Cosa vuol dire?
Vuol dire che, per scrivere questa fanfiction, M. a passato a me, V. (for Vendetta! -?), cinque immagini (mavvà?) totalmente arrandom, e io ho dovuto scriverci una storia: giuro che non l'ho costretta io a mettere una foto del Dottore, ha fatto tutto di testa sua! xD
Ah, ovviamente anch'io, V., ho mandato 5 immagini a M., e giuro che lei non mi ha assolutamente costretta a mettere una foto di Lee Pace: anzi, teoricamente volevo solo metterla in difficoltà, lol. La sua storia su Lee "Thranduil" Pace è Point of View.
E direi che ho scritto più che a sufficienza (mi sa che non ho mantenuto la promessa, sorry)... Allons-y! :D
V.
Raining Dreams Circus
le piogge della Perenne
Fine
New
York, 1938.
Quando la "Prima Guerra Mondiale" veniva ancora chiamata la
"Grande Guerra".
“Vuole che il nostro gufo indovino le predica il futuro?”
“Sicuro
di non aver bisogno di una mano?”
I novelli coniugi Doherty, immigrati irlandesi, stavano camminando
lungo Baxter
Street, verso la loro nuova casa: finalmente lo stipendio da barbiere
di Lucien
Doherty aveva permesso alla coppia di permettersi
un’abitazione vera, nel
quartiere dove un tempo stavano i Five Points di Manhattan. Lucien e
Agnes, la
giovane moglie, avevano trascorso le ultime settimane a rimetterla in
sesto e
ora potevano affermare orgogliosamente che, finalmente, sembrava un
posto come
si deve, dove poter crescere una famiglia. Quel giorno, per completare
l’“opera
di ristrutturazione”, Lucien e Agnes avevano comprato la
vernice necessaria per
ridipingere il vecchio cancello, in modo da iniziare a dare anche al
giardino
un aspetto accettabile.
Lucien,
un giovane uomo con la corporatura di un fiammifero e un naso
piuttosto ingombrante, stava portando entrambi i barattoli di vernice
necessari
e Agnes l’aveva trovato in difficoltà: il marito
non era mai stato un gran
sollevatore di pesi e la strada verso casa era ancora lunga.
“Sicurissimo!” rispose Lucien alla domanda della
moglie, sollevando ancora di
più i barattoli per dimostrare la sua presunta resistenza,
anche se con
evidente sforzo “ho forse l'aspetto di chi ha bisogno di una
mano?”
“Hai l’aspetto di chi ha bisogno di due mani…
Sembri una bilancia sbilenca!" rispose ridacchiando
Agnes, una ragazza con la faccia di chi ha sempre voglia di
divertirsi.
“Ti ricordo che questa ‘bilancia’
è riuscita
ugualmente a sposare una certa fanciulla col naso a patata…
anche se ‘sbilenca’!” ribatté
Lucien, con un
sorriso
che ricordava quello di Dick Van Dyke.
“Il naso a patata?!” esclamò Agnes,
fingendosi sorpresa e oltraggiata,
portandosi una mano al petto “è questo che noti di
tua moglie?! Non la
silhouette ammirabile, l’animo gentile, o la luce dei suoi
occhi?!”
“Quando la vidi per la prima volta, i suoi occhi erano chiusi
perché stava
ridendo a qualche battuta: mi son dovuto accontentare ad ammirarle il
naso!”
“Che ragazza poco seria...” aggiunse Agnes,
scuotendo la testa.
“E il marito non è da meno” disse
Lucien, facendole l'occhiolino.
Tra
allusioni e battibecchi, quella conversazione si interruppe quando la
giovane coppia entrò in una piazza dove alcuni saltimbanchi
si
stavano
esibendo: doveva esserci una specie di fiera perché, mentre
una
coppia di mangiafuoco mostrava le proprie abilità e un
gruppo di
circensi vestiti da
animali facevano ridere un gruppo di bambini, alcune bancarelle
esponevano
dolci come focaccine dolci e zucchero filato. Al centro della piazza
stava
anche una piccola tenda, rossa e oro, da cui ogni tanto entravano ed
uscivano
clown, giocolieri e altri ancora: l’insegna recitava
“Raining Dreams Circus”. Agnes
rimase per qualche secondo ad osservare i saltimbanchi che, come i
draghi delle
fiabe, ululavano al cielo sputando fiamme
scarlatte.
“Vado a prendere dello zucchero filato!” disse
Lucien, poggiando a terra la
vernice.
Agnes gli annuì distrattamente, mentre osservava i
saltimbanchi travestiti da
animali: quello con un costume da asino le si avvicinò ed
iniziò a saltellarle
intorno, imitando la cavalcatura folle di un somaro. La ragazza rise e,
vedendo
per terra un cappello in attesa di essere riempito, lasciò
qualche monetina. Sollevò
poi i barattoli di vernice per andare verso le bancherelle, in modo da
raggiungere Lucien, quando l'uomo vestito da asino le si
avvicinò e una voce
ovattata proveniente da sotto il costume le chiese: “Vuole
che il nostro gufo
indovino le preveda il futuro, bella
signorina?”
“Oh no, sono a posto così!” rispose
Agnes: poteva essere divertente, ma non
voleva spendere altri spiccioli per una messa in scena. Inoltre, come
le
insegnava l’esperienza, se qualcuno la chiamava
“bella signorina” significava
che voleva qualcosa in cambio: Lucien, ad esempio, l’aveva
voluta sposare.
La ragazza fece di nuovo per allontanarsi, ma i barattoli la
rallentavano e l’asino
riuscì a bloccarle la strada, mettendosi proprio davanti a
lei.
“È gratis, per le ragazze belle e gentili come
lei!” insistette la voce, con
fare amichevole.
Agnes fissò quegli occhi d'asino con ancora più
sospetto (se il “bella
signorina” pretendeva qualcosa in cambio, figuriamoci il
“gratis”) ma, pensando
che tanto Lucien era a pochi metri di distanza e che nulla poteva
accaderle,
decise di accettare: le divinazioni le ricordavano quando, da piccola,
lei e
sua sorella si divertivano a leggere il destino nelle foglie di
the.
L’asino la condusse all'interno della tenda e, dopo
aver ragliato
un’ultima volta, la lasciò sola. Agnes, prima di
guardarsi intorno, poggiò a
terra i barattoli di vernice e, quando alzò lo sguardo, non
poté fare a meno di
indietreggiare di un paio di passi e di aggrapparsi al tendone per non
cadere.
Davanti a lei c’era il vuoto.
“Le
teste degli animali sbucavano dalle finestre e i loro movimenti
facevano dondolare più o meno bruscamente le case”
O
meglio, un cielo. Un cielo nuvoloso che non corrispondeva per niente a
quello fuori dal tendone. Il terreno, poi, terminava improvvisamente a
pochi metri da lei, precipitando in uno strabiombo dal quale non si
vedeva nemmeno il fondo. Agnes si assicurò di avere i piedi
ben
poggiati a
terra e, cautamente, lasciò la presa: si avvicinò
poi
all’orlo del
precipizio e vide che, sotto di sé, tutto scompariva al di
là di una spessa
nebbia.
“No! No… è solo un’illusione,
un gioco di specchi…” si disse la ragazza e,
anche se il suo cuore le batteva ancora in gola, allungò una
gamba per tastare
la superficie trasparente che, sicuramente, le stava ingannando la
vista… Ma il
suo piede incontrò solo il vuoto.
Agnes riuscì a stento a trattenere uno strillo e
ritornò ad aggrapparsi al
tendone, chiudendo gli occhi fino a strizzare le palpebre: se quello
che aveva
appena visto era un trucco, beh, era di sicuro il trucco più
impressionante che
avesse mai visto!
Agnes sarebbe rimasta in quella posizione per un sacco di tempo, se ad
un certo
punto non avesse sentito qualcosa di ancora più incredibile
di quello che i
suoi occhi avevano appena visto: il barrito di un elefante.
Probabilmente
non
avrebbe dovuto stupirsi così tanto, dato che era dentro il
tendone di un circo
(ma quello era veramente un circo?
O anche
solo un tendone?), però in quel momento non era nemmeno
certa di dove si
trovava… E, quando riaprì gli occhi, ne fu ancora
meno sicura.
A
causa del piccolo shock prima non le aveva notate, ma il cielo era
pieno di
case. E, a loro volta, le case erano piene di animali.
Animali di ogni tipo: da quelli comuni (cani, gatti, topi,
lucertole) ai più esotici (tigri, giraffe, scimmie, persino
l’elefante che
aveva appena barrito). E le case volavano.
O meglio, erano sospese. Anzi, no: erano collegate tra di
loro tramite dei
cavi, e fluttuavano a pochi metri l’una dall’altra,
come se fossero state
mongolfiere. Le teste degli animali sbucavano dalle finestre e i loro
movimenti
facevano dondolare più o meno bruscamente le case che,
comunque, non avevano
per niente l’aria di voler precipitare.
“Sto sognando” si disse Agnes.
“Sono pazza” aggiunse poi tra sé.
“Meglio andarsene” concluse infine e, risollevati i
barattoli, fece per
scostare la tenda… per poi ritrovarsi davanti un volto
sconvolto: il suo.
“Uno… specchio?” si lasciò
sfuggire la ragazza, in un sussurro. Allungò un
dito, esitante, e quello andò a scontrarsi con il naso del
suo rifesso.
“Una… trappola?”
si corresse, per poi voltarsi di nuovo verso le “case
fluttuanti”: alcune erano addirittura più belle di
quella che lei e Lucien
avevano così faticato a rimettere a nuovo.
“Indovinato!” esclamò una voce alle sue
spalle.
Agnes
non si era aspettata di ricevere una risposta: si voltò di
scatto e fece cadere la
vernice a terra, mentre i suoi occhi si focalizzavano su quello stesso
asino
che l’aveva condotta fin lì.
“Tu!” esclamò,
aggrottando le
sopracciglia. Notando che la sua voce sembrava più
arrabbiata che spaventata,
la ragazza si fece un po’ di coraggio.
“Perspicace” rispose distrattamente
l’asino, iniziando a trafficare con gli
zoccoli finti all’interno del suo costume “ora, le
saranno rivolte alcune
domande…”
“Lei vuole fare delle
domande a me?!” l’indignazione
si aggiunse a quel
minestrone di emozioni che Agnes stava provando in quel momento
“non pensa che
potrei avere anch’io qualche domandina da porle,
vero?!”
L’asino la ignorò completamente e, una volta
trovato quello che cercava (un
bloc notes e una matita), le chiese: “Professione?”
“Uscire di qui” rispose Agnes, decisa “la
avviso, mio marito mi starà
cercando!”
“Irrilevante” replicò pacatamente
l’asino “professione?”
Agnes sbuffò e si chiese quanto ci avrebbe impiegato la
rabbia a scomparire,
sostituita dal panico più completo.
“Infermiera…?” rispose, esitante,
sperando
che dire la verità potesse servire a qualcosa: almeno, nelle
fiabe la sincerità
veniva sempre premiata, e lei ormai era finita in un racconto di Lewis
Carroll.
“Bene” disse l’asino, annuendo
“molto bene”.
“Significa che me ne posso andare?” chiese Agnes.
“No” ribatté l’asino
“significa che deve rimanere”.
A quelle parole un paio di energumeni – uno vestito da
gorilla, un altro da
leone – apparvero alle spalle della ragazza e la afferrarono
per le braccia,
trascinandola verso chissà dove.
Fu allora che la rabbia di Agnes fece posto al panico totale.
“N-non
vorrete scaraventarmi giù, vero?!”
balbettò Agnes, dato che il gorilla e
il leone la stavano trascinando verso l’orlo del precipizio.
“Che stupidaggine, lei ci serve” rispose
tranquillamente l’asino “chiamate la
funivia!”
Fu il gorilla ad eseguire l’ordine, battendo con il piede su
un punto ben
preciso del terreno. Agnes sentì da sopra la sua testa il
rumore metallico di
un meccanismo che si attivava e solo in quel momento si accorse che uno
dei
cavi che collegava le case fluttuanti si allungava proprio sopra di
loro. Da un
gruppo di quei mini-zoo volanti si staccò quello che
sembrava il vagone di un
treno mezzo arrugginito, il quale si avvicinò a loro e si
fermò a pochi
centimetri dal terreno. Il gorilla e il leone costrinsero Agnes a
salire su
quella funivia improvvisata e, prima che ripartisse, l’asino
ordinò loro:
“Portatela dal medico dell’altra volta: non sta
combinando granché, e
un’infermiera potrebbe andargli comodo!”
Fu a quel punto che la funivia si mise in viaggio, e Agnes
capì che non avrebbe
nemmeno potuto tentare di scappare… a meno che non avesse
voluto precipitare
all’infinito nel nulla. Mentre il suo cervello cercava di
pensare inutilmente
ad una possibile via di fuga, ignorando la presa fastidiosa del gorilla
e del
leone, la ragazza si guardò attorno e studiò con
più attenzione le case e gli
animali che incrociavano durante il tragitto: la funivia infatti, oltre
che
scricchiolante, era anche terribilmente lenta. Agnes era consapevole di
non
aver visto molto, nella sua ancor breve vita, ma era certa che alcuni
di quegli
animali non potevano esistere in natura: alcuni avevano troppe zampe,
altri il
numero sbagliato di occhi, altri ancora… beh…
erano semplicemente troppo strani
per essere veri. La confusione affiancò la paura e si disse
che, per quel “bella
signorina”, stava veramente pagando un prezzo eccessivo.
L’angoscia crebbe
ancora di più quando Agnes si accorse che non
c’erano solo animali (e mostri,
e… qualsiasi cosa fossero), ma anche persone: la ragazza
riuscì ad intravederne
un paio ch cercava di far rientrare dalla finestra un camaleonte che,
chissà come, era salito sul tetto. Agnes tentò di
non pensare troppo al fatto
che il camaleonte aveva due teste.
“C-che
razza di posto è, questo?” farfugliò,
ma il gorilla e il leone si
limitarono a stringerle ancora di più le braccia.
Alla fine la funivia si fermò davanti alla porta di un
cottage fatiscente che
puzzava di escrementi. Agnes si sforzò di respirare con la
bocca, mentre il
gorilla bussava alla porta con una delle sue gigantesche zampe finte.
Dall’interno
del cottage si udì un sonoro ruggito e Agnes intravide dalla
finestra un gruppo
di oche correre all’impazzata. Aspettarono per un
po’ e, finalmente, la porta
venne spalancata: un ciuffo di capelli disordinatissimi si sporse ancor
prima del
resto della faccia, la quale apparteneva ad un individuo che doveva
essere rimasto
rinchiuso in quel cottage per un sacco di tempo, dato che non aveva
l’aria di
qualcuno con le rotelle a posto. L’uomo aveva le sopracciglia
sollevate
all’inverosimile e stava mostrando all’insolito
trio un sorriso a trentadue
denti: quando, però, vide chi aveva bussato, non
riuscì a nascondere
un’espressione delusissima, tanto che la spiga di grano che
stava mordicchiando
cadde nel vuoto. Agnes ne seguì con gli occhi il tragico
percorso e rabbrividì.
“Oh…
siete solo voi” sbottò
lo
sconosciuto, risollevandosi gli occhiali “ho chiesto a Suzie
di venire ad
aprire, ma non è molto collaborativa oggi… Non lo
è mai, in effetti”.
“Ti abbiamo portato un’aiutante!”
sbottò di malumore il leone, mentre il
gorilla spingeva Agnes all’interno del cottage. La ragazza,
per non fare la
fine della spiga, fu costretta a scontrarsi con l’uomo del
cottage, ma fu
comunque sollevata di essersi liberata di quei due energumeni.
“Well, mi ero preso una
pausa dalle
companion, ma… Okay” esclamò
distrattamente quello, che puzzava di stalla
esattamente come il resto della casa. Le tasche del completo marrone
che
indossava, inoltre, erano piene di fieno e di fili d’erba.
Il gorilla e il leone si congedarono silenziosamente e ripresero il
loro
lentissimo e rumorosissimo viaggio sulla funivia, mentre Agnes si
chiedeva se
quell’uomo avrebbe potuto rispondere alle sue domande:
avrebbe anche voluto che
conoscesse un modo per scappare ma, dato che sembrava essere confinato
lì da un
sacco di tempo, scartò con tristezza quella speranza. Si
aspettò che l’uomo le
rivolgesse la parola di sua iniziativa, ma quello si limitò
a chiudere la porta
e ad avviarsi verso una delle stanze. Agnes scavalcò
un’oca ed evitò un paio di
scimmie che avevano già deciso di prenderla di mira con le
loro birichinate,
quando si accorse che nella stanza, oltre allo sconosciuto,
c’era anche una
vera e propria tigre.
“Per San Patrizio!” gridò Agnes,
portandosi una mano al cuore. La tigre, in
risposta, ruggì: se ne stava sdraiata su un letto a due
piazze, con lo stesso
atteggiamento di un imperatore sul trono.
“Suzie, Suzie, sssttt!” la ribeccò
l’uomo, avvicinandosi alla tigre come se non
fosse per niente pericolosa “se ti comporterai come si deve
con la nuova
ospite, ti prometto che avrai un po’ di fieno
extra!”
“Ma… ma le tigri non mangiano il fieno!”
esclamò Agnes, che si sentì sollevata
perché, per la prima volta da quando era entrata nel
tendone, era sicura di
qualcosa.
“Sto cercando di abituarla ad una dieta
vegetariana!” rispose l’uomo “troppa
carne non fa certo bene!”
“… E lei sarebbe un medico?!”
A quel punto lo sconosciuto sbuffò sonoramente e, per la
prima volta, la fissò
negli occhi: “No che non sono un medico!”
“Mi pareva evidente…”
commentò sarcasticamente Agnes.
“Sono il Dottore, piacere!” aggiunse
l’uomo, sorridendole “ti stringerei la
mano, ma mi sono appena occupato della toeletta delle
scimmie!”
“Mh… Agnes Doherty” si
presentò la ragazza, poco convinta “sono finita
qui per
colpa di un asino”.
“Ti
stringerei la mano, ma mi sono appena occupato
della toeletta delle scimmie!”
“Gli
animali ti portano
sempre verso luoghi strani, vero?” notò il Dottore
“certo, di solito sono solo
conigli in ritardo per un appuntamento, ma…”
“Intendevo dire che era un uomo vestito
da
asino” specificò Agnes: si poteva sapere con chi
stava parlando?! “esattamente
come quel leone e quel gorilla!”
“Oh… Well,
gli
uomini invece ti portano in luoghi noiosi, di solito. Alle partite di
baseball, per esempio”.
Fu Agnes a sbuffare, questa volta. “Non mi sembra per niente
un luogo noioso,
questo!”
“Prova a trascorrere una settimana di convivenza forzata con
una tigre scorbutica,
e poi ne riparliamo” esclamò il Dottore, e a
quelle parole “Suzie” iniziò ad
agitare nervosamente la coda “e comunque quello non era un
uomo, ma un Ferhar”.
“Un… che?” chiese Agnes, ma a quel punto
gli orologi di tutto il cottage
suonarono all’unisono e il Dottore saltellò sul
posto.
“È ora di nutrire il cacatua!” disse a
se stesso, uscendo dalla stanza. Agnes non
sapeva che altro fare, se non seguirlo ed osservarlo mentre prendeva
una scala e
la posizionava proprio sotto una botola sul soffitto.
“Che… che cos’è
un… insomma, quello che ha appena detto?”
ripeté la ragazza.
“Un pappagallo australiano!” rispose il Dottore,
salendo sulla scala e aprendo la
botola con una sorta di aggeggio rumoroso che sparava una luce blu.
“No, non il cacatua… quello prima!”
“Oh… Intendi il Ferhar!” disse il
Dottore, mentre entrava nel sottotetto e spariva
dalla sua vista. Agnes, dopo un attimo di esitazione, si
arrampicò anche lei
sulla scala e lo raggiunse mentre apriva un lucernario che lo avrebbe
portato
sul tetto.
“Sì… quello”
sbottò Agnes.
“I Ferhar sono alieni!” spiegò (non
spiegando chissà che, in effetti) il
Dottore, uscendo sul tetto con un balzo. Per fortuna il tetto era basso
e Agnes
riuscì a raggiungerlo, anche se poi si ritrovò
con il fiatone.
“A-alieni?” ripeté la ragazza, prendendo
fiato “in che senso?!”
In quel momento si trovavano entrambi sul tetto, nel bel mezzo del
cielo
nuvoloso, con un coretto di animali di ogni tipo che costringeva loro
ad alzare
la voce per farsi sentire.
“Nel
senso che non sono di questo pianeta!” rispose
frettolosamente il Dottore,
mentre cercava di orientarsi con lo sguardo tra le case fluttuanti.
Agnes disse la prima cosa che le passò per la testa.
“Dall’accento, sembravano
proprio di questo pianeta!”
“Diresti che gli scozzesi sono di questo pianeta, da come
parlano?! No, eppure
lo sono!” esclamò il Dottore, sconvolgendole
ancora di più le idee “e ai Ferher
è stato sufficiente travestirsi da animali per confondersi
tra di voi…
Rifletterei un po’ su questo, al posto tuo”.
Agnes intuì che quello doveva essere una specie di insulto,
ma in quel momento
stava cercando di razionalizzare tutto ciò che le era
accaduto fino a quel
momento… fallendo miseramente, ovvio.
“Significa che… che… sotto quei costumi
sono… alieni?!” disse, e si sentì una
completa stupida anche solo a pronunciare una frase simile, figuriamoci
a
crederci.
“Esatto” si limitò a dire il Dottore,
avvicinandosi ad uno degli angoli del
tetto.
“E… lei ci crede sul serio?!” gli
domandò Agnes.
“Come ti spiegheresti tutto questo, altrimenti?”
“Beh, io… Aspetti, che
ha intenzione di
fare?!”
Il Dottore, infatti, aveva puntato con gli occhi una delle
case più vicine
al cottage, a circa un metro di distanza da loro, e sembrava sul punto
di voler
fare una rincorsa.
“Il cacatua si trova in quella casetta, e non mangia da
ore” spiegò lui.
“N… Non vorrà saltare, vero?”
“Oh, di più: lo farò!”
“Ma… ma non ha ancora finito di
spiegarmi!” protestò Agnes “non so
nemmeno se
crederle!”
“Seguimi, allora! Allons-y!”
Detto questo, il Dottore con un balzo atterrò sul
tetto della casa di
fianco, facendo sembrare l’impresa non particolarmente
difficile, in effetti…
Ma Agnes aveva ancora in mente la spiga di grano di poco prima, che
probabilmente non aveva ancora trovato il fondo.
“Lei
è pazzo, se pensa che salterò”
borbottò la ragazza, cercando di non
guardare giù.
Il Dottore sorrise spensierato, come a voler confermare
l’ipotesi della sua
pazzia. “Dovrai farlo, a meno che tu non voglia veramente
provare a convivere
con una tigre”.
“L-Lucien mi troverà, a momenti, e tutto si
sistemerà!” balbettò Agnes, ma
faticava a credere alle sue stesse parole: anche se suo marito
l’avesse
trovata, sarebbero comunque rimasti prigionieri per sempre…
A ben pensarci,
sarebbe stato meglio per lui non trovarla affatto.
“E questo Lucien era con te, nei pressi del circo?”
le chiese il Dottore,
mostrandosi improvvisamente serio.
“Sì, eravamo insieme… poi io ho
incontrato l’asino, o quel che è,
e…”
“Penso che i Ferher abbiano rapito anche questo
Lucien” la interruppe il
Dottore, parlando più lentamente “è
così che agiscono: aspettano che le
coppiette o i gruppi di amici si dividano, e poi decidono il da
farsi… Se hanno
qualche competenza, gli umani vengono portati qui, dove possono
prendersi cura degli
animali, o almeno tentare… Altrimenti vengono portati alla
Fabbrica”.
“La… Fabbrica?” Agnes non
riuscì a dire altro: possibile che avessero preso
anche Lucien? Sul serio?!
“È una scuola abbandonata che i Ferher usano per
lavorare il materiale che
serve per costruire le case, o ripararle” spiegò
il Dottore “Tu sei l’unica ad
essere giunta qui, oggi, quindi Lucien sarà alla
Fabbrica”.
“N-non gli faranno del male, vero?”
“Non se sarà utile”.
Finché era stata lei ad essere in pericolo, Agnes si era
trattenuta dal
piangere, ma in quel momento non poté impedire ai suoi occhi
di inumidirsi. Non
le piaceva per niente piangere davanti agli sconosciuti, ma si
lasciò comunque
cadere in ginocchio sul tetto, iniziando a singhiozzare come una
bambina.
“Siamo prigionieri in questo posto assurdo, e intanto
Lucien… Lucien…”
Il Dottore, con
un paio di passi, raggiunse il margine del tetto e si mise
seduto, con le gambe penzoloni.
“No che non siamo prigionieri. Noi non di certo”.
“Ha parlato quello che dà del fieno ad una
tigre…” borbottò Agnes, cercando di
riprendersi.
“È un po’ schizzinosa, tutto
qui!” si giustificò il Dottore con un guizzo, poi
ritrovò una sorta di serietà e mise gli occhiali
in una delle tasche del
completo “Ascolta… Sono qui per salvare tutti
quanti: gli animali, le persone,
tu, Lucien… Anche Suzie, se me lo chiede
gentilmente!”
“Lei… sa come uscire di qui?” chiese
Agnes, sorpresa.
“L’ho sempre saputo, ma prima devo portare tutti
quanti dentro il Tardis”
rispose il Dottore “pensavo di farlo lentamente, senza dare
troppo nell’occhio,
ma stare rinchiuso con questo tempo uggioso non fa certo bene al mio
umore… Ci
vuole un cambio di stile!”
“E poi… poi salverai anche le persone
di… di questa Fabbrica?”
“Yep”.
Agnes, nonostante tutto, gli credette: credergli era l’unica
speranza che
aveva.
“Vengo con lei” decise la ragazza, alzandosi in
piedi ed asciugandosi gli
occhi.
Il Dottore si irrigidì e la studiò dal basso
verso l’alto. “Se mi segui, sarai
in pericolo”.
“Ma potremo salvare Lucien?”
Anche il Dottore si risollevò. “Forse”.
“Allora vengo” concluse Agnes, anche se, come si
dice, tra il dire e il fare
c’è di mezzo il mare. O, in questo caso, circa un
metro di vuoto tra un tetto e
l’altro.
La ragazza calcolò la distanza necessaria per la rincorsa e
fissò la casa
davanti a lei, prendendo un respiro profondo. Un metro non era molto.
In poco
tempo era stata rapita da un alieno vestito da asino e si era ritrovata
in una
sorta di zoo volante: era sicuramente in grado di gestire un metro.
La spiga…
Agnes scosse la testa e, per la prima volta nella sua vita,
comprese perché
smettere di pensare poteva essere utile, a volte. Senza rendersene
conto
appieno aveva già iniziato a correre e, quando stata
realizzando che lo stava facendo sul serio, era
atterrata sul tetto dell’altra casa.
“Brilliant!”
esclamò il Dottore,
mentre la ragazza iniziava a ridere per il sollievo.
“Quindi… quindi…” e
giù un’altra
risata “quindi… quindi, quelli del circo sono
tutti alieni?!”
“Yep!” rispose il Dottore, e, di riflesso,
scoppiò anche lui a ridere.
“Chissà che aspetto hanno, allora…
Ahahahaaa!”
“Ahahahahaaa!”
“Aahahahahaaa!”
“Ahah… Fidati, non ti
piacerebbe saperlo” si interruppe il Dottore, tradendo
all'improvviso un’espressione di
disgusto.
“Ma…
E lei come fa a sapere tutto questo?” gli domandò
Agnes, dopo aver esaurito la
ridarola.
“Te l’ho detto: sono il Dottore”.
La ragazza scosse la testa. “Un dottore in… alienologia?”
“Sono il Dottore e basta”
tagliò corto lui.
“E… dà la caccia agli
alieni?”
Il Dottore sollevò un sopracciglio. “Ti ricordo
che sei un alieno anche tu”.
Agnes lo guardò, attonita. “No che non lo
sono”.
“Certo che lo sei”.
“Ma… sono nata a Carlingford!”
ribatté la ragazza “che si trova sulla Terra,
per inciso!”
“E io non sono nato sulla Terra, men che meno a Carlingford,
quindi per me sei
un’aliena a tutti gli effetti” spiegò
tranquillamente il Dottore.
“Aspetti…” Agnes chiuse gli occhi per un
istante “mi sta dicendo che lei
è un alieno?!”
“No, tu sei
l’alieno!” la corresse il
Dottore.
“Va bene… riformulo la
domanda…” scandì per bene la ragazza,
cercando di non
spazientirsi “Lei. Non. È. Di. Questo.
Pianeta?”
Il Dottore aggrottò le sopracciglia. “Ti sembro
forse un terrestre?!”
Ad Agnes sfuggì un sorriso. “Veramente…
sì”.
Il Dottore scosse le spalle. “Well…
È
un errore che commettono in molti”.
Agnes non sapeva cosa dire: nel dubbio, pensò che fosse il
caso di passare
oltre.
“Qual è il passo successivo?”
domandò.
“Nutrire il cacatua” rispose il Dottore
“e portare tutti quanti nel Tardis,
mentre i Ferher sono occupati con lo spettacolo delle nove!”
“Nel… che?” lo interruppe Agnes.
“Lo vedrai” si limitò a dire il Dottore,
facendole l’occhiolino “ma prima
dovrai saltare ancora un paio di volte!”
Agnes alzò gli occhi al cielo e iniziò a pregare.
* * *
“Una scatola blu” fu il suo commento “mh”.
Il Dottore ne fu indignato. “Una scatola?! Senti, irish one, questo è un vero e proprio pezzo vintage! Anzi, per te è fantascienza pura, dato che siamo nel… Ecco, in che anno siamo?”
“Nel 1938” rispose Agnes, allibita “e mi rifiuto di chiederle perché non lo sa: ne ho abbastanza, per oggi”.
“Sei fortunata a vivere in America” disse sovrappensiero il Dottore mentre, con un ultimo passo, abbandonava l’ultimo tetto di quella camminata insolita ed apriva la sua scatola “vintage”.
“E questo cosa vorrebbe dire?!” domandò Agnes, seguendolo a ruota.
“Che non mi farei una scappatella in Europa, se fossi in te” rispose lui, ma a quel punto la ragazza non stava più ascoltando.
“Oh. San. Patrizio”.
“Yep”.
“Oh. Santi. Tutti”.
“Sai, non è una chiesa, ma comunque…”
“È proprio come il tendone!” lo interruppe Agnes, saltellando intorno a quella che era la console del Tardis “è più grande all’interno!”
“Sì, è esattamente cos… NO, ASSOLUTAMENTE NO”.
Agnes si immobilizzò, presa in contropiede da quell’improvviso cambio di voce.
“Non. È. Assolutamente. Come. Il. Tendone” scandì per bene il Dottore, come se la ragazza avesse appena bestemmiato “quella è una tecnologia primitiva, una specie di teletrasporto di cui nessun fisico andrebbe fiero: pure l’armadio di Narnia è fatto meglio! No no, questa è vera tecnologia Time Lord, e…”
“… e puzza di stalla” completò Agnes, fingendo di aver capito tutto.
“Certo che puzza di stalla! È piena di animali!” esclamò il Dottore “vedi, vedi?! I castori hanno provato di nuovo a costruire una diga!”
“È una specie di Arca di Noé” notò Agnes “ma… è sicuro che qua dentro ci staranno tutti quegli animali?! E le persone?”
“Yep! Sai, è molto più grande all’interno!”
“Ma, Dottore… perché i Fearer…”
“I Ferher” la corresse lui.
“Mh, lo sa di essere pignolo, vero?” lo criticò Agnes, ma il Dottore lo prese per un complimento “comunque, come mai i… Ferher… stanno facendo tutto questo? Perché stanno raccogliendo tutti questi animali? Per farci cosa?”
“Well… Ti direi di metterti comoda, ma è meglio se ti spiego mentre riuniamo tutti gli animali” disse il Dottore “e, sì, anche le persone”.
Detto questo, si mise a trafficare con la console di quella strana casa, azionando comandi di cui Agnes avrebbe faticato a comprendere la funzione, fino a quando l’ambiente non iniziò a muoversi e la ragazza, sorpresa, fu costretta ad aggrapparsi alla prima cosa che le capitò davanti: il Dottore non l’aveva avvertita che si sarebbero spostati. Non del tutto consapevole di quello che stava accadendo (dato che, agli occhi di un esterno, la cabina blu stava scomparendo per materializzarsi a pochi metri di distanza), Agnes sentì gli animali di tutto il Tardis lamentarsi di quel viaggio movimentato, anche se breve. Poi, mentre raccattavano serpenti, criceti, coccodrilli, dromedari e creature di ogni tipo, il Dottore spiegò alla ragazza che i Ferher si credevano vittime di una profezia (giacché c’è sempre una profezia) secondo la quale, a parer loro, delle “Piogge Perenni” avrebbero finito con l’allagare l’intero universo, portando all’estinzione di ogni creatura vivente. Per questo motivo viaggiavano in ogni angolo delle galassie conosciute, raccogliendo il rappresentante di ogni singolo animale e razza, in attesa di ospitare tutti quanti in una sorta di “terra promessa” che non si era ancora rivelata.
“Credono fermamente in questa profezia perché il loro mondo d’origine è stato sommerso dalle acque secoli orsono” spiegò il Dottore, mentre teneva sulle spalle un boa constrictor “e non hanno più fatto ritorno da allora: il loro pianeta è di nuovo vivibile, ora, ma non lo sanno nemmeno! E di questo mi occuperò dopo aver recuperato tutti quanti… Questi animali soffrono, al di fuori del loro habitat”.
“È… è tutto così… incredibile” commentò Agnes, dopo una pausa causata da un paio di iene che avevano iniziato ad inseguirla, ridendo sguaiatamente “ma… come fanno a credere ad una profezia?! Insomma… le profezie non sono vere, no? Sono cose da sciocchi!”
Incredibilmente il Dottore, che sembrava tutto scienza e logica, non le diede ragione: anzi, distolse lo sguardo da lei con la scusa di separare il boa da un paio di topini.
“Alcune profezie predicono il vero” disse, con uno strano tono nella voce “ma, sì, quella delle Piogge Perenni è solo una superstizione: ci sono stati dei diluvi, ma non durano mai per sempre. La pioggia viene assorbita dalla terra. L’acqua evapora nell’aria. E tutto ricomincia, ogni volta”.
A quel punto il Dottore parve riscuotersi da chissà quali pensieri e, frettolosamente, si mise a fare il censimento del Tardis additando uno per uno gli animali presenti. “Zebra-orso-dolpome-rillo-gipeto-koala-truffolo-unicorno-scorpione… NO”.
“‘No’ cosa?” domandò Agnes, mettendosi subito sulla difensiva.
“Manca il camaleonte bipenne” la informò il Dottore.
“Oh… quello a due teste?!” ricordò la ragazza “beh… immagino che non sarà una gran perdita, per l’universo…”
Il Dottore la fissò con un sopracciglio sollevato di disapprovazione.
“… Stavo scherzando” si corresse subito Agnes “mentre mi portavano da lei, l’ho visto su uno dei tetti delle case…”
“Il camaleonte bipenne ha sempre tentato di fuggire” disse il Dottore “probabilmente lo troveremo nei pressi dello specchio che cela l’uscita dal tendone… Dobbiamo sbrigarci, però: lo spettacolo sta finendo”.
Dopo l’ennesimo burrascoso spostamento, quindi, il Tardis si materializzò sugli unici metri quadrati di terra del tendone, dove una delle teste del camaleonte bipenne si stava ammirando allo specchio: l’altra, invece, era troppo occupata a cercare di mordersi la coda. Agnes ormai si era ritrovata ad accarezzare e prendere in braccio creature di ogni sorta, così non si fece problemi a sollevare con entrambe le mani l’insolito animale. A quel punto, però, il tendone venne scostato ed entrò il Ferher vestito da asino che, nel vedere lei e il Dottore, diede in escandescente.
“Ma che…?! Come… ?! E… cosa?! Ma…” il somaro spostò lo sguardo verso il cielo nuvoloso e, quando vide che ogni singola casa era vuota, strillò come una donnicciola: “GUARDIE!”
Le “guardie” in questione erano il gorilla e il leone, che si misero subito in mezzo tra il duo con camaleonte e il Tardis per impedire loro la fuga.
“Cosa sono quelli?!” domandò il Dottore, indicando i due barattoli di vernice che Agnes aveva scordato.
“Le sembra questo il momento?!” sbottò la ragazza, che non voleva farsi toccare di nuovo da quei tizi, specialmente ora che sapeva che alieni!
“Dimmi cosa sono e basta!”
“È la mia vernice!”
“Brilliant!” commentò il Dottore e, con uno scatto, afferrò uno dei barattoli, lo aprì con uno scatto e lo versò addosso al leone e al gorilla: intanto l’asino, colto alla sprovvista, pensava a come reagire.
“RUN!”
Il Dottore prese Agnes per mano (quella libera, dato che l’altra stava tenendo il camaleonte per la coda) e insieme rientrarono nel Tardis, finalmente al sicuro.
“E ora andiamo dal tuo Lucian” stabilì il Dottore, mentre Agnes riprendeva fiato e posava il camaleonte sul pavimento.
“Lucien” lo corresse prontamente la ragazza.
“Mh, lo sa di essere pignolo, vero?” le fece il verso il Dottore, mentre quella specie di colonna che faceva parte del meccanismo del Tardis si sollevava e riabbassava ritmicamente, conducendoli all’interno della Fabbrica.
“Se questo mi fa ridere, deve essere stata una giornata veramente difficile”
“Qui le nostre strade si divideranno per un po’” disse a quel punto il Dottore.
“… Come, prego?!” lo ribeccò Agnes.
“Devo trovare i responsabili di questo posto” spiegò il Dottore “intanto, tu potrai cercare tuo… fratello? Amico? Dama di compagnia?”
“Marito” precisò Agnes “e… e se mi ritrovo davanti un alieno? Cosa faccio?!”
“Porta qualcuno con te” rispose semplicemente il Dottore “una iena, magari? Ho notato che stavate facendo amicizia!”
“… Non puoi prestarmi un’arma, piuttosto?”
“Non ho armi”.
“E quell’aggeggio con la luce blu che hai usato prima?!”
“Non è un’arma, è un cacciavite sonico!”
“Potrebbe aiutare ugualmente”.
“Sì, per aiutare aiuta… ma aiuta me” ribatté il Dottore “Well.. a te posso dare questo, però”.
Da dietro un lupo addormentato il Dottore sollevò il secondo barattolo di vernice, quello che non aveva usato per fuggire dai Ferher.
“E quello cosa sarebbe?!” chiese Agnes.
“È vern…”
“Lo so cos’è” lo interruppe la ragazza “ma che dovrei farmene?!”
“Poco fa è stato utilissimo!” replicò il Dottore “dice il saggio: ‘Porta sempre un barattolo di vernice con te’”.
“E lei sarebbe il saggio?!” Agnes sospirò “beh… immagino che dovrò accontentarmi, dato che delle iene non mi fido”.
“Puoi farcela, irish one” le disse il Dottore, posandole una mano sulla spalla.
“È che… potrei avere un po’ paura” confessò la ragazza, distogliendo lo sguardo per sollevare il barattolo di vernice.
“Lo so… e I’m sorry” mormorò il Dottore “I’m so sorry. Ma terrò i Ferher lontano da te, mentre cerchi tuo marito”.
Agnes sorrise. “Grazie”.
A quel punto i due uscirono dal Tardis e presero direzioni opposte. Agnes si sentiva un po’ un’idiota, a passeggiare in un edificio abbandonato con un secchio di vernice che le dondolava da una mano, e si chiese se sarebbe riuscita a passare per una che lavorava per i Ferher, se fosse stata scoperta. Cauta, iniziò a sbirciare all’interno delle aule, cercando un volto a lei familiare, e si stupì di vedere che quegli alieni avevano proprio rapito chiunque, senza distinzioni: anziani, bambini, donne con vestiti eleganti, poveracci d’ogni sorta… Avrebbe voluto avvisarli che, presto, sarebbero stati liberi, ma probabilmente non era il caso agitare tutti quanti prima del previsto. Stava ormai gironzolando da un po’, quando raggiunse quella che un tempo era stata la classe 2B. Sotto il numero della sezione qualcuno di piuttosto annoiato aveva aggiunto “or not 2B” e Agnes, inaspettatamente, riuscì a stento a trattenere il riso.
“Se questo mi fa ridere” si disse “deve essere stata una giornata veramente difficile… E non è nemmeno finita”.
Agnes continuò la sua esplorazione, quando da uno dei piani superiori dell’edificio sentì dei rumori: qualcuno stava lottando, e sicuramente il Dottore si trovava in mezzo. Per un istante fu tentata di raggiungerlo, ma il pensiero di Lucien la costrinse a ritornare sui suoi passi: aveva imparato che il Dottore sapeva cavarsela da solo, e poi aveva quel suo “cacciavite ionico” con sé, qualunque cosa fos…
Una mano l’afferrò da dietro all’improvviso e Agnes cacciò un urlo, terrorizzata. Istintivamente la ragazza morse la mano dell’aggressore, sollevò il barattolo di vernice sopra la testa e glielo scaraventò sulla schiena con tutta la forza che possedeva… e, complice l’adrenalina, era veramente tanta.
“A… Agnes?"
“Una mano l’afferrò da dietro all’improvviso e Agnes cacciò un urlo, terrorizzata”
“Lucien!”
Agnes si precipitò sulla figura che ora se ne stava distesa
a terra, dolorante,
con i vestiti e il volto sporchi di fuliggine.
“Agnes… pensavo… pensavo ti avessero
rapito!” riuscì a dire Lucien, mentre la
ragazza lo aiutava a rialzarsi in piedi.
“Lo hanno fatto, in effetti, ma non è durata
molto” esclamò Agnes
“ascolta… il
Dottore si sta occupando dei Ferher, ma anche noi dobbiamo fare la
nostra
parte: cerchiamo di radunare più gente possibile e
portiamola dentro il
Tardis!”
“Il… Dottore? E… cosa?!”
biascicò Lucien, ancora stordito sia per la botta
subita sia per quelle parole che non comprendeva.
“Fai come ti dico” tagliò corto Agnes.
“Già… va sempre a finire
così, vero?” commentò Lucien, ma poi
fece come la
moglie gli aveva detto e, quando condussero tutte quelle persone dentro
la
cabina blu (con un coretto di “Ooooh! È
più grande all’interno!”), Agnes
trovò
il Dottore in compagnia dell’asino, del gorilla e del leone
(ancora sporchi di
vernice), insieme ad altri componenti del Raining Dreams
Circus… tutti svenuti,
dal primo all’ultimo. La ragazza brandì subito il
barattolo, a mo’ di arma.
“Che ci fanno loro qui?!”
“Tranquilla, li riporterò sul loro pianeta
d’origine” la rassicurò il Dottore
“esattamente come tutti gli altri. Ma
prima…”
Con un paio di saltelli si avvicinò a lei e a Lucien.
“… vi riporto a casa.
Meritate di essere i primi”.
Lucien lo squadrò da capo a piedi. “E questo chi
sarebbe?!”
“Il Dottore”
rispose Agnes, come se questo
potesse spiegare qualsiasi cosa.
“Dottore in cosa,
esattamente?”
La ragazza scosse le spalle. “In qualcosa che ti ha appena
salvato la vita,
credo”.
“Tu mi hai appena salvato
la vita” la
corresse Lucien.
“Mh… Mi prendo volentieri il merito!”
esclamò Agnes, mentre osservava il
Dottore pilotare la sua “scatola vintage”
un’ultima volta.
*
* *
Quando
le porte del Tardis si riaprirono, Agnes notò che si
trovavano
proprio in mezzo agli ex Five Points.
“Io… ti aspetto in casa. Credo”
borbottò Lucien, un po’ imbarazzato
perché non
aveva capito granché di quello che era appena successo.
“Se vedi un saltimbanco, scappa” gli disse Agnes,
dandogli un bacio sulla
guancia “a dopo”.
Lucien si allontanò quindi da quella cabina prodigiosa,
mentre Agnes si limitò
ad uscire: si rese conto che era ormai notte inoltrata e nessuno era in
giro
per le strade.
“Allora… irish
one” iniziò a dire il
Dottore, appoggiato allo stipite della porta “che cosa farai,
ora?”
“Beh… prima di tutto, dovrei comprare della
vernice nuova” improvvisò Agnes,
abbozzando un sorriso “e poi… Boh, non so. Cose
normali, immagino… Ma, ogni
tanto, mi capiterà di pensare a questa giornata, e mi
ricorderò che le cose non
devono per forza essere normali”.
“Abbiamo appena fermato degli alieni con della vernice,
quindi direi che le
cose stanno così” si limitò a dire il
Dottore, abbassando lo sguardo.
“E lei, Dottore? Cosa farà, invece?” gli
domandò Agnes.
Lui si lasciò sfuggire una mezza risata.
“‘Cose normali, immagino’…
Andrò a…
come avevi detto?... a ‘caccia di
alieni’!”
“Ma non è quello che fa, vero?” disse
Agnes “no, lei non va a caccia di alieni…
Lei li salva”.
Il Dottore non rispose subito.
“A volte” disse, infine.
In
quel momento Agnes si rese conto di una cosa: il Dottore viveva
sicuramente
ogni giorno avventure straordinarie, ma, per qualche motivo, non era
felice.
C’era una sorta di tristezza latente in lui, una sorta di
malinconia
rassegnata che nessuno, men che meno lei, avrebbe mai potuto
risollevare. Era
la stessa rassegnazione di chi sa che presto le cose sarebbero cambiate
per
sempre e, se qualcuno riusciva a trovare nella fine una sorta di
serenità, il
Dottore poteva solo tormentarsi.
“Grazie al cielo sono stata una di quelle volte”
disse Agnes, sorridendogli
“quindi, Dottore, non essere triste… Per
favore”.
Il Dottore accennò un sorriso che non convinse per niente la
ragazza, ma fu
costretta ad accontentarsi di questo.
“Addio, irish one” mormorò.
“Addio, Dottore” rispose lei.
La porta del Tardis, che ora era veramente una sorta di Arca di
Noé, si chiuse
e, poco dopo, il rumore che per qualcuno era stato così
familiare interruppe il
silenzio del quartiere: per Agnes non sarebbe mai diventato
un’abitudine, ma
era certa che non l’avrebbe mai dimenticato. Poi la cabina
iniziò a
smaterializzarsi e alla fine scomparve, come se non fosse mai stata
lì.
“Per San Patrizio… faceva così ogni
volta?!” si chiese Agnes, sorpresa. Poi,
senza un vero motivo, la ragazza alzò gli occhi al cielo
notturno, senza
osservare nessuna stella in particolare, semplicemente guardando
l’universo
sopra di sé. Fantasticò sul futuro, sul cancello
che attendeva di essere
verniciato, e sorrise.
Sì,
la vita di Agnes Doherty sarebbe andata avanti, e così anche
quella di Lucien… ma,
tra le stelle, una canzone stava per giungere alla sua conclusione. La
storia,
invece, non ha mai fine, o così almeno è stato
predetto da un’altra profezia,
una di quelle che dicono la verità: ciononostante, questo
specifico racconto
deve terminare… fiero di aver prolungato, anche se per poco,
una canzone che
tutti vorrebbero riascoltare.
“But
we had the best of times”.
“The
best”.