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Autore: Alfred il sanguinario    06/02/2015    0 recensioni
Veronica ha un serio problema. Nemmeno lei sa quale sia, sa solo che non si può evitare l'inevitabile. Sa anche che l'omicidio non è la risposta a nulla, ma sapere non aiuta a guarire.
Vacillante fra la 'madre di famiglia' e la pazza da ricovero, Veronica non può più ignorare la sua natura, la sua malattia.
"Non tutti sanno cosa succede quando si muore. Il corpo diventa freddo, rigido, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. In questo momento lo so meglio di chiunque altro."
NB: Tratto da un fatto di cronaca recente. Immagino che sappiate di quale fatto di cronaca sto parlando, altrimenti, scopritelo...
Genere: Dark, Horror, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Non tutti sanno cosa succede quando si muore. Il corpo diventa freddo, rigido, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata.
In questo momento lo so meglio di chiunque altro. È morto, giace a terra, privo di vita, di anima. Ho ancora le mani sul collo, e d’istinto mollo la presa, facendolo cadere a terra.
Il mio cervello brulica di informazioni diverse, ed è strano a dirsi, ma senza ragione apparente devo reggermi alla scrivania per non cadere a terra. Non mi gira la testa, non mi sento confusa. So solo di aver compiuto l’inevitabile.
Non mi sorprendo. Prima o poi doveva succedere, e lo sapevo da tanto tempo.
Ho poco tempo per sistemare le cose, per fingere che nulla sia accaduto. Mi sbrigo.
 
Fui svegliata nella notte da un rumore sordo, simile ad un fischio, che non dava tregua. Non potevo ignorarlo.
Mi alzai dal letto, lentamente ma non stancamente. Non stavo dormendo, non dormivo quasi mai da quando era nato Lui.
Mi appropinquai alla culla, mi sedetti accanto.
Piangeva, disperatamente. Invocava un bisogno primordiale: il cibo. Non lo nutrii. Mi limitai ad osservarlo, freddamente. Mi osservò con i suoi occhi neri, identici ai miei.
Il rumore del pianto era così monotono, che ben presto parve divenire impercettibile.
Lo guardai attentamente. Era davvero molto magro. Da quanto tempo non lo nutrivo? Giorni, settimane, mesi?
La vita scorreva così uguale in quei giorni di solitudine, che non riuscivo a distinguere il tempo che passava. Un minuto, un’ora, un giorno… era la stessa cosa.
Anch’io stavo dimagrendo molto. Non ricordavo l’ultima volta che avevo mangiato, ero pronta a lasciar morire il mio corpo, a lasciare che la depressione e la denutrizione mi avvolgessero fino a soffocarmi. E anche Lui sarebbe soffocato con me. Tanto non sarei stata in grado di donargli affetto, amore materno, cure premurose. Sarei solo stata capace di donargli odio, freddezza e depressione.
Non mi ero mai curata di Lui, ma in quel momento, quando mi resi conto che stavamo morendo lentamente insieme, gli sorrisi.
Chi sono io per decidere chi deve vivere e chi deve morire? No, non sono Dio, anche se mi piacerebbe esserlo. Ma sono solo un’infida donna, che vive una vita tormentata, e che s’illude di potersi meritare di andare via prima del tempo, trascinando con sé anche un’innocente.
Mi alzo dalla sedia. Prendo il biberon e do da mangiare a Lui.
Poi vado verso la cucina. Metto a bollire l’acqua. Devo vivere. Devo farlo perché nessuno merita di poter scegliere il proprio destino per mano propria.
 
- Ho fallito – mi dico miseramente, in cella.
Ho fallito nel disperdere ogni traccia del mio atroce delitto. Ho fallito nel non tradire la poca fiducia che Davide e gli altri riponevano in me. Ho fallito nel non riuscire a compiere l’Atto Estremo senza coinvolgere altre persone.
I pochi obbiettivi che io, Veronica, mi ero imposta di mantenere, si sono sgretolati. Anzi, li ho sgretolati io. Con le stesse mani con cui ho strangolato il Figlio.
Sono nella mia fredda e umida cella. Potrei chiedermi, come fanno tutti, “Perché a me? Perché proprio io?”, se non fosse che so già la risposta.
Perché l’ho ucciso. Perché ho peccato. Perché, in ogni caso, mi meriterei molto peggio.
Prendo un foglio, uno dei tanti appilati sul tavolino, afferro la matita e disegno. Mi sento una bambina, non una donna di venticinque anni, ma una bambina che disegna ciò che non riesce a dire.
Non è un disegno casuale.
È un prato verde con una casetta di legno e due figure pressappoco indistinguibili che passeggiano sul prato. Le due figure indistinguibili saremmo io e il Figlio.
Questo fu il primo disegno che fece per me, all’asilo. Ricordo ancora quando me lo porse, tutto orgoglioso e felice, aspettando chissà quale complimento.
Io invece lo osservai con freddezza e senza alcun interesse lo ficcai nella borsa.
“Non ti piace?” mi chiese deluso.
“Ti sbagli, mi piace.”
“Non è vero.”
“Sì, è vero,”
“La maestra diceva che ti sarebbe piaciuto.”
“Aveva ragione.” Sibilai infine. Non mi rispose più. Non mi cimentai nemmeno un po’ nel fingere che mi fosse piaciuto quel disegno. Quindi lo farò adesso.
“E’ davvero bellissimo!” mi dico da sola, convinta di star parlando a Lui. E mi sembra di vederlo, nella cella, con un volto contento che fece, in mia presenza, solo in rarissime occasioni.
“Grazie mamma.” Mi rispondo tentando di imitare la Sua vocetta stridula.
Noto che, ordinatamente riposte nel mio astuccio, ci sono un paio di forbici. Opto per la via più facile, quella che mi risparmierà la vergogna di un processo, di ammettere il mio crimine all’avvocato.
E così, d’impeto, mi colpisco al petto con quell’oggetto, e il sangue scorre copiosamente dal mio seno sino al pavimento.
“Forse dovremmo aiutarla.” Sento dire da un poliziotto fuori dalla mia cella.
“Se lo merita, schifosa assassina.” Gli risponde prontamente un altro. E ha ragione.
 
Angolo autore: Lo so, è una storia tanto psicologica quando cruda e angosciante. E' ispirata ad un fatto di cronaca molto recente, e credo che nomi e fatti vi suggeriscano in pieno a quale mi riferisco. Non mi sembrava comunque giusto inserirlo. Se qualcuno dovesse trovare questi riferimenti troppo espliciti, me lo faccia sapere e provvederò a cambiare i nomi dei protagonisti. Ad ogni modo, lasciate una recensioncina se bazzicate da queste parti. Accetto anche le critiche, ovviamente, purché non si limitino a dire semplicemente 'la storia non mi piace', ma anche a spiegarne il motivo e dirmi che cosa posso fare per migliorare. 
Alfred

 
  
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