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Autore: OmegaHolmes    16/02/2015    1 recensioni
"Ci sono volti impossibili da dimenticare, nonostante lo si abbia osservato da vicino solo per una manciata di secondi, in occasioni drammatiche.
Questo è il caso di Sherlock Holmes.
Non ho mai fatto molto caso a ciò che mi succedeva intorno, dato che ero appena arrivato in questo college poco fuori da Cardiff.
Ogni college ha le sue caste, le quali troppo raramente si trovano a comunicare tra di loro e se si presenta un contatto, è solo per percuotere qualcuno di una casta più bassa.
Sono orfano e il mio motto è sempre stato “Vivi e lascia vivere”; ho sempre trattato tutti con educazione, cercando di essere sempre disponibile per tutti, insomma, amico di tutti.
Tuttavia ho capito che il mio comportamento era sbagliato proprio quando ho visto quel volto."
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College!AU - Johnlock
John Watson racconta in prima persona il suo incontro fantastico con Sherlock Holmes.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ci sono volti impossibili da dimenticare, nonostante lo si abbia osservato da vicino solo per una manciata di secondi, in occasioni drammatiche.
Questo è il caso di Sherlock Holmes.
Non ho mai fatto molto caso a ciò che mi succedeva intorno, dato che ero appena arrivato in questo college poco fuori da Cardiff.
Ogni college ha le sue caste, le quali troppo raramente si trovano a comunicare tra di loro e se si presenta un contatto, è solo per percuotere qualcuno di una casta più bassa.
Sono orfano e il mio motto è sempre stato “Vivi e lascia vivere”; ho sempre trattato tutti con educazione, cercando di essere sempre disponibile per tutti, insomma, amico di tutti.
Tuttavia ho capito che il mio comportamento era sbagliato proprio quando ho visto quel volto.
 
Era una mattina fredda e pungente, la neve aveva ormai ricoperto l’intero paesaggio, rendendolo particolarmente silenzioso. Alcuni corvi volavano sopra gli alberi spogli, i quali erano immobili in pose grottesche, staglianti verso il cielo, mentre una leggera foschia rendeva il tutto più angosciante, cupo e solitario.
Stavo passeggiando fuori dal dormitorio al termine delle lezioni, con in spalla il mio zaino , mentre me ne stavo ben avvolto nella mia sciarpa a righe un po’ sgualcita.
Passeggiavo sempre solo, non avevo amici anche se trattavo tutti con riguardo.
Adoravo camminare tra la neve, perché la sua fredda consistenza mi ricordava che ero vivo, mentre la contemplavo per il suo aspetto candido e raffinato.
Amavo i paesaggi così cupi, dato che mi ricordavano i panorami dei racconti di Edgar Allan Poe o i quadri di Friedrich, dove la natura aveva il sopravvento sell’uomo, rendendolo ancora più insignificante, poiché, in realtà, io mi sentivo tale.
Ad un tratto, però, un urlo squarciò il silenzio attirando la mia attenzione. Volsi lo sguardo verso l’eco e vidi tre ragazzi calpestare qualcosa, o meglio qualcuno, a terra.
Ebbi, all’improvviso, l’impulso di correre e fermali dal compiere quegli atti brutali, nonostante non li conoscessi.
Essendo parecchio basso di statura, parevo un coniglio che saltava nella neve a fatica cercando di arrivare alla sua meta.
Più mi avvicinavo, maggiormente aumentavo il passo e le urla, le risa, i rumori delle percosse si facevano sempre più forti.
Voi! Cosa state facendo?!
Una voce lontana, alle mie spalle, mi fece trasalire, facendo scappare a gambe levate i tre bulli. Mi voltai per capire chi stesse richiamando i ragazzi dalla finestra del college, ma la foschia era troppo fitta e non riuscii a scorgere nessuno.
A quanto pare doveva essere stata una docente responsabile del loro dormitorio, pensai mentre mi voltavo verso ciò che per i minuti precedenti era stata data la mia attenzione.
In quel momento quella massa nera a terra si mise in ginocchio a pochi passi da me, mostrandomi il suo volto candido come la neve, incorniciato da capelli ribelli e corvini, mentre i suoi occhi felini e taglienti, color ghiaccio, mi penetrarono.
Le sue labbra schiuse, dipinte dal sangue che fuoriusciva da una ferita sul labbro, respiravano affannosamente, creando piccole nuvole di condensa che si dileguava nel cielo.
Il sangue scorreva sul suo volto, andando a depositarsi vivido sulla neve sottostante.
Per quanto m’impegnai, non riuscii a proferir nemmeno una singola parola; a labbra socchiuse lo contemplavo come se di fronte a me si fosse presentata una creatura ultraterrena.
Mi avvicinai di un passo e, come un animale selvatico, balzò in piedi, scomparendo tra la foschia dietro la scuola.
Allungai un braccio per chiamarlo, ma non conoscevo il suo nome.
Semplicemente svanì, com’era apparso, in quel paesaggio fantastico.
 
Da quel giorno, non ce ne furono altri in cui non pensai a quel volto che mi aveva fatto vibrare il cuore, come se fosse fuoriuscito da un opera d’arte fiamminga.
Il mio college era molto grande e conoscere tutti gli allievi era praticamente impossibile, ma mi ero messo in testa che lo avrei trovato, almeno per sapere come stava e chiedergli il suo nome.
Come ho già detto, non avevo amici, se non compagni di scuola con i quali avevo buoni rapporti, perciò i miei pomeriggi erano per lo più vuoti e sconsolati.
Molto spesso passavo ore intere a fissare il cortile interno, cercando di intravedere quel ragazzo attraversarlo con passo spedito, con il petto cinto di libroni spessi; magari gliene sarebbe caduto uno e io sarei corso a recuperarlo per restituirglielo.
Non accadde mai.
Troppo spesso mi chiedevo se non me lo fossi immaginato o sognato, dato che fantasticavo di continuo, inventando personaggi provenienti da mondi lontani, eroi che avevano solcato i mari e aviatori che avevano sorvolato i cieli di tutto il mondo.
 
A metà febbraio m’iscrissi ad un corso di letteratura sensazionale, la quale trattava principalmente il rapporto tra i fatti di cronaca nera e numerosi romanzi d’investigazione scritti al riguardo.
In realtà non credevo nemmeno potesse esistere un corso del genere, ma dato che amo molto Poe, pensai che iscrivermi sarebbe stato interessante e fruttuoso per la mia media finale.
Fu così che mi diressi, elettrizzato, alla prima lezione, entrando piuttosto goffamente nell’aula.
Ciò che mi si presentò di fronte mi fece quasi andare di traverso la mia stessa saliva: in prima fila, chino su un quaderno vi era quel ragazzo che settimane prima il suo volto mi aveva troncato il respiro, penetrando nella mia mente con quello sguardo glaciale.
Rimasi per qualche istante immobile sulla porta a contemplarlo, spostando il peso da un piede all’altro, pensando se sarebbe stato opportuno o meno sedersi accanto a lui.
Mentre lo fissavo ad occhi sgranati, il moro alzò il capo volgendomi uno sguardo di sfuggita, il quale però, dopo alcuni secondi, si rialzò come se anch’egli mi avesse riconosciuto.
I suoi occhi a mandorla parevano leggermente sgranati, anche se era difficile interpretare un’ombra di emozione su quel volto così candido e illuminato dalla luce fredda proveniente dalla finestra. Sentii un brivido percorrermi la schiena, facendomi rabbrividire, scosso, abbassai il volto paonazzo e mi diressi in ultima fila, inciampandomi nell’ultimo scalino verso i banchi, emettendo un gran baccano.
Mi sedetti, a quanto pare più rumorosamente del solito, dato che il professore che era entrato dopo di me mi aveva lanciato uno sguardo inquisitore.
Schiarii la voce ed aprii il libro, restando per gran parte della lezione con il volto chino su di esso.
Quando, finalmente, riuscii ad alzare lo sguardo verso la cattedra, mi resi conto che esso ricadeva sempre su quella massa di capelli ribelli e corvini, distraendomi come non mi era mai capitato prima.
Notai che aveva scritto almeno cinque pagine di appunti, intervenendo molto spesso per correggere il professore stesso in errori di date e piccoli dettagli sull’omicidio.
La sua voce pareva affilata eppure ovattata a causa dal tono particolarmente baritonale, che mi creava sempre un brivido lungo l’intera spina dorsale.
Holmes, mi chiedo come mai non abbia tenuto lei il corso. A quanto pare le sue nozioni sono molto più profonde delle mie.
Commentò il professore all’ennesimo intervento del moro.
L’essere a conoscenza di una parte del suo nome m’inondò di una gioia immensa, probabilmente non sana, dato che non ci eravamo nemmeno mai parlati, eppure pareva ormai che la sua presenza, almeno nella mia mente, fosse fondamentale. I cinque minuti prima alla fine della lezione cercai, invano, di farmi coraggio ed andargli a parlare, almeno per presentarmi.
Ormai arresomi all’idea di una presentazione, scesi le scale, perso tra i miei pensieri, quando la voce del docente mi fece trasalire:
Watson, giusto? Potrebbe avvicinarsi alla cattedra?
Annuii ed imbarazzato mi diressi di fronte al professore.
Watson, ho notato una certa distrazione da parte sua durante tutta la lezione. Vorrei che questo non accadesse più, dato che noto che la sua media scolastica è molto alta e non vorrei abbassarla a causa della mia materia. Anche se oggi si è svolta solo la prima lezione, abbiamo delineato gran parte degli orrori più importanti che hanno segnato il nostro secolo e quelli precedenti. Quindi la inviterei a chiedere a Holmes, dato che è così perspicace al riguardo, gli appunti e magari una spiegazione. Holmes, mi ha sentito? Il moro trasalì dai suoi pensieri e si avvicinò a sua volta alla cattedra, facendomi constatare quanto egli fosse molto più alto di me.
Mi osservò acutamente, poi si voltò verso il professore:
Non si preoccupi, spiegherò a … Watson, tutti gli avvenimenti spiegati oggi.
Al sentire il mio nome pronunciato da quella voce così profonda mi fece quasi venire un capogiro.
Non riuscivo a capire come mai la sua presenza mi scompensasse a tal punto da farmi richiamare dal professore.
Acconsentii, promettendo che un comportamento del genere da parte mia non si sarebbe più presentato.
Il docente abbandonò l’aula, lasciando me e Holmes da soli.
Sherlock.
Affermò freddamente, mentre terminava di deporre i libri all’interno del suo zaino a tracolla.
C-Come scusa?
Domandai preso alla sprovvista e ancora sconvolto per ciò che stava accadendo.
Sherlock, è il mio nome. Sherlock Holmes. Disse allora, piantando i suoi occhi nei miei blu cobalto.
Oh…che….bel n-nome….
…il tuo?
I-il…mio?
Spazientito, tirò gli occhi al cielo:
Qual è il tuo nome!
Ah- …il mio è John. John Watson.
Sherlock mi porse la mano affusolata, titubante la guardai e la strinsi.
Quando alzai lo sguardo notai che mi fece l’occhiolino accennando un sorriso con le labbra che mi fece arrossire, credo, fin alla punta delle orecchie.
Pregai in tutte le lingue di mia conoscenza che non lo avesse notato, perché sarebbe stato davvero imbarazzante.
 
Fu così che, alcuni minuti dopo, mi trovai da solo con lui nel dormitorio dell’ala est, evidentemente la sua camerata.
Ero piuttosto agitato, perché non avevo mai studiato con nessuno da quando ero arrivato e lui continuava a farmi uno strano effetto magnetico, dato che i miei occhi non riuscivano ad abbandonare per un solo secondo la sua silhouette longilinea che camminava a grandi passi avanti e indietro per la stanza, di fronte al camino.
La sua voce echeggiava nell’ambiente, mentre le sue mani gesticolavano dinoccolate in aria ed io lo contemplavo, non seguendo una minima parola di quello che stava dicendo.
A quanto pare se ne accorse, tanto che d’un tratto si fermò e batté le mani infastidito:
Hai intenzione di continuare a fissarmi con quella faccia da pesce lesso?! Sì, sono io quello che avevi visto due settimane fa! Alleluja, mi hai rivisto!Disse a braccia aperte verso il cielo, con un tono particolarmente sarcastico che quasi mi ferì.
S-senti… ribatteisono molto stanco e… non ho molto la testa per continuare…non potremmo fare domani?
Domani?

Ok. 
Non sapendo più cosa dire, calò un silenzio imbarazzante, il quale mi portò a iniziare a torturare la gamba sinistra, cominciando a stringerla con forza con quella destra.
Holmes mi osservava, schiarendosi di tanto in tanto la voce.
…s-sai… iniziai allora.Mi sono chiesto…molto spesso i-in questi…giorni…chi tu fossi…s-sai…non ti avevo mai visto e…
Non c’è n’è bisogno. m’interruppe freddamente.
D-di cosa..?
Non c’è bisogno che tu ora dica che ti dispiace. Dispiacersi e per idioti e tu non lo sei o così pare. Quindi non dire che ti dispiace per il fatto che mi hanno picchiato per l’ennesima volta, John. Posso…chiamarti per nome?
Oh…I-io…credo di sì…Sherlock…ma…ti picchiano spesso?
Fece spallucce
M-ma…non è giusto che ti picchino…
Io sono troppo intelligente e non capiscono quando parlo, dato che sono degli animali e non comprendono, mi picchiamo, semplice. Il mondo non smetterà di girare se mi picchiano una volta in più.
A te….a te non interessa che ti picchiano? Insomma…fa…male….
Saper controllare la sofferenza ed il dolore è necessario per la sopravvivenza, John.
Lo guardai incredulo, perché parlava come un automa, nonostante nei suoi occhi potessi intravedere una punta di tristezza.
La sua figura avvolta nella divisa nera che gli cadeva a pennello, pareva molto più affascinante da dove ero seduto, dato che la luce pallida della finestra alle mie spalle gli illuminava il volto esangue, mentre il calore del camino gli irradiava i riflessi dei capelli rendendoli particolarmente lucenti.
Deglutii, perché mi resi conto che ormai tutta la mia attenzione e fantasia era stata attratta dalla sua persona.
Forse…è meglio che vada…Sherlock.
Dissi alzandomi titubante, facendo cadere la sedia.
Lo vidi alzare gli occhi al cielo, mentre io mi piegavo a raccoglierla:
Fai sempre tutto questo trambusto quando ti muovi?
Solitamente no…è che…
…è che..?
Nulla…sono stanco, tutto qui.
Mi osservò sospettoso, per poi porgermi gli appunti.
Tienili e dacci un’occhiata, domani ti spiegherò di nuovo tutto. Conosci la biblioteca?
Annuii e presi gli appunti, mettendoli nello zaino.
Lo avevo ormai salutato e stavo uscendo dalla camerata cupa, quando la sua voce mi richiamò.
Mi voltai, osservando la sua figura scura e regale di profilo, girare il volto, posando il suo sguardo su di me.
Grazie per quella volta, John.
I suoi occhi parevano colmi di gratitudine, nonostante il suo volto rimanesse impassibile.
Non c’è di che.
Gli accennai un sorriso sghembo e corsi fuori dalla stanza, sentendomi improvvisamente leggero.
 
                                                                       **********                                                  
 
Ancora oggi non riesco a capacitarmi di come il rapporto tra me e Holmes si sia potuto svolgere così rapidamente, sotto certi aspetti.
Nonostante i nostri caratteri opposti, riuscivamo a comprenderci alla perfezione, o pressappoco, completando a vicenda i silenzi dell’altro.
Dopo quella lezione passarono giorni, settimane, mesi e Sherlock divenne per me la persona più importante nella mia esistenza.
Non ho mai compreso se questo fattore fosse dovuto al fatto che io fossi orfano e di conseguenza nella mia vita erano sempre stati assenti legami di qualsiasi tipo, affettivo e non.
Come descrivere Sherlock Holmes?
Freddo come il ghiaccio antartico, ma ardente come il magma d’un vulcano, con un pizzico di sarcasmo e tanto, troppo tedio esistenziale.
La sua compagnia annullava qualsiasi altra cosa nello spazio in cui ci trovavamo.
Per me esistevamo solo io e lui, però troppo spesso lui sfruttava questo fattore.
Per lui ero divenuto ormai quasi un oggetto, indispensabile sì, ma non più del suo violino o del suo microscopio.
Scoprii, più in là negli anni, che molte volte aveva testato lassativi o veleni nel mio the, mentre io ne ero del tutto all’oscuro!
Eppure, nonostante il suo acuto genio ribelle che lo rendeva spesso saccente, Sherlock era ingenuo come un bambino.
Diversamente dai ragazzi della nostra età, non accennava mai a discorsi maliziosi, non parlava mai di donne o qualsiasi altra cosa che comprendesse un coinvolgimento sentimentale.
Alle volte l’osservavo mentre egli leggeva un libro, assorto nei suoi pensieri, e mi chiedevo se fosse stato plasmato da una statua di marmo di Carrara da qualche esperta mano di scultore come Michelangelo. Altre volte avrei voluto aprirgli la testa e capire cosa ci fosse al suo interno, se almeno in parte, alcuni dei suoi pensieri comprendessero un essere insignificante come me.
 
Un giorno, però, lo vidi piangere.
Ero andato, come ogni giorno ormai da un mese e mezzo, in biblioteca per il nostro studio insieme, ma di lui non c’era traccia.
Così corsi al suo dormitorio, disperato che lo avessero picchiato o si fosse fatto male con un esperimento; arrivato, aprii la porta, ma non vidi nessuno nella sala grande, così salii le scale che portavano alla sua stanza e udii dei singhiozzi.
Ignaro della possibilità che si potesse trattare del mio amico, socchiusi la porta per vedere chi fosse e… mi si gelarono le coronarie: seduto sul suo letto, voltandomi le spalle, curvo ed esile, Sherlock stava piangendo disperatamente, tanto che pareva essere in procinto d’un attacco d’asma.
L’istinto di entrare e consolarlo fu davvero difficile da soffocare, ma conoscendo l’indole chiusa del mio amico, pensai che lasciarlo sfogare in pace fosse la cosa migliore.
Alcuni giorni dopo scoprii che era stato soppresso il suo cane, Barbarossa.
Dopo quell’avvenimento i miei occhi videro Sherlock Holmes con una nuova sfaccettatura, capendo quanta sofferenza probabilmente lui soffocasse ogni dì dentro sé stesso, senza condividerla con me.
 
Cercavo, ogni giorno, di farlo sorridere, con qualche battuta, ma erano assai rare le volte che si concedeva a tale privilegio.
Rannicchiato su sé stesso, appollaiato sulla finestra della sala comune dove consumavamo i pasti, sospirava e sospirava ancora, contemplando il cielo grigio e la neve, sorvolata dai contrastanti e gracchianti corvi.
Mentre gli altri mi parlavano, io lo osservavo, desiderando ardentemente, ogni giorno di più, di poter completarlo del tutto.
A quanto pare, ero il suo unico amico e l’unico con il quale parlava di tutte quelle cose che gli piacevano tanto come la chimica, il crimine, la biologia, l’anatomia, ma nulla era come sentirlo parlare di letteratura sensazionale o suonare il violino.
A questo riguardo, non potrò mai dimenticare il giorno del mio compleanno.
Non avevo mai ricevuto regali di alcun tipo, tanto meno mi aspettavo di riceverne da qualcuno.
Mi ero appena svegliato, era domenica e gran parte del mio dormitorio era a casa a passare il weekend con la famiglia.
Sherlock, che non andava mai a casa, bussò alla porta con in spalle il violino ed in braccio un libro, facendomi sobbalzare.
Sherlock! Ma sai che ore sono?
Le sei del mattino…allora?
I campi ormai spogli dalla neve candida che a lungo li aveva accuditi dal gelido inverno, erano inondati d’un blu tenue, mentre le prime luci dell’alba solcavano il cielo.
La stanza era fredda come la luce che la riempiva.
Il mio letto era proprio vicino a uno degli ampi finestroni che davano sulla facciata principale.
Mi sistemai meglio sotto le coperte, cercando di non prendere freddo.
Sei ancora in pigiama! E se la professoressa Smith ti beccava?! Avresti preso una nota disciplinare!
John, hai intenzione di lagnarti ancora per molto?
Sherlock, non hai la vestaglia! Io non voglio che ti prendi un accidente!
Come sempre, tirò gli occhi al cielo.
Posò il violino e il libro al fondo del mio letto, enorme a parer mio, e alzò il piumino infilandosi sotto le coperte insieme a me.
Arrossii senza rendermene conto, rabbrividendo nel percepire l’aria fredda entrare sotto le coperte.
S-Sherl-….cosa….cosa fai?
Hai detto che non devo prendermi un accidente, no?
S-sì…m-ma…
…ma?
Si coricò al mio fianco, rimboccandomi le coperte con un tocco così leggero da rilassarmi all’istante.
Le nostre braccia, una di fianco all’altra, si toccavano, producendo nel mezzo del mio petto una sensazione piacevole, quasi di torpore.
Buon Compleanno, John. disse d’un tratto, volgendomi lo sguardo.
Sgranai gli occhi, perché me l’ero completamente dimenticato che quello fosse il mio compleanno.
t-tu…! C-come…come fai a saperlo?!
Sono entrato nell’ufficio della segreteria e ho letto il tuo fascicolo, semplice.
Sherlock! E’ proibito!
Ssssh! Smettila di starnazzare, John! Di questo passo sveglierai l’intero edificio. disse sottovoce.
Senza rendermene conto, mi trovai a sorridere come un ebete, mentre lo osservavo colto da una gioia immensa.
Nessuno ha mai fatto una cosa del genere per me, Sherlock.
Holmes voltò lo sguardo verso di me, accennando un sorriso con le labbra, incredibilmente dolce:
Lo so, John.
Lo osservai a lungo, mantenendo quel sorriso, osservando ogni millimetro del suo volto. Prima di allora non lo avevo mai osservato da così vicino e nemmeno da appena sveglio.
I suoi capelli erano ancora arruffati e gli occhi leggermente segnati da un paio di piccole occhiaie.
….perchè mi fissi, John?
…perché…s-sei…niente, lascia stare.
Ora me lo dici.
Ho detto che non è niente! ribattei, diventando sempre più rosso, percependo le guance in fiamme.
Allora, perché sei arrossito, John?
Non sono arrossito!
Invece sì.
Invece no!
John, io ti piaccio, non è così? esclamò lui d’un tratto, calmo, come se avesse chiesto che ore sono.
Sgranai gli occhi, sentendo un’ondata di calore pervadermi dai piedi, fino alle guance che iniziarono a pizzicare con forza, facendomi quasi male.
Percepivo il mio cuore battere, tutto d’un colpo troppo forte, portandomi a boccheggiare in cerca d’aria.
Lui mi fissava, apatico, con quello sguardo ingenuo che mi faceva sempre tenerezza.
S-sh….Sher…cosa…cosa dici?
John, non devi nasconderlo, io lo so che ti piaccio. Vedo come mi guardi, come arrossisci e come alle volte cerchi il mio contatto fisico. Puoi dirmelo se è così.
Come potevo dirglielo, miei cari lettori?
Lui, il grande, affascinante, tenebroso Sherlock Holmes, con un ragazzo orfano, bruttino e basso come me?
Come esprimere a parole tutte le notti passate a sognarlo, i giorni passati a fantasticare ad occhi aperti d’un futuro nel quale io e lui combattevamo il crimine a Londra?
John…ehi, John…! mi richiamò con cura la sua voce, ma io non la udii.
Sentii l’emozione salire e per alcuni minuti non riuscii più a parlare, fino a sospirare un flebile:
S-…sì… Sherlock…tu…tu mi piaci.
Il moro parve stranamente sorpreso alle mie parole:
…davvero?
Annuì, senza riuscire a guardarlo per il troppo imbarazzo.
Cosa…cosa ti piace di me, John?
Sherlock era sempre stato molto vanitoso e avevo capito ormai da qualche tempo, quanto adorasse i complimenti.
Mi coprii il volto con entrambe le mani, cercando di riuscire a calmarmi, ma queste continuavano a tremare, senza concedermi tregua.
E-ecco…T-tu… levai le mani e lo guardai: Tu…tu sei…b-bellissimo, Sherlock. Mi-mi sembri uscito da u-un libro romantico, dove…dove il protagonista, tenebroso e tumultuoso, spinto da sentimenti muti e contraddistinti che lo perseguitano, erra per la campagna fuori da Cardiff, quando q-questa è innevata, comparendo di fronte agli occhi d-di…di coloro che hanno perso la via, concedendogli di contemplare il suo volto angelico e perseguitandoli con esso…g-giorno e notte…come un amore febbrile…che non gli da pace…fino…fino a quando non lo rincontrano e allora….allora spinge l’innamorato a stargli accanto o-ogni giorno…come un guerriero…per proteggerlo…
Quando finii quel tumultuoso e sconnesso discorso mi ritrovai senza fiato, ansimante ed in preda ad uno svenimento.
Per la prima volta nella mia vita, vidi Sherlock Holmes paonazzo, con gli occhi sgranati, lucidi e la bocca schiusa.
Pensai per un breve istante di averlo rotto, perché iniziò a fissarmi con quegli occhi sovrannaturali, mentre il labbro inferiore gli tramava con così tanta forza che sentii il cuore stringersi in un pugno.
Sherlock….? sussurrai appena.
Dopo quell’istante nessuno proferì più parola.
Si strinse forte a me, tra le mie braccia, molto più tremante di me. Il suo volto si poggiò nell’incavo del mio collo, lo lasciai fremere su di esso, mentre io restavo immobile.
La voglia di affondare le mani nei suoi capelli era davvero tanta, ma altrettanta era l’emozione di averlo finalmente tra le braccia, sotto il calore dolce delle coperte.
Dopo quel giorno, ogni compleanno fu un giorno davvero speciale, per me.
 
Prima che ci baciassimo, passarono molti mesi, perché per noi la nostra semplice compagnia già ci bastava a vicenda.
In un college di solo ragazzi, avere una relazione del genere era davvero rischioso, ma ogni weekend Sherlock scivolava nel mio dormitorio, scaldando le mie notti con il suo affetto.
I suoi abbracci erano per me la mia casa, i suoi occhi le mie finestre su un cielo turchese, le sue labbra la porta che ci univa in tenerezze delle quali mai avrei creduto che la vita potesse avere in serbo per me e i suoi capelli un cuscino di seta dentro i quali affondare le mie dita.
Da quel momento lui ha continuato ad essere ciò per me, non abbandonandomi mai, o pressappoco.
Diciamo che una volta mi ha fatto prendere un infarto fingendo la sua morte, ma tolto ciò, Sherlock Holmes è l’uomo migliore che io conosca e niente meno che, miei cari lettori, mio marito da due giorni.

 
John H. Watson.
  
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