il giovane si lisciò la lunga tunica bianca da frate domenicano. «Tommaso, signore» rispose con determinazione. «E vengo da Aquino.»
Il magister annuì compiaciuto. «Credo proprio che farai strada, Tommaso d'Aquino.»










Carissimi,
ecco qui una semplice storiella dedicata al mio santo e teologo preferito: Tommaso d'Aquino, pubblicata nel giorno in cui viene celebrato dalla Chiesa. Nulla di troppo pretenzioso, lo ammetto, ma il gioco (e spero che abbia funzionato) è basato sul fatto che, fin tanto che non compare la data, potrebbe essere un racconto di bullismo ambientato ai nostri giorni.
Inoltre, la storia partecipa al contest Cento giorni di introspezione, fantasia e romanticismo, indetto da Eboli (WhatHasHappened sul forum).
Eh, sì, l'adorabile Tommaso era stato vittima di bullismo: la leggenda che ho raccontato è infatti tratta dall'agiografia
Historia Sancti Thome de Aquino de Guillaume de Tocc (1323), nell'edizione critica in francese a cura di C. le Brun-Gouanvic, Toronto 1996. Così come la risoluzione della questione “Utrum anima sit corpus” è ripresa dalla Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino, Quaestio 75, Articulus 1.
La "diversità" di Tommaso sta nel fatto che egli è un frate dell'ordine dei predicatori (o domenicani), mentre gli altri studenti di teologia sono preti secolari (preti normali, in sostanza). La rivalità tra frati e preti scoppierà, intorno agli anni 50 del Duecento, in un'azione di forza per cui i preti espelleranno dal gruppo dei maestri, con un pretesto, i 3 maestri di teologia degli ordini mendicanti (domenicani e francescani). Interverrà poi il papa a favore di questi ultimi.
Infine, la carriera cui Tommaso era stato destinato dalla famiglia era quella del monaco benedettino: istruito a Montecassino, Tommaso era destinato a farsi monaco e, magari, a diventare abate della stessa potente abazia di Montecassino. Egli sceglie invece di farsi frate predicatore, un ordine fondato pochi anni prima da san Domenico, caratterizzato - oltre che dai tre voti di povertà, castità e obbedienza - anche dalla missione di predicare contro gli eredici (studio e predicazione, in sostanza, i due elementi distintivi dei domenicani). Potete immaginare il motivo per cui la famiglia non apprezzi la scelta di Tommaso. Quanto al piano dei fratelli maggiori, anch'esso narrato nella sua agiografia, essi avrebbero bloccato con la forza Tommaso che si stava recando a Parigi e l'avrebbero rinchiuso in un castello, dove l'abrebbero addirittura tentato con una meretrice per convincerlo a cambiare idea. Povero!
Quello che è certo, è che Alberto di Colonia prende sotto la sua ala Tommaso e la carriera universitaria di quest'ultimo è costellata di successi. Egli è dottore della Chiesa e il più importante teologo della scolastica. Altro che bue muto!
Va be', vi lascio QUI il mio disegno di san Tommaso.

Grazie a tutti quelli che passeranno per leggere o commentare!
Alla prossima,
Beatrix B.

   
 
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